Alcuni Saggi di Alessandra Palisi


SAGGIO CRITICO: UGO FOSCOLO

La personalità di Ugo Foscolo è complessa e contradditoria. Perso il padre all’età di dieci anni la sua maturazione psicologica ne resta fortemente segnata. Centrale è la figura della madre. Il travaglio dell’esistenza e la sua opera poetica sono comunque protesi verso la soluzione della questione della propria identità che si esplica nella ricerca della propria identità. Di conseguenza la vita si risolve in una serie di avventure senza che nulla di sostanziale avvenga. Disperde il proprio patrimonio (gioco d’azzardo e debiti).Si disperde la molteplicità di avventure amorose senza trovare quel Tu che dia consistenza all’ Io, Si specchia in una pluralità di immagini che da Jacopo Ortis giunge a Didimo Chierico. Viene esiliato a Zante per cui si crea la più. potente metafora di una vita alienata senza senso né identità. La poesia è per Foscolo la via verso l’autocoscienza, ovvero verso l’epifania dell’io profondo. E’ caratteristico del Foscolo il timore, anzi, il terrore di essere abbandonato dalla poesia. Quest’ultima lo attrae e gli fa ribrezzo. La critica ha riconosciuto come tema dell’opera foscoliana questo contrasto. Le Epistole di Jacopo Ortis appaiono allora come un libro in cui si tenta di dare al materialismo meccanicistico e desiderio di non morire, tra ragione illuministica e cuore romantico.
“Come il disordine caratterizza lo stile prosastico foscoliano, traducendo un contrasto esistenziale, così il chiaro-scuro caratterizza la sua poesia esprimendo quell’alternanza di luce e di ombra che altro non è che ancora il contrasto esistenziale tra vita e morte.” (1) Paola Ambrosini.

All’età di sei anni Foscolo inizia gli studi nel seminario di Spalato. In seguito alla morte del padre avvenuta il 25 ottobre 1788, torna a Zante dove continua gli studi. Nel 1793 raggiunge la madre a Venezia. Nel ’94 comincia a scrivere le sue prime liriche fra cui il sonetto In morte del padre. Con questo sonetto, il Foscolo ormai sedicenne ritorna con la memoria a quella decisiva notte di sei anni prima in cui vide per l’ultima gli occhi in lacrime del genitore; sentì il suo estremo addio, infine vide il padre che alzava il capo e fissava in Dio gli occhi della mente.
Nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis Foscolo professa la sua ideologia materialistica, in quanto la natura comincia ad apparire al poeta come pura materia. Dopo la morte non vi è che il Nulla Eterno. Morto il padre, comincia a morire anche il Padre. Quando il cielo è vuoto, la terra è un deserto in cui l’uomo conduce la sua vita raminga senza senso e senza speranza.
Nei Sepolcri il poeta giunge ad affermare che :
“anche la speme,/ultima Dea fugge i Sepolcri: e involve/ tutte cose l’oblio nella sua notte ;/ e una forza operosa le affatica/ di moto in moto”
Il chiaroscuro, centro del carme, è costituito dall’antitesi tra il Sole e il buio della tomba. Eppure solo la poesia lascia aperta una domanda e un’attesa.
Il mistero di Foscolo risiede nella polarità tra ideologia materialista e cuore poetico.
Molto interessante risulta essere il libro di M.A. Terzoli, poiché ha il merito di riportare alla luce la fitta trama di esperienze e competenze riconducibili alla tradizione ebraico/cristiana che nutre dall’interno la nuova prosa foscoliana.
Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis può essere definito come il libro di una vita. Evidentemente autobiografico, pubblicato in varie edizioni è il ritratto mutevole di un ventennio di peregrinazioni geografiche ed esistenziali del Foscolo. La valenza autobiografica è attestata dal Foscolo stesso che in una lettera a Vittorio Alfieri dice:
“…ho dipinto sotto il nome di un mio amico infelice tutto me stesso”.
L’amico infelice era lo studente friuliano Girolamo Ortis morto suicida a Padova. Nel romanzo , Foscolo ne conserva il cognome, ma muta il nome. La corrispondenza tra la coppia evangelica e i due fratelli Foscolo risulta evidente, ma mentre Giacomo è l’apostolo della speranza, Jacopo dimora nella disperazione politica, esistenziale, affettiva, fino a quel suicidio che nella famiglia Foscolo è realmente consumato non da Ugo, ma dal fratello Giovanni. La Bibbia è il libro per eccellenza di Ugo come di Jacopo. Tra i primi libri che Foscolo pone nel proprio piano di studi, il Vangelo e la Sacra Scrittura vengono collocati ai primi posti di questo libero itinerario verso la più compiuta formazione. In molte lettere egli afferma di preferire la lettura della Bibbia a quella dei classici. Dalle letture bibliche non conserva una teologia, ma un’antropologia.
“…questo gran libro della Bibbia non mi somministra pur troppo, molta persuasione intorno alle cose soprannaturali; si confà bensì le più volte allo stato naturale dei miei pensieri.” In quel pur troppo c’è la foscoliana nostalgia per una fede intimamente vissuta nell’infanzia, poi perduta e a cui ora non sa ritornare. Il filo conduttore è la vanitas, la riflessione sull’umana fragilità: la filosofia, la poesia e la gloria: tutto è ultimamente vano.
“Jacob alter Christus” (titolo del saggio della Terzoli) Nel nome di Jacopo Ortis è lecito scoprire per ipogramma il nome stesso del Cristo (ORTIS-(C)RISTO). Se la presenza di Cristo è inequivocabile ne Werther, nel romanzo italiano diventa totalizzante. Così nell’Ortis la Sacra Scrittura diviene una chiave totale di lettura; nel Werther rappresenta invece una delle possibili componenti del linguaggio del protagonista o della sua ideologia. Uno degli scarti più significativi riguarda la modalità del suicidio. Jacopo ha sul tavolo la Bibbia chiusa e, morendo, volge lo sguardo a Dio; l’ultima lettura di Werther è la tragedia borghese Emilia Galotti trovata aperta sul leggio dell’illuminista tedesco, Lessing.
Il romanzo foscoliano si apre con la frase:
“Il sacrificio della nostra patria è consumato: tutto è perduto”.
Vi compaiono evidentemente le ultime parole di Cristo in Croce secondo Giovanni:
“consummantum est: tutto è compiuto”
Simmetricamente le ultime parole di Jacopo ”ora tu accogli l’anima mia” sono pressoché identiche all’ultima invocazione del Crocifisso nel Vanngelo di Luca.
La Terzoli elenca tutte le tappe della passione e della morte di Jacopo secondo lo schema cristologico. Il protagonista veglia mentre tutti dormono, prega perché passi da lui il calice amaro, (quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà…ha udito con quante preghiere l’ho supplicato perché mi allontanasse questo calice amaro”); l’abbraccio del rivale Odoardo ricorda il bacio di Giuda; come Cristo esclama”…Dio mio, Dio mio… Come Maddalena forse Teresa verrà solitaria all’alba a darmi un altro Dio; se Cristo affida a Giovanni la madre, Jacopo compie lo stesso gesto con Lorenzo:” E tu, Lorenzo mio, leale e unico amico perdona. Non ti raccomando mia madre; ben so che avrà in te un altro figliuolo.
Nella finzione romanzesca la vicenda si svolge tra il 1797 e il 1799, ma il vero suicidio dello studente Gerolamo Ortis era avvenuto nel marzo 1796. Il 25 marzo era un venerdì santo. Ora, dal momento che il 25 marzo costituisce il venerdì santo per eccellenza per l’incarnazione del Verbo e la sua morte. Per suprema perfezione cronologica si apre e si chiude il cerchio della vicenda umana di Cristo.
Nel romanzo epistolare Teresa è sentita da Jacopo come un idolo, per cui le scrive:
“Morendo io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio sospiro” Le parole che Cristo rivolge al Padre, nel Vangelo di Luca, sono quelle che Jacopo si ripropone di indirizzare alla giovane. Tuttavia la vera identità di Teresa è quella di “divina fanciulla” dai tratti stilnovistici; al Parini Jacopo parla di Teresa con connotati danteschi. Teresa non è dunque un idolo, ma un riverbero di luce divina. La fede è pegno della divina misericordia per il giovane infelice. A Dio si rivolgono le estreme parole di Jacopo.
La madre è il ponte tra Foscolo e Dio, tra il moto centrifugo della sua ideologia e personale storia da una parte e dall’altra la pulsione centripeta verso un vitale porto di quiete. Se al livello della laica religione patriottica l’esglio è l’eroico sacrificio di chi si immola per il risorgimento della nazione italiana, a volte a livello esistenziale è invece la metafora della sofferta separazione dalla dimora in cui tutto ritrova il suo senso. A differenza del mito di Ulisse, il viaggio di Foscolo permane fino in fondo diverso esilio dilacerante lontananza dall’antica madre. Simbolicamente è Zante la madre-patria connessa all’acqua madre fonte di vita, di Bellezza e di fecondità Religiosamente la madre Chiesa.
La madre è liquido amniotico della quiete prenatale. Dopo il diluvio tempestoso dell’esperienza cosciente, tornerà a donare quiete al figlio giunto all’ultimo porto della morte, se ne potrà irrorare con le lacrime la tomba.
“Straniere genti, l’ossa mie rendete/allora al petto della madre mesta”.
La tragica alternativa è la prosciugata aridità degli sconsolati ultimi versi di A Zacinto
“…o materna mia terra a noi prescrisse/ il fato illacrimata sepoltura. Paronomasia MATERnAMiA TERrA
Analogamente l’acqua delle lacrime irrora i Sepolcri contribuendo a renderli “riposato albergo”.

Alessandra Palisi


SAGGIO CRITICO: CALVINO “LA CRISI DELL’INTELLETTUALE E L’APPRODO ALLA FIABA POPOLARE”

L’opera di Italo Calvino ha, indubbiamente, assunto, nel quadro della narrativa italiana contemporanea, un’importanza notevole sia per la nitidezza e la nobiltà stilistica della sua prosa sia per gli indirizzi particolari della sua poetica. Calvino, infatti, non cedendo alle “lusinghe” di un neorealismo esclusivo, ha preservato quella che è stata definita la sua “innata vocazione fiabesca”. “Fu, proprio, Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito ed io, che, fino ad allora, non me n’ero reso conto, da quel momento in poi, lo seppi fin troppo e cercai di confermare la definizione” afferma Calvino.

Vita.

Nasce il 15 ottobre del 1923 a Santiago de Las Vega e, all’età di due anni si trasferisce con la famiglia a Sanremo, dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza.
Dopo aver preso parte alla Resistenza in Liguria, si reca a Torino dove si laurea in Lettere, inizia la collaborazione all’Unità ed entra in rapporto con la casa editrice Einaudi, di cui sarà, per molti anni, consulente. Collaboratore del “Politecnico”, esordisce nel 1947 con il romanzo “I sentieri dei nidi di ragno”, presentato da Cesare Pavese, cui hanno fatto seguito i racconti di “Ultimo viene il corvo” e la trilogia dei romanzi, intitolata “I nostri antenati”. Nel 1959, fonda e dirige con Vittorini la rivista “Il Menabò”. Nel 1963, pubblica il romanzo “La giornata di uno scrutatore” e la fiaba “Marcovaldo”, cui fanno seguito “Le cosmicomiche”, “Ti con Zero”, “Il castello dei destini incrociati”, “Le città invisibili” che lo hanno qualificato come il maggiore scrittore fantastico dei nostri giorni. Da ricordare, appunto, la raccolta, ormai, divenuta un classico, di “Fiabe italiane”.

Il camuffamento del reale.

In un articolo su “Paragone” del 1955, Calvino scrive:”Ritornare a una più calma considerazione del posto delle idee e della ragione nell’opera creativa vorrà dire la fine di una situazione per cui l’io dello scrittore è sentito come una specie di maledizione e di condanna. E, questo avverrà, forse, il giorno in cui l’intellettuale si accetterà come tale, si sentirà integrato nella società, poeta funzionale d’essa senza più doverla sfuggire, camuffarsi o castigarsi”.

Si potrebbero utilizzare queste parole per iniziare un commento intorno all’opera dello stesso Calvino. Si potrebbe individuare, infatti, un’inconscia confessione della propria condizione di intellettuale continuamente costretto a camuffarsi e a camuffare la realtà, presentandola sotto le spoglie comiche o ironiche della trasfigurazione fiabesca.

In questo tentativo di camuffare la realtà da parte di Calvino si può, dunque, intravedere la crisi dell’intellettuale italiano contemporaneo, il quale non ha più fiducia nell’ideale socialista (sintomatico è il distacco nel 1956 dal partito comunista, nel quale aveva, precedentemente, militato) e, tuttavia, non sa liberarsi dalla nostalgia di quella fiducia e ad essa non può sostituire i nuovi modelli avanzati della società del benessere, quantunque, non riesca a sbarazzarsi completamente di questi, attratto, come è, dal loro fascino.

Storia e Favola

Il primo romanzo di Calvino sia per l’argomento, la guerra partigiana, sia per la data di pubblicazione, il 1947, sembrerebbe a prima vista inserirsi in quel filone neorealistico che rappresenta la linea di fondo della narrativa di quegli anni. Eppure, catalogare “Il sentiero dei nidi di ragno” come romanzo neorealista è assai improprio. La disposizione, infatti, con la quale Calvino affronta un tema comune a tanta narrativa del tempo è lirica e fantastica. La resistenza viene vista attraverso gli occhi di un bambino, Pin, che, pur maturato in fretta in mezzo alla strada e alla violenza, si stupisce, ancora, e, malinconicamente, si inserisce nelle vicende degli adulti con un senso fantastico e avventuroso che trasfigura così quelle vicende di un alone favoloso, appunto, perché non del tutto a lui comprensibili.

Anche, i successivi tre romanzi de “I nostri antenati” hanno dimostrato come la vocazione favolosa e fantastica sia quella più autentica dell’autore.
Con “Il visconte dimezzato”, Calvino afferma la propria identità di scrittore contro il condizionamento dell’ideologia.
Il protagonista, Medardo di Terralba, colpito in guerra da una cannonata, torna in patria dimezzato, gli resta solo la metà malvagia, con allusione, forse, alla situazione dell’uomo contemporaneo, sempre, alienato e, perciò, incapace di raggiungere un’integrità.
L’uomo artificiale, spossessato, anche, del suo corpo è l’immagine de “Il cavaliere inesistente”.
La trovata ariostesca e surreale dell’armatura vuota che cavalca, combatte e, astrattamente, incarna le regole della cavalleria appartiene ad una riflessione sulla scrittura anticipatrice di successivi sviluppi. Narra le vicende di Agilulfo del quale esiste l’armatura e la volontà che la sostiene, ma non la persona, forse, ad indicare che l’uomo attuale non è più che un’astrazione, un vuoto involucro, poggiato su ideali assai precari.
Ne “Il barone rampante”, il testardo Cosimo Piovasco di Rondò, donchisciotte dell’illuminismo, sale, un giorno della sua infanzia sugli alberi, dopo un litigio in famiglia e non ne discende neppure per morire molti anni dopo.

FIABE ITALIANE

Le fiabe di Calvino sono un capolavoro della letteratura che affonda le sue radici nella tradizione popolare. Ed è, proprio, questo, l’oggetto del presente lavoro: dimostrare come Calvino possa essere stato un grande autore di fiabe alla pari dei fratelli Grimm, di Charles Perrault, di Hans Christian Andersen, senza realizzare quella che verrà, in seguito, definita fiaba contemporanea o fiaba d’autore. Quest’ultima differisce, infatti, dalla fiaba classica popolare, soprattutto, per la sua destinazione all’età dell’infanzia e per l’estrema libertà con cui rappresenta i temi e le figure tradizionali, accogliendo elementi dalla personalità dell’autore e dal gioco della sua immaginazione.
Le fiabe di Calvino restano, invece, sul solco della tradizione popolare. L’arte dello scrittore si manifesta, dunque, non tanto per la sua grande potenza fantastica e di immaginazione, ma nella perfezione dello stile che valorizza i pregi delle fonti.
Italo Calvino curò, infatti, questa raccolta di fiabe, provenienti dalle diverse tradizioni regionali italiane nella metà degli anni cinquanta del Novecento. Un paziente e rigoroso lavoro di collezione e classificazione che tenne impegnato lo scrittore per ben due anni.
Se, da un lato, Calvino, memore degli studi di Propp sulla fiaba popolare russa, si fa prendere da una “smania” di versioni e varianti, per cui motivi, episodi e personaggi diventano componenti di un certo meccanismo narrativo, che si ripete in luoghi e tempi diversi, dall’altro, cresce e si rafforza in lui la convinzione che “le fiabe sono vere”, perché costituiscono”il modello dei destini che possano darsi ad un uomo o ad una donna”. Rappresentano la voce, forse, inconscia, ma, proprio per questa tanto più autentica di un’esistenza primaria, totale nei suoi entusiasmi, così, come nelle sue paure, nei suoi illogici innamoramenti e negli odi più profondi e inspiegabili. Un’esistenza assai simile a quella di ciascuno di noi, negli anni più o meno lontani, più o meno rimpianti della nostra infanzia.
Calvino ha, dunque, rielaborato materiali preesistenti, scritti negli ultimi cento anni dai folcloristi e questi, a loro volta, si erano documentati, ascoltando e trascrivendo i racconti dalla viva voce dei narratori popolari. Come è noto, la fiaba, nella sua ricchezza e semplicità, esige rispetto. E’ una manifestazione umana molto seria e di valore universale, che accompagna da sempre la storia dell’uomo ed è presente presso tutti i popoli della terra.
Gli studiosi hanno osservato che le fiabe di tutto il mondo si assomigliano: le stesse trame fondamentali si ritrovano presso tutti i popoli, pur nella diversità dei particolari.
Come ho scritto precedentemente, lo studioso russo, Vladimir Propp, ha cercato i rapporti tra le fiabe e i riti delle società primitive e ha formulato un’affascinante ipotesi illustrata nel suo libro “Le radici storiche dei racconti di fate”. Egli ritiene, dunque, che molte delle fiabe popolari giunte fino a noi sono nate in epoca preistorica, nel momento di trapasso dalla società dei clan, fondata sulla caccia, alla prima comunità basata sull’agricoltura. Quando i riti di iniziazione persero la loro funzione sociale e caddero in disuso, nacquero i miti e le fiabe. I miti, però, a differenza delle fiabe, si svilupparono nell’area del sacro ed avevano, quasi, sempre un finale tragico. I loro eroi sono esseri unici e sovraumani, mentre i protagonisti delle fiabe rimangono personaggi umani, alquanto, tipici, pur nella straordinarietà delle loro azioni.
Attraverso tutte le epoche della storia, le fiabe continuarono la loro evoluzione, assumendo una funzione molto importante nel mondo contadino. Esse si diffondevano per tradizione orale, in una società dove solo pochi privilegiati sapevano leggere e scrivere. Le fiabe prendevano vita, perciò, nel momento del racconto, nel rapporto diretto che si stabilisce tra narratore e ascoltatore. Funzionavano come un rito destinato a precisi momenti di aggregazione della comunità rurale: la veglia durante le serate invernali nelle stalle, i lavori di gruppo, come la spogliatura del granoturco, la tessitura e la filatura.
In conclusione, possiamo dire che le fiabe sono documenti di cultura popolare e, come tali, si possono ascoltare per scoprirvi il riflesso di situazioni del passato, modi di esistenza, usanze della vita contadina.

Alessandra Palisi


SAGGIO CRITICO: LE “RIME” DI GIACOMO ZANE (1529-1560)

INTRODUZIONE

IL PETRARCHISMO ITALIANO

Varia è stata l’interpretazione che la critica ha dato del petrarchismo, che non fu soltanto un fatto di cultura, ma anche di costume, tipico del secolo in cui nacque e si sviluppò: il Cinquecento.
Quando si parla di petrarchismo si intende innanzitutto l’imitazione delle Rime del Petrarca nei moduli linguistici e stilistici. I petrarchisti furono, quindi, considerati per lungo tempo non veri poeti, ma sterili imitatori, privi di originalità. E’ certamente un errore ridurre il petrarchismo ad un fenomeno di imitazione formale. E’ necessario individuare invece, come ha posto in luce la critica crociana, anche, un’interiorità lirica che il Petrarca ha insegnato a scoprire e ad esprimere in forme originali. Il Petrarca è infatti il primo grande poeta moderno che ha raffigurato una condizione sempre rinnovantesi: il conflitto che dentro di noi viviamo, posti come siamo tra ideale e realtà. L’uomo, la sua passione, le sue intime lacerazioni, la sua pena insanabile trovano nel Canzoniere la loro più alta celebrazione. Questo nuovo e acuto sentimento è l’anima, anche, del petrarchismo.

IL MANIERISMO VENEZIANO

La letteratura veneziana del secondo cinquecento può essere considerata espressione di un aristocratico manierismo. Il tema è ancora generalmente quello tradizionale dell’amore, ma altri gli vanno contendendo non poco spazio. Si tratta dei temi di ispirazione morale, civile e religiosa.

LA VITA DI GIACOMO ZANE

Giacomo nasce a Venezia il 20 dicembre del 1529 da Francesco di Jacopo e da Maria di Niccolò Gradenigo appartenenti entrambi a famiglie patrizie. Sin dai primissimi anni manifesta i segni di un grande talento, necessario a quell’educazione umanistica che gli permetterà di raggiungere buoni risultati nel campo della poesia. Lo Zane ha lasciato fama di sé attraverso una raccolta di poesie d’amore dedicate ad una fanciulla che potrebbe essere la gentildonna di famosa bellezza, la quale sfortunatamente venne a mancare nel fiorire della giovinezza. La donna è cantata nella prima parte della raccolta di Rime attraverso la metafora della nave. Il motivo centrale di questi componimenti è, dunque, l’equazione amore/navigazione. Gran parte dei sonetti sono dedicati però, anche, ad una seconda donna della cui identità nulla però sappiamo. Nel 1554, viene eletto la Maggior Consiglio, Savio degli ordini con il compito di consultare e provvedere intorno alle cose marittime del dominio. Portato a termine brillantemente questo primo onorevole ufficio, viene inviato in qualità di consigliere nella Canea una delle città principali di Candia. Vi è il timore che la città cada nelle mani degli Ottomani. Lo Zane prepara un’energica difesa esercitando, anche, le genti più inesperte alla guerra. Un pericolo maggiore incombe ora sui cittadini: la pestilenza. Anche in questo caso lo Zane dimostra segni del suo valore. La grande fatica sostenuta nel preparare l’isola dalla difesa e nel difenderla dalla pestilenza gli causano una gravissima malattia dalla quale riesce però ben presto a guarire. A colmare ancora una volta di dolore il suo cuore sopraggiunge la nefasta notizia della morte del padre, un uomo di grande fama nella Repubblica veneziana. In questi particolari momenti, lo scrittore riesce a trovare nella poesia un conforto alla sua pena. Ritornato a Venezia, viene eletto nel Consiglio dei Quaranta tra quei magistrati, cioè, che hanno il compito di definire tutte le contese civili che nascono fuori della dominante. Nel 1580 all’età di trentun anni muore. Viene compianto da tutti gli amici e in particolar modo dal suo amico e collega Jacopo Mocenigo.
Di Giacomo Zane non è stato stampato altro che le Rime e poche altre poesie inserite nella raccolta. La prima edizione risale al 1562 ad opera di Dionigi Atanagi che si accinge all’impresa di pubblicare le poesie dietro il consiglio e l’esortazione del fratello di Giacomo, Niccolò. Le stesse rime vengono ristampate poi dai fratelli Guerra nel 1582.

ALCUNI MOTIVI ED IMMAGINI NELLE RIME DI GIACOMO ZANE

La storia d’amore costituisce l’elemento connettivo principale dell’opera, la linea lungo la quale si organizza fondamentalmente il suo contenuto tematico.
Dapprincipio il poeta descrive l’amore come ardore, tratto comune a tutte le letterature. I testi antichi che maggiormente testimoniano questo fatto sono il quarto libro dell’Eneide (vv. 68 segg. “Uritur infelix Dido”) e la dodicesima delle Eroidi di Ovidio (vv.36 segg. “Et vidi et perii nec notisi ignibus arsi”). E’ notevole poi come nello stesso generico concetto di fuoco sia implicato un carattere di durezza e di resistenza. Questa viene espressa attraverso le seguenti parole “Sasso” e “indurato cor”. Oltre all’antitesi ghiaccio-fuoco, lo Zane sviluppa il motivo non nuovo dell’innamoramento che avviene attraverso gli occhi. Nella lirica stilnovistica e specialmente in Cavalcanti ricorre, infatti, con molta frequenza il motivo dell’innamoramento che avviene attraverso gli occhi “ Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core “. Del tutto singolare è la figurazione dell’innamoramento realizzata nel ventisettesimo sonetto dove trova sviluppo per la prima volta la metafora della navigazione. Accanto alla donna-Nave, compare l’Amore nelle vesti di un guerriero che, dopo aver condotto con dolcezza il suo attacco al poeta, lo compie con esito mortale e proprio per questo nobilita colui che è in sua balìa : “A pena a quella vista, allor soave,/ et or sì amara, poté l’occhio alzarsi,/ che in me sentii piaga acerba e grave”. L’immagine del dio d’Amore armato deriva dal primo libro degli Amores di Ovidio: “certas habuit ille sagittas”.
L’inaccessibilità dell’amata appartiene al rituale. Dai trovatori in poi l’altero rifiutarsi è un tratto essenziale della natura della donna, il cui cuore è paragonato alla dura selce che, secondo una legge naturale, non riesce mai a riscaldarsi, anche, se il fuoco è stato acceso. La sensazione che ne deriva è quella della rigidità e della durezza che emergono ogni volta che lo Zane è portato a riflettere sull’ostilità dell’amata. Quest’ultima ci appare, anche, nell’immagine del sole. L’espressione è usata per raffigurare colei che, per quanto faccia infiammare gli altri cuori, non sente in sé alcun ardore. L’amara dolcezza in cui si trova a vivere l’amante viene concretizzata alcune volte in contrapposizioni verbali quali “Bella nimica mia” che ci portano direttamente al Canzoniere del Petrarca. Molte volte, infatti, questi chiama Laura “la dolce et amata mia nemica”. L’azione tormentosa della donna è rappresentata, anche, attraverso la metafora della navigazione. Lo Zane si trova a dover attraversare il mare tempestoso dell’amore. Venti violenti trasportano la Nave nei punti più pericolosi. Il dolore è forte perché l’amore non è corrisposto. Del tutto singolare è l’immagine della candela o della torcia accesa che risplende di una luce “amara” che non guida la Nave in mari tranquilli, ma tra mille scogli. La fuga dell’amante dalla vista dell’innamorato viene sviluppata attraverso l’immagine dello scoglio: ella nasconderebbe se stessa agli occhi del poeta. Il motivo ricorre altre volte con alcune trasformazioni e complicazioni quale l’oscura e folta nebbia che cala per volere stesso di colei che cessa di risplendere di luminosa bellezza. Nasce, quindi, il tema della donna ingannatrice: “non è gemma ogni pietra ch’oro chiuda,/ tòsco talor vaso d’argento serba,/come bel viso ancor voglia empia e cruda”).
L’inquietudine spirituale dell’amante è comunicata il più delle volte attraverso due metafore:
1) Il mare è agitato, i venti sono tempestosi, la donna guida la Nave tra gli scogli, la speranza di giungere in porto è del tutto illusoria, tristi sono i pensieri, profonde le lacrime che sgorgano spontanee a causa del dolore. Nel sonetto LV dello Zane, ci troviamo di fronte ad un paesaggio che vive nelle pieghe più profonde del cuore. Venti impetuosi si abbattono con forza ad impedire ogni possibile difesa da parte di chi si trova oggetto della loro potenza. Nuove e più violente tempeste sorgono costantemente a togliere ogni speranza di vita e di salvezza. Come testimone in prima persona di questa dolorosa condizione sorge l’immagine della donna-nave a cui viene rivolta un umile preghiera, anche, se le stesse risultano vane.
2) Molte volte l’amante percorre da solo strade tortuose. Il paesaggio è ridotto alle sue linee essenziali. La metafora è utilizzata per esprimere i contrasti di un amore inappagato. Di qui la presenza di parole come cammino, strada, “Io per fuggir non ho sicuri passi/ sì aspro è ‘l calle che dietro a me scorgi:::”
Riecheggia nel Canzoniere del nostro poeta, anche, l’elogio genericamente “cortese” della bellezza che suscita elevazione spirituale. La donna, cioè, non assume una figura dai contorni precisi, ma viene definita come il medium d’Amore, illuminata da una tale bellezza da non aver bisogno di alcuna consistenza corporea. E’ una bellezza che nasce dal farsi luce delle qualità spirituali, della dolcezza e della nobiltà d’animo. Nella generalità dei casi la donna ci appare da sola sullo sfondo di un paesaggio ideale e la sua immagine si trasforma ben presto in quella del sole, trasformazione giustificata soprattutto dalla qualità dello splendore “Così costei, ch’è tra le donne un sole”………….”uno spirto celeste, un vivo sole/fu quel ch’i ‘vidi”. E’ probabile che lo Zane abbia sentito la suggestione del mito dell’Aurora ripreso, anche da Dante nel canto IX del Purgatorio, dove vediamo che l’Aurora come una bella donna si alza all’alba dal letto e si affaccia alla finestra “La concubina di Titone antico/già s’imbiancava al balco d’oriente”.
Attraverso la metafora della navigazione, la donna diventa il più prezioso carico che una nave possa trasportare “e sol di merci preziose e care/oro, zafir, perle e rubini ho cura”. La descrizione della bellezza si riferisce ora a qualità fisiche. Assai frequente è la lode degli occhi che vengono paragonati in una metamorfosi astrale alle stelle, occhi del cielo, “finestre del cuore”. L’espressione è di origine petrarchesta:”O belle et alte e lucide finestre”….”Muri eran d’alabastro, e ‘l tetto d’oro,/,/ d’avorio uscio e fenestre di zaffiro”. Alcune volte, la descrizione riguarda la carnagione del viso: l’alabastro e le rose offrono i termini di confronto “Vivo alabastro e rose, onde quel foco/ nasce che m’arde il cor soavemente”.
La perfezione della donna non può essere tuttavia espressa adeguatamente, forte è il rischio di tracciare un ritratto troppo astratto, troppo di maniera
Tornando all’inizio, dunque, all’esaltazione delle qualità fisiche della donna, si aggiunge anche la considerazione del valore e delle qualità morali della medesima L’Amore non è più diletto, ma espressione essenziale dello spirito, quasi un atto di culto rivolto ad una creatura angelica che egli trasfigura ed innalza al di sopra della terra. Davanti all’Amore, così come davanti alla donna si sfaldano tutti i sentimenti volgari, ogni impurità dell’animo. Il canone della bellezza che è già di per sé un ritratto espresso con parole, può essere inserito in un contesto dove si parli del ritratto inteso come riproduzione pittorica di una fisionomia individuale. In alcuni casi si tratta dell’immagine che il poeta ha ricreato nel suo animo. Compare, quindi, il motivo dell’immagine della donna dipinta nel cuore dell’innamorato. Soltanto una volta, invece che in un quadro, le fattezze dell’amata sono viste nello specchio “né mai piombato vetro/ tenne sì bella immagine dipinta”.
Un tema ricorrente è la celebrazione del luogo in cui gli amanti si sono incontrati. Il più delle volte si tratta di uno spazio ideale. Nessun elemento lo connota dal punto di vista naturalistico: rappresenta solo il luogo in cui si può ammirare la bellezza della donna e realizzare ogni segreto desiderio. In altri casi, invece, il ricordo si proietta su uno sfondo di una realtà naturale che sente potentemente la presenza miracolosa della donna. Si giunge quindi ad una metamorfosi della natura. La realtà è trasfigurata in materiali preziosi. L’amata viene evocata sullo sfondo di un paesaggio primaverile che non è presentato realisticamente, ma trasfigurato dalla commozione di un ricordo. La tendenza ad impreziosire la natura e ad avvolgere ogni cosa in un’atmosfera di artificiosità sarà sviluppata, soprattutto, dalla poesia del Marino nel Seicento.
Allo scopo di chiarire a se stesso il perché del suo dolore, lo Zane rievoca i dolci inganni che Amore gli ha ordito sin dal primo giorno in cui egli vide la sua amata. Questa gli apparve “in atto umil tutto e dimesso” sullo sfondo di un paesaggio primaverile. La crudeltà e l’ostinazione di cui ho parlato precedentemente lasciano ora il posto a quella pietà frutto però solo di illusoria benevolenza. Nel momento infatti in cui il cuore cade nella pericolosa rete d’amore appare visibile l’inganno a chi porta ancora i segni della sofferenza. Molte volte, la donna diventa piangendo umana “Piangea Madonna et un ruscel corrente/ di tiepid’acque il lagrimar facea,/ quando spinse il mio cor sua sorte rea/ a mnirar quel bel lume umido, ardente”.
Già dall’antica lirica dei trovatori, la donna è considerata come signora a cui l’amante deve la massima fedeltà. La sua obbedienza non è schiavitù, ma patto di fedeltà stipulato tra i due amanti: può essere violato solo per volere della donna. Il contrasto tra l’umile devozione dell’amante che cerca in tutti i modi di ottenere una ricompensa al suo lungo e faticoso servire e l’ostinazione della donna che costantemente viola questo patto di fedeltà costituisce il tema fondamentale del sonetto LXII:” Sì dimesso et umil a voi ne vegno,/ qualor mi scorge a rimirarvi Amore,/ ch’aver dovreste men superbo il core/ e ‘l guardo armato men d’altero sdegno”. Nel sonetto CXXVI si innalza allora dal profondo del cuore quel credo di fede con il quale l’amante ribadisce la sua costanza in amore e la sua incapacità ad allontanarsi da quella vecchia strada percorsa in nome dell’amore. Soltanto in questo modo egli potrà giungere ad una vera beatitudine :”Sia pur, donna, di me quel che v’aggrada:/ o tristo o lieto o misero o felice,/ sempre amando terrò l’antica strada/…o di me sola, vera alma beatrice!” La segretezza d’amore appartiene al rito. Ciò che tormenta lo Zane è dunque l’incapacità e quasi la paura di rivelare il suo dolore. Quello che più lo grava, tuttavia, è il dover morire tacendo il suo male. E’, tuttavia, destino degli amanti morire e rinascere mille volte al giorno e non trovare neppur un conforto in chi si ama. Come in Petrarca, anche, nella lirica di Zane il godimento del proprio dolore diventa fonte delle sensazioni più sottili. Questo avviene per lo più sotto forma di ossimori: dolce dolore, dolce tormento. E’ questo il “dulce malum” presente nell’antica poesia d’amore. L’espressione indica la contrastante inquietudine in cui si trova l’innamorato, i controsensi in cui tutto si trasforma ai suoi occhi. Dai tormenti e dalle sofferenze di amore non si cerca alcuna guarigione: tra tutti i mali, infatti, solo l’amore è dolce e gradevole.
Tuttavia, il patto stipulato tra i due amanti è violato dal tradimento della donna che dona il suo cuore ad un altro. Un’incisiva novità si inserisce tra le forze affettive. Una nuova forza viene dunque a privare il poeta del conforto dell’amore:” La chiara luce di que’ santi rai/ pur senza nostra colpa, ohimé, n’è tolta:/ nebbie di gelosia ne l’han sepolta, e quando più la rivedrem giammai?” Unico responsabile di questa dolorosa condizione è il destino avverso e crudele. A causa dell’assenza della donna, l’amante si abbandona spesso a monologhi in cui trova un conforto alla sua pena e al suo tormento. L’origine di quanto sta per accadere è il matrimonio della donna. Queste donne esistono, dunque, realmente nella vita dei nostri poeti del Cinquecento, accendono il loro cuore e i loro sensi in varia misura. Il motivo di un secondo amore da parte della donna costituisce certamente una novità nella storia della lirica d’amore. La vita passata viene evocata nell’immagine di un labirinto in cui l’amante ha errato per molti anni privo della propria individualità, soggiogato dal dominio dell’amata. Il desiderio di rimanere fedele non riesce a trovare la forza necessaria per affermarsi. Con il matrimonio la donna diventa, infatti, qualcosa di irraggiungibile. Ed, allora, molte volte il poeta confessa il proprio desiderio di riposo e di pace: la vita non è stata altro che affanno e, se talvolta egli ha conquistato il riposo, questo conserva sempre le tracce delle angosce passate. Spesso la metafora della navigazione viene utilizzata per esprimere il desiderio da parte dell’innamorato di un viaggio tranquillo, cioè, di un amore ricambiato. Se questo è però impossibile, sia la morte il porto a cui ancorarsi:” O fa’ che mia Nave il camin volga/a più tranquilla strada; o tu consenti/ che lieto in grembo a morte io mi raccolga; /questa il porto sarà de ‘ miei tormenti. Solo la morte può placare un’esistenza travagliata: essa è l’alternativa ad un amore non corrisposto. Oltre alla metafora della navigazione, quella del cammino ci rappresenta l’innamorato stanco, desideroso di placare le sue pene. Questa volta, però, non è la morte il vagheggiato “riposato” porto, ma la vecchiaia.
Oltre al luogo, viene celebrato, anche, il tempo dell’innamoramento ed ogni ricorrenza diviene come in una liturgia profana. Il motivo è tipicamente petrarchesco: ”Benedetto sia ‘l giorno e ‘l mese e l’anno”. In Giacomo Zane, il ricordo è velato tuttavia da un sottile senso di dolore: quell’anno ha portato, infatti, solo sofferenze per la mancata realizzazione del desiderio d’amore. Nonostante tutto esso lampeggia come il momento più alto e drammatico della sua vita.
Il senso del trapassar delle cose e del fluire del tempo è uno dei temi maggiormente sviluppato nelle Rime di Giacomo Zane. In molti casi si rivolge direttamente alla donna e l’esorta a godere della giovinezza e dei doni che essa può offrire “Fugge il bello e l’età con presti passi,/ né ritornano adietro i dì migliori…..” I versi hanno la forza di una severa ammonizione. Tipicamente umanistico è l’ammonimento a godere delle gioie della vita prima che il tempo, la vecchiaia e la morte attuino la loro incombente minaccia. Nel sonetto CLXXIX, lo Zane, dall’osservazione di una legge naturale, lo sbocciare e l’appassire dei fiori nell’arco di una breve giornata, rappresenta in pochi versi la parabola e la fine della sua storia d’amore. La vita appare, quindi, caratterizzata dall’alternanza di stagioni proprio come avviene in natura. Il tempo corre inesorabilmente e non si arresta mai: una volta passato non ritorna più!
Come in Petrarca, anche, in Giacomo Zane l’esperienza d’amore ha alla sua base una drammatica conflittualità. Il rifiuto della vita passata caratterizzata dalla passione d’amore emerge con viva forza. Quanto sia vano l’amore terreno, quanto vani i desideri che alimenta nel cuore viene affermato nella canzone “De le catene mie disciolto……” attraverso l’immagine di un sogno simbolico che rievoca il celebre tragico mito di Dafne narrato nelle Metamorfosi di Ovidio. Ciò che il poeta ha sognato è stata una falsa immagine. Così falsa è l’immagine che egli sta inseguendo per tutta la vita. Falso e vano è dunque l’amore che nutre per la donna.
Dopo aver analizzato brevemente questi testi utili alla comprensione del discorso, è opportuno fare alcune considerazioni relative al rapporto dello Zane con il modello petrarchesco.
Il Canzoniere del Petrarca si presenta come un itinerario che si sviluppa in tappe precise: 1) l’ innamoramento 2) la caduta delle speranze 3) il pentimento 4) il ricorso a Dio. A questo schema si accorda soltanto parzialmente il diagramma della vicenda poetica del veneziano nel senso che, per esempio, al momento del pentimento non segue un effettivo abbandono in Dio.

Alessandra Palisi



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