La pioggia del 7 maggio

di

A. L. Teriaca


A. L. Teriaca - La pioggia del 7 maggio
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 86 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-4936

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In copertina: “Sous la pluie” (Parigi 2011) di Anna Lisa Minnone


Biografia: C. Grosso, Phd


Foto dell’autrice: “In the Library” (Lucca 2012) di Stefania Sale


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2013


Prefazione

A. L. Teriaca, nel suo libro “La pioggia del 7 maggio”, racconta il lacerante rapporto tra un uomo e una donna mettendo a nudo le situazioni più devastanti e le emozioni recondite insite nell’animo umano.
Sul palcoscenico terrificante di quella che sembra una vita normale, i due protagonisti, Angie e Martin, si muovono come simboli sacrificali destinati a soccombere all’interno di un inferno quotidiano.
Durante la narrazione dominano lo stato di tensione permanente ed il senso d’incombente tragedia, che aleggiano sull’intero racconto con picchi verso la follia e cadute abissali, quasi a rappresentare un totale annullamento, nel corpo e nella mente, da parte di una donna che si ritrova ad essere vittima d’un rapporto malato.
In un continuo conflitto relazionale tutto viene vivisezionato e la scrittura di A. L. Teriaca riesce a tenere inchiodati fino all’ultima pagina, come a seguire una sequenza filmica che prelude ad un finale esplosivo.
Angie è “bella e buona come un angelo” e gli uomini “si innamorano di lei all’istante”, sottolineando continuamente queste parole, quasi venisse eletta ad angelo salvifico delle loro vite: purtroppo, Martin è geloso e possessivo, sembra “godere nel farle paura”, sovente è ubriaco e, come un torturatore psicologico, la perseguita in ogni occasione ed in ogni modo.
La persecuzione oltre ad incidere sul corpo è così forte da intaccare anche la mente e le misere certezze che le sono rimaste: la concezione della donna come salvazione per l’uomo, in questo caso, diventa decretazione d’un totale fallimento con l’inesorabile caduta nel baratro della paura da parte della protagonista.
La narrazione segue il filo di un dialogo a due, cosparso di accuse ingiuste e rimproveri puerili, di minacce ed offese, di discussioni pesanti e gesti violenti da parte dell’uomo che, dopo gli iniziali gesti romantici, pare trasfigurato e diventato un sadico che la opprime con un delirio angosciante, toccando vertici di terrore, e la sua figura diventa simbolica immagine del lacerante processo di trasformazione: dalla speranza d’amore si passa al sogno infranto e si finisce all’incubo.
La relazione sentimentale diventa martirio, un avvelenamento continuo con reiterate ed insistenti domande che si iniettano nella pelle come lancinanti ferite che non potranno cicatrizzarsi: si assiste ad un lento scivolamento dentro la paura da parte di una donna ormai sfinita, con le “labbra serrate ed il cuore in gola”, con lo sguardo smarrito ed il gelo nel sangue, vittima di umiliazioni che non può più sopportare.
A. L. Teriaca, grazie ad una scrittura incalzante e coinvolgente, riesce a rendere, nel miglior modo possibile, la realtà vissuta da una donna, come a riprodurre la fedele dinamica del tempestoso percorso esistenziale, costellato da terrificanti momenti e situazioni angoscianti assai difficili da superare.
In una notte di pioggia tutto si avvera. Svoltato l’angolo di casa sarà definitivamente libera sotto quella salvifica “pioggia leggera” del traffico della città. Forse.

Massimo Barile


La pioggia del 7 maggio


a Valentina P


“Quanto poi allo stile, io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto questa opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno […]”

(Vita, Vittorio Alfieri)


La pioggia del 7 maggio

– C’è qualche altro favore che vuoi farmi?

Ho sempre incontrato dei gentiluomini. Cavalieri fin nei minimi dettagli. Si innamorano di me all’istante perché sono bella e buona come un angelo.

Dicono proprio queste parole: bella e buona come un angelo.

È davvero incredibile che persone tanto differenti tra loro per età, cultura e perfino nazione, rivolgendosi a me, dicano nel medesimo ordine, le stesse parole, quasi fossero legate da perenne, indissolubile catena: bella, buona, angelo.

Credo mi siano state dedicate tutte le canzoni intitolate “Angel” e tutte accompagnate da silenzi intensi ed occhi lucidi di emozione, di fronte ai quali non potevo fare che commuovermi. Solo che all’inizio mi si stampava in viso un sorriso brillante di felicità, poco a poco un sorriso paralizzato dal terrore.

Ho presto imparato, infatti, che quella frase è la cosa peggiore che ti si possa dire. Da quel momento in poi sei perduta, perché ti si carica sulle spalle una responsabilità disumana: essere bella e buona come un angelo. Sempre!

Inizialmente provi pure ad avvertirli: «Guarda che ho i miei difetti» ma non c’è verso. Ti guardano come a dire: «Che stupidina sei!» E poi ti abbracciano forte.

Ecco, quell’abbraccio è la rovina definitiva. Il tuo ruolo è già deciso, non c’è ritorno: sarai la persona eletta a salvarli dalle loro misere vite.

Eppure, nonostante fossi cosciente di tutto questo, non sono arrivata mai a fuggire, perché l’illusione ed il desiderio di essere amati sono le più grandi tra le forze naturali.

Sono rimasta lì. Fredda, titubante, ironica, però sono rimasta lì. Io, la dura, l’indipendente, la rivoluzionaria, invece di sputargli in faccia ed invitarli a cercarsi un’altra protagonista per questo ruolo disumano, sono rimasta sempre lì… di fronte alla frase peggiore che ti si possa dire.

Non importa se sono corrotti dalla noia, dalle perversioni, dalla violenza o dalle brutte esperienze sentimentali; quando appari nelle loro vite, appare il sole! E per quanto ci ostiniamo ad essere fredde, titubanti, ironiche, dure, indipendenti e rivoluzionarie, ci monta dentro questo irrefrenabile spirito da infermierine che ci trascina fino a dove mai ci saremmo immaginate: credergli.

Credere di essere il loro sole.

E perché no, infine? A volte succede. E perché non dovrebbe succedere anche a noi? Siamo adulte ormai, non possiamo lasciare che il passato distrugga per sempre il nostro futuro. E poi lui è così carino, affettuoso, innocente, gentiluomo. Va là, tanto, peggio di quello che abbiamo già vissuto non può esserci, no?

E poi passano i giorni, i mesi ed anche gli anni e lui continua ad essere carino, affettuoso, innocente e gentiluomo.

Che fortuna!

Me lo dicono sempre tutti: «Che fortunata sei!»

«E dopo quello che ho passato, mi meritavo un po’ di fortuna, no?» rispondo sorridendo serena.

«Sì! sì! sì!» fanno tutti con la testa.

– C’è qualche altro favore che vuoi farmi, Angie?

È così che inizio a sognare. È così bello sognare. Rilassa l’anima.

Non ho mai fatto sogni impossibili. Ho smesso già da bambina. Niente di irrealizzabile! Neanche stavolta; per questo motivo tutto era così intenso, sapevo che sarebbe accaduto… più o meno.

Il sogno possibile consisteva in un abito semplice e leggero, nonostante sapessi che sarei morta di freddo. Niente di spettacolare. Una vallata verde, alberi, montagne ed una chiesetta bianca piena di fiori.

Mi sarebbe bastato vedere il velo da sposa trasparente mosso dal vento sull’erba brillante di sole. Ed avrei riso. Mi sarebbe bastato sentire echeggiare il suono lungo e profondo delle cornamuse. E mi sarei emozionata. Mi sarebbe bastato voltare lentamente la testa e vedere accanto a me il viso di Martin, buono come il pane. E sarei stata felice. Mi sarebbe bastato vederlo con un modesto mazzo di roselline, tutto sorridente e rosso di emozione. Quel rosso, fresco di vita che solo certe pelli chiare del nord Europa possono avere. Sì.

Davvero adesso devo pagare solo per aver sognato tutto questo?

– C’è qualche altro favore che vuoi farmi?

Una cascata di petali di rosa sopra sorrisi liberatori.

Per quest’ultima immagine non dovevo forzare troppo la mia fantasia. Mi era apparso esattamente così un pomeriggio della scorsa estate: rose vivide e sorriso radioso.
Avevamo avuto una brutta discussione la sera prima. Non riesco a ricordare minimamente per quale motivo. Qualcosa di stupido sicuramente su cui, a volte, ci accanivamo con eccessiva passione. Martin sosteneva che tra due teste dure, come uno del profondo nord ed una del profondo sud, non poteva essere altrimenti.

Ad ogni modo, l’indomani mattina al lavoro si comportò da perfetto estraneo, andando persino via un paio d’ore prima del previsto. Non mi comunicò nulla, né mi chiamò, né mi inviò messaggi. Questo atteggiamento era assolutamente insolito. Così, quando alle cinque in punto spensi il computer per lasciare l’ufficio, il mio malumore era già sottoterra.

Dondolando dentro il vagone della metro, mi resi conto di quanto mi mancava la sua presenza. Di solito ronzava festante intorno alla mia scrivania, sempre con qualcosa da offrire tra le mani: un caffè, un cioccolatino, un biglietto romantico. Per la prima volta dopo sette mesi di sua presenza euforica ed invadente nella mia vita, avvertii nel cuore un vuoto infinito che ad ogni respiro si riempiva di una tristezza dimenticata.

Mi sentivo come la prima ballerina a cui avevano improvvisamente spento le luci sul palco e si ritrovava sola a guardare una platea che si era svuotata di colpo.

Incredibile! I che non facevo altro che lamentarmi di tutte quelle sue attenzioni.

Avevo dunque una faccia da diva in lutto, quando giunta alla mia fermata, mi aggrappai al passamano della scala mobile, per lasciarmi trasportare fuori lentamente.

Con mia grande sorpresa Martin era lì ad aspettarmi, come da filmone sentimentale, ancora con il suo elegante completo da lavoro e l’enorme mazzo di rose stretto nervosamente tra le mani. I raggi di sole bassi e luminosi gli oltrepassavano, da dietro, i capelli quasi rasati. Li vidi brillare uno ad uno come vellutato cognac mentre la luce abbozzava una specie di aureola ambrata che gli oscurava i dettagli del viso, confondendoli. Man mano che mi avvicinavo però si delineava il suo sorriso dolce e dispiaciuto, che gli serrava intorno agli occhi una serie di simpatiche rughettine a raggiera.

Teresa un giorno, con le sue manine di bimba, gli aveva afferrato le guance e scuotendogli delicatamente la testa, sospirando disse: «Zia, ma come ci si può arrabbiare davanti ad una faccetta così?» Ed aveva ragione.

Quel pomeriggio infatti gli perdonai ogni cosa e mi lasciai invitare a prendere un caffè, mentre le cameriere del bar che avevano assistito a tutta la scena, si sgomitavano l’un l’altra stupite e compiaciute.

– C’è qualche altro favore che vuoi farmi, Angie?

Volevo solo quell’abito bianco e leggero, la vallata verde, il suo sorriso buono con le rughettine ed il mazzo di rose profumate. Invece sono qui accovacciata sul bordo di un letto enorme, come un uccellino scosso e spaesato.

Mi sembra immenso anche l’armadio antico di fronte a me. Senza pietà, lo specchio incastrato nel legno scuro dell’anta centrale, riflette la pena del mio corpo esausto: le braccia che cingono disperatamente le ginocchia piegate su se stesse; le mani artigliate alle spalle, quasi potessero scapparle via; la pelle paonazza, schiacciata sotto i polpastrelli ed appiccicata come se fossi sudata. Non lo sono. Anzi, esternamente sono del tutto gelata.

Decisamente non so cosa stia succedendo, come se mi fossi appena svegliata da un lungo sogno e stropicciandomi gli occhi tentassi di ricordare dove sono.

Mi trovo sicuramente in un posto dove tutto è enorme. E man mano che Martin mi ripete questa sua domanda, ogni cosa si fa sempre più gigante ed io sempre più piccola. Man mano che il suo tono di voce cresce di rabbia, ogni oggetto si fa più distante, quasi si allargasse lo spazio tra me e l’armadio, svuotandosi di ogni consistenza reale, e questo si facesse sempre più alto e più lontano, con le sue ante scure che si allungano insieme al mio riflesso sottile sullo specchio.

Allo stesso modo si allontana e si perde la finestra alle mie spalle. Non la vedo ma capto il vuoto dietro di me, a picco.

Avverto che sto perdendo il contatto con la realtà e sto scivolando, rannicchiata su questo letto galleggiante, dentro un incubo confuso.

– C’È QUALCHE ALTRO FOTTUTO FAVORE CHE VUOI FARMI, EH?

La sua domanda è accompagnata da un rumore metallico, come una frustata nell’aria e dentro le mie orecchie. Non so cos’è perché non guardo, lascio il mento incastrato tra le ginocchia e le pupille inchiodate al suolo, quasi vi pendessero due pesi impossibili da sollevare.

Stringo i denti, stringo le ginocchia sulle guance, stringo le dita sulle spalle fino a sentire le unghie conficcarsi nella pelle. Non percepisco nessun dolore, sono talmente irrigidita che ho perso la sensibilità di quasi tutte le parti del corpo.

Lo sguardo caduto a terra mi si è paralizzato su un decoro macchiato, al bordo di una mattonella. Su quella macchiolina i miei occhi iniziano a vorticare in infiniti circoli che risucchiano tutti i colori ed i dettagli della stanza fino a renderli totalmente sfocati ed indefiniti.

La luce giallognola del vecchio lampadario non aiuta di certo; sembra non avere la forza di diradare l’oscurità ed oltre l’armadio, il letto e la finestra non si vede altro.

Sono sfinita, non c’è dubbio. In piedi da troppe ore, quasi venti. Sì, troppe.

Le sue accuse ed i suoi rimproveri non cessano. Mi sfondano ed inacidiscono lo stomaco. Lo stomaco… l’unica parte di me che sento anche troppo vividamente.

Io però mi sono data un compito: studiare quella macchiolina e tutte le relazioni di colori e forme possibili con il decoro della mattonella. Non posso vivere senza compiti, sono fatta così. E per far passare il tempo, fino a quando lui non si calma, devo rimanere concentratissima su questa macchiolina. Zitta e muta. Non sia mai che dica qualcosa di sbagliato. Non lo faccio più! Giuro che non lo faccio più!

Tutte le volte che nella vita ho rifiutato il ruolo d’angelo ed ho lasciato libera la mia parte umana, sono stata crocifissa.

No, non potrei sopportare di nuovo tutte quelle accuse. Non saprei dove metterle, nel mio petto non c’è più posto. Lì dai piccoli vortici, quanti indici vedo alzarsi e puntare la mia testa abbassata. Stavolta no, con Martin no! Se qualcosa va male non sarà per colpa mia. Assolutamente no! Quindi devo sopportare, zitta e muta senza distogliere lo sguardo da quella macchiolina.

– C’È QUALCHE ALTRO FOTTUTO FAVORE CHE VUOI FARMI, EH? – sobbalzo ed il mio sobbalzo dura tutto il tempo di questa domanda.

– Eh? Eh? – il suo tono sale – EH? – minaccioso, provocatorio, cattivo.

Quelle “e” allungate penetrano dentro le mie orecchie con onde di pressione insopportabile. Si comprimono e si espandono in successione, tremando fino allo stomaco e depositando una paura che si dilata come gelo. Che sensazione orrenda avere lo stomaco gelato, mi viene da fare la cacca.

– NIENT’ALTRO, ANGIE? È tutto? È tutto, Angie? È tutto?

Le domande sono ripetute una ed un’altra volta. Avvelenate. Le lancia come fossero pugnali e rimane a guardarle sperando che mi si conficchino dentro. Imprime alla voce un tono di guerra.

– Prima che vada via per sempre e distrugga questo posto, c’è qualche altra cazzo di cosa che vuoi che ti lasci?

Capissi il senso della domanda potrei rispondere ma non lo capisco. Non so che vuole con queste sue parole deliranti. Non so che rispondere al tremore folle che lo percorre tutto.

Ha qualcosa di fisso, di ossessivo nei pensieri ma davvero non so cosa, nonostante stia gridando ininterrottamente da più di due ore. E questo mi spaventa.

– Capisci la mia rabbia? CAPISCI LA MIA RABBIA? – aggrotta violentemente le sopracciglia e la fronte.

– Sì – tento di mentire, bianca come il gesso ma non emetto nessun suono. Persino le parole hanno una paura folle ad uscire dalla mia bocca. Tossisco, deglutisco e dico più forte – Sì!– Esce piano ugualmente, come un soffio caldo di febbre.

– No, palle! – afferma con un sorriso aspro e si abbandona a fissare un punto indefinito nella parete. Il petto in fuori, pieno di potere; il tronco retto in postura da vigilanza. Sembra dire “lasciami pensare e vedrai come te lo faccio capire adesso”.

Le tempie madide di sudore gli si gonfiano e sgonfiano al ritmo del respiro affannoso.
Che sta facendo? Pensa? Che pensa? I movimenti impercettibili e veloci delle pupille sembrano inseguire brandelli di immagini disordinate e sconnesse. Maledizione! Non sa neanche lui per cosa è incazzato o quantomeno sa che è cosi impalpabile da non giustificare la maniera in cui mi sta torturando. Quasi vorrei che, annaspando nella sua testa, trovasse una ragione. Vorrei davvero essere colpevole, gli chiederei scusa e tutto questo finirebbe.

Sì, gli chiederei scusa e tutto questo finirebbe.

– Capisci la mia rabbia? – ripete tornando all’improvviso in sé e con questa ripetizione capisco solo che una ragione non c’è.

– Capisci la mia rabbia? – le sue labbra cominciano a tremare.

– Capisci la mia rabbia? – accosta moltissimo la sua faccia alla mia, mi sfiora letteralmente. Lo sento, sento il suo fiato ardente sulla superficie della pelle, sento il sangue che mi sale ad irrorare infuocato ogni capillare: negli zigomi, nelle guance, nelle tempie. Sento, sento che mi sta fissando negli occhi, come farebbe un demonio. Tengo ostinatamente le palpebre abbassate. Sotto il suo sguardo fisso, quella di destra scatta in un tremito che dopo due contrazioni si arresta di colpo per continuare nelle ossa del cranio. Che male!

È vicino, è troppo vicino. Non accenna ad allontanarsi.

Devo rispondere. Devo rispondere e devo rispondere in maniera diversa, altrimenti non la smette. E lo devo far smettere, mi si avvicina eccessivamente.

Sta durando troppo ed ho la sensazione che tra poco scatti a mordermi la faccia, proprio come un animale.

– Cosa vuoi Martin? – dico infine inebetita e per un istante mille vampe di calore mi si stampano sulle guance.

È una notte di pioggia fine. Un velo opaco, denso di piccolissime gocce d’acqua, è calato sulle finestre ad isolarmi ancora di più dentro questo incubo. Scivola compatto con un unico, monotono fruscio.

[continua]


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