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 Autobiografia


Articolo di Olivia Trioschi – Rivista Il Club degli autori n° 107 – 108 Luglio – Agosto 2001


“L’autobiografia come genere letterario: e lo scrittore scoprì l’Io”

«Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando ripetendo più volte: ‘Prendi e leggi, prendi e leggi’. Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco da ragazzi, ma non ricordavo di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. [...]. Appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono».
«M’impegno in un’impresa senza esempio, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho incontrati; oso credere di non essere come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di più, sono almeno diverso. Se la natura abbia fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha colato, non si può giudicare che dopo avermi letto. Suoni pure, quando vorrà, la tromba del giudizio finale: io mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani».
Quindici secoli separano queste voci. Sono voci di uomini che hanno intensamente vissuto e segnato la loro epoca, pietre miliari nella storia infinita della conoscenza di sé, sola strada attraverso cui può avvenire la conoscenza del mondo. E sono voci autentiche: ciascuno, leggendo queste righe, può sentire e sente ancora oggi l’intensa passione da cui sono nate, il supremo desiderio di verità che le anima. Sono confessioni entrambe: e proprio questo, Le confessioni, è il titolo dei volumi da cui sono tratte. Gli autori – e a questo punto è quasi superfluo ricordarlo – sono Agostino, il grande vescovo di Ippona vissuto nel IV secolo, e Jean Jacques Rousseau, filosofo e gran camminatore, icona sia dell’illuminismo che del romanticismo.
Le Confessioni, quelle di entrambi, appartengono a un genere letterario preciso, l’autobiografia. Sentiamo come un critico letterario importante, Lejeune, lo ha individuato: «racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria vita mettendo l’accento sulla vita individuale e in particolare sulla storia della sua personalità». Questa definizione, forse un po’ arida come tutto ciò che cerca di sistematizzare e catalogare ciò che nasce per magica alchimia tra intelligenza ed emotività, è però assai utile perché consente di porre l’accento su alcuni elementi che appartengono solo e soltanto all’autobiografia come genere. Chiunque, e sono tanti, cerchi di scrivere di sé dovrebbe tener presente che solo il rispetto di queste indicazioni di massima fa sì che si possa parlare propriamente di autobiografia.
Intanto si tratta di una questione formale: la forma, dice Lejeune, è in prosa; poi l’argomento: si tratta della storia di una personalità; e infine il rapporto autore/narratore: c‘è identità tra i due – e deve trattarsi di un personaggio reale – così come c‘è identità tra narratore e personaggio principale. Si può poi aggiungere, come conseguenza, che trattando il narratore della sua storia personale il raccontò avrà una visione retrospettiva, cioè sarà svolto facendo uso di verbi al passato e al contempo di verbi al presente che richiamino l’atto dello scrivere. Ci sono poi alcuni elementi contenutistici ricorrenti che emergono anche dai due brevissimi esempi che abbiamo citato all’inizio: l’insistenza sulla sincerità, verità e completezza del racconto, segnali questi necessari per stabilire un rapporto di fiducia col lettore il quale, ricevendo un messaggio che per sua natura non è verificabile, deve essere indotto a credervi; la consapevolezza della novità della propria impresa, l’esaltazione della propria individualità, la presenza del destinatario (il “voi”, gli appelli al lettore perché partecipi con esclamazioni e domande all’operazione di scrittura).
L’autobiografia si configura in questo modo come un genere specifico, genere che ha conosciuto enorme fortuna, dal punto di vista della storia della letteratura, a partire dalla seconda metà del Settecento. Si può anzi dire, magari forzando un po’ la mano, che i quindici secoli che separano Rousseau da Agostino sono di silenzio del sé – nei termini prima individuati – se si eccettuano alcuni esempi (anche clamorosi, basti pensare alla famosissima Storia delle mie disgrazie di Abelardo). Cosa accade, dunque, sul finire del Settecento, che porta gli scrittori a raccontare la propria vita, e soprattutto la costruzione della propria personalità, come fatto conoscitivo irrinunciabile, come esperienza che può e deve essere condivisa? Non trattandosi di equazioni matematiche è ovviamente impossibile stabilire precisi legami di causa-effetto; ciò nonostante, si può tentare qualche ipotesi partendo dalla considerazione che due fatti si innestano tra loro proprio in quel periodo: uno appartiene alla storia della mentalità, l’altro alla storia politica. Il primo è il Romanticismo, il secondo la Rivoluzione Francese. È noto come il Romanticismo, la cui culla è stata la Germania di Novalis, dei Fratelli Grimm, delle saghe medievali, riporta prepotentemente l’attenzione su tutto ciò che nella personalità umana sfugge al controllo della ragione: emozione, sentimento, paure, desiderio. Sturm und Drang, tempesta e impeto, era il nome di uno dei primi circoli romantici tedeschi. Il tentativo è quello di dare un nome anche ai lati oscuri dell’animo, alle ombre, ai tormenti; di misurarsi con l’immensità della natura sentendosene parte, confondendosi in un universo infinito per trovare l’Uno e compensare gli opposti. È ciò che Friedrich ha messo nel quadro in copertina: l’uomo solo di fronte a un mare in tempesta, immerso nelle onde fumiganti, stagliato contro il cielo aperto. L’uomo che sfida ma cerca anche di comprendere. L’altro fatto, la Rivoluzione Francese, porta con sé una delusione storica per tutti gli intellettuali che avevano creduto con tutto l’entusiasmo e la volontà di cui erano capaci che davvero si stava aprendo un’era nuova per l’umanità, che davvero l’ingiustizia e il sopruso sarebbero stati sconfitti per sempre, che davvero la fratellanza avrebbe trionfato e mai più un uomo avrebbe schiacciato un altro uomo. Non fu così, si sa. Quando la Rivoluzione rientrò, lasciando tutti nauseati del sangue versato, del furore e dell’odio accecante, si scoprì che aveva vinto la borghesia, la quale aveva da pensare alle proprie botteghe e ai propri affari, e solo di striscio ai propri affetti. Il contrasto tra stato di natura e storia, già tragico per Rousseau, divenne incolmabile. Ed ecco allora il ripiegamento in se stessi, la necessità di indagare la propria interiorità anche come modo per fuggire da un mondo tanto ordinato quanto squallido. Di conseguenza il modulo privilegiato dell’espressione diventa quello della narrazione soggettiva e della confessione, anche in forma epistolare: i modelli sono Werther, Ortis (protagonisti però di romanzi epistolari e non di autobiografie, anche se è noto come in essi confluisca gran parte della personalità degli autori, Goethe e Foscolo) e ovviamente le Confessioni di Rousseau.
Torniamo allora a questo capolavoro per conoscerlo più da vicino. Come si è detto, ci sono tutte le tecniche del racconto autobiografico: numerosi sono i segnali della veridicità e della trasparenza, anche impietosa, dei ricordi; altrettanto numerosi sono gli appelli al lettore; si notano i momenti caratteristici delle autobiografie: nascita, rapporti familiari, sessualità infantile, iniziazione al mondo. Lo stile, è stato notato, è una mescolanza tra tono elegiaco e tono picaresco che riflette la filosofia della storia di Rousseau. Il tono elegiaco, prevalente nell’infanzia, esprime il sentimento della felicità perduta, del rimpianto per un’età in cui il fanciullo (come l’uomo delle origini) possedeva la felicità e l’innocenza; il tono picaresco domina l’età adulta in quanto tempo della riflessione lucida ma anche della debolezza, dell’umiliazione e degli espedienti. Il passato, dunque, è al contempo il periodo benedetto della completezza di sé e quello del sonno della ragione; nel presente si vive al contrario il sorgere della razionalità e la perdita del paradiso. Proprio questo – la perdita del paradiso – è uno dei temi che ricorrono con più insistenza insieme con quello del rapporto tra essere (che coincide con l’innocenza) e apparire (dove l’apparenza è invece sinonimo di colpevolezza); un altro contenuto significativo è il problema del male e dell’ingiustizia, ciò che caccia il fanciullo innocente dal paradiso gettandolo in un mondo di sopruso e inganno. Tutti temi ben esemplificati nel famoso episodio del pettine della signorina Lambercier, istitutrice gentile e ferma come una madre, la quale punisce il giovane Jean Jacques per un delitto (la rottura di un pettine) non commesso nonostante tutte le apparenze inducessero al contrario. «Immagini il lettore – scrive Rousseau – un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo sempre educato dalla voce della ragione, sempre trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che non concepiva neppure l’ingiustizia e che, per la prima volta, ne subisce una così terribile, e precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di più: che capovolgimento di idee! Quale scompiglio di sentimenti! [...] Quella prima impressione della violenza e dell’ingiustizia mi è rimasta così profondamente scolpita nell’anima che ogni idea che vi si collega mi ridona la mia prima commozione, e quel sentimento, che riguarda me nella sua origine, ha preso in sé tale consistenza, e si è staccato così perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il mio cuore si infiamma alla visione o al racconto di un atto ingiusto, qualunque sia l’oggetto e dovunque sia commesso, come se l’effetto ricadesse su di me». Rousseau adulto proclama la sua assoluta innocenza con il duplice intento di mettere in mostra come l’ingiustizia, emersa nell’ambiente più accogliente, mette in moto il suo temperamento e lo rende nemico di ogni sopruso (riflessione questa nata dalla realtà e non da esperienze libresche); rileva inoltre come tutto ciò produca un effetto nefasto sul fanciullo: si è spenta la gioia istintiva di una vita innocente.
L’episodio clou, l’evento che rivoluziona la vita umana, è un altro elemento che caratterizza l’autobiografia. L’autore/narratore/protagonista che ripensa alla sua vita, o a una fase precisa di essa, individua quel momento rivelatore in cui il mondo è apparso in una luce diversa, quell’istante chiarificatore che come un lampo ha illuminato tutta un’esistenza facendo germinare da sé tutta una serie di conseguenze, e lo pone al centro della sua narrazione (centro ideale, ovviamente, non fisico) dipanando da esso il primo e il dopo. Spesso nelle autobiografie questo momento viene ricollegato alla lettura di un libro: si è visto l’esempio di Agostino, che dalla lettura di un passo trae la consapevolezza della propria vocazione; lo stesso Rousseau ricorda in più luoghi le letture di Plutarco, letture cui attribuisce la formazione del suo spirito repubblicano e del suo carattere indomito, impaziente di giogo e servitù. Ancora a Plutarco si riferisce Alfieri, anche lui autore di una celebre Vita, quando cita modelli ideali di comportamento, eroi che hanno saputo dire e fare alte cose; Werther leggeva Ovidio, Ortis Omero. Potremmo chiamare questo topos dell’episodio clou “conversione”: ovviamente non in termini strettamente religiosi (per quanto la propria vita andrebbe vissuta con lo stesso impegno e la stessa fede di cui si nutre il sentimento religioso) ma in termini di profonda comprensione di quella che è la propria vocazione: chi sono, cosa voglio fare di me, che cosa mi fa sentire davvero vivo. Vocazione che può essere realizzata pienamente, come nel caso di Agostino, o anche negata: Rousseau dichiara apertamente la vita diversa, più semplice ma bruciata dal destino, che avrebbe voluto.
Per Alfieri la scoperta della vocazione di scrittore avviene nell’Epoca III della sua Vita ed è il risultato di una predisposizione che viene da quel momento compiutamente perseguita; per Goldoni, che sul finire della vita scrive le sue corpose memorie, è una forza centripeta – la realizzazione della riforma teatrale – che unifica tutte le vicende. Se citiamo questi due esempi è perché si tratta delle più giustamente note autobiografie scritte da italiani dopo le Confessioni di Rousseau ed è chiaro, a questo punto, che non è possibile prescindere dallo snodo fondamentale del grande francese quando si parla dello scrivere di sé. Si tratta anche in questi due casi di volumi estremamente corposi ma godibilissimi, sia pure per motivi diversi. Goldoni rispecchia la realtà nella sua dimensione visibile, parla diffusamente di incontri, viaggi, luoghi, vita di teatro, persone e personaggi e si appaga di ciò, creando un mobilissimo e colorato affresco della società di fine Settecento, degli ambienti colti veneziani e parigini; e tutto ciò non tanto con la superficialità che pure un grande critico come De Sanctis vi aveva voluto vedere ma piuttosto con la sapienza di vita che deriva dai tanti anni vissuti (e Goldoni ne aveva ottanta quando pose mano alle sue memorie), dal distacco ormai tangibile nei confronti delle cose che, si sa, verranno lasciate tra breve e dal disincanto che ormai impedisce di andare oltre il racconto delle cose nella sfera dell’idealità. La Vita alfieriana è piuttosto la storia di un’anima: quello che viene fuori è un paesaggio interiore, il ritratto di un uomo; da questo punto di vista è possibile classificarla (come del resto tutte le autobiografie) come bildungsroman, romanzo di formazione: quella tipologia di romanzo moderno che descrive le esperienze attraverso le quali passa il protagonista per acquisire consapevolezza della propria identità e del proprio destino. La Vita è l’opera che conclude la galleria di eroi alfieriani con l’ultimo, lui stesso, ormai in grado di trasferire letterariamente (nelle tragedie) i suoi desideri e la sua concezione agonistica della vita. Il tono che ne deriva è risentito ed eroico e crea un mito umano che influenzerà profondamente le generazioni successive (basti pensare a Foscolo).
Un altro mito umano è Giacomo Casanova, il quale pure si cimenta sul finire del Settecento in una voluminosa Storia della mia vita che se non è propriamente la storia di una personalità può essere senz’altro fatta rientrare nel filone autobiografico sia per la lontananza dei due tempi (passato/presente) sia per l’esatta coincidenza tra il personaggio libertino che si muove in ambiente salottieri incontrando intellettuali e cortigiane e discorrendo amabilmente di letteratura e politica e l’autore delle pagine. E anche in questo caso, come si è visto per Goldoni, non si tratta di ritratti sommari e superficiali ma di un’attenta ricostruzione di un’epoca e una società prescindendo da una tensione ideale sentita come molto lontana.
Una declinazione particolare del genere autobiografia è il romanzo autobiografico. Da un punto di vista tecnico le differenze non sono poi eccessive: permangono infatti l’identità narratore-protagonista, il narrare in prosa con impostazione retrospettiva e, soprattutto, la storia della personalità come nucleo della vicenda; ciò che salta è l’identità autore-narratore, anche se grosse fette della vita e della personalità del primo finiscono per confluire nel secondo. Tra i più significativi romanzi autobiografici moderni non si può non ricordare due titoli straordinari, entrambi inglesi: Robinson Crusoe di Daniel Defoe e La vita e le opinioni di Tristram Shandy di Daniel Defoe. Defoe è questo personaggio assolutamente singolare che dopo aver fatto il pubblicista decide che ha bisogno di soldi per sposare la figlia e propone a un editore il seguente patto: io ti consegno trecentocinquanta pagine di memorie di un naufrago e ti assicuro che avranno grande successo data la risonanza che un fatto simile ha appena avuto (ovviamente usciranno anonime per avvalorare l’idea della testimonianza di vita vissuta), e tu mi dai quel che mi serve per la dote. Detto fatto, il Robinson esce di lì a poco ed è un successo strepitoso grazie al fuoco di fila di invenzioni e avventure che si dispiegano in ogni pagina: naufragi, pirati, luoghi lontani ed esotici abitati da selvaggi, prigionie, fughe e quant’altro si riesce a immaginare. Una realtà (perché così viene proposto il volume) che però mantiene i connotati della fuga nell’immaginario, con in più tutta una serie di valori intensamente sentiti e condivisi dalla rampante borghesia inglese: capacità, operosità, intraprendenza, civilizzazione di selvaggi e assoggettamento della natura. Certo, a una lettura di secondo livello appare anche che Robinson, in realtà, non “vince” la natura con oggetti costruiti da lui ma con relitti del naufragio e che “civilizza” Venerdì facendone il suo schiavo, e tutto ciò ha il colore e il sapore del sopruso: ma resta il fatto che si tratta del paradigma degli elementi di sopraffazione insiti nell’economia di mercato nella sua fase espansiva, e ciò non poteva non colpire l’immaginario collettivo di una nazione aggressiva e potente come l’Inghilterra. Ben diverso il Tristram Shandy, che dichiara sin dal titolo come ciò che conti sono le opinioni, non le avventure; ciò che il protagonista pensa, non la realtà esteriore. E difatti è operazione praticamente impossibile ricostruire la fabula di questo romanzo scritto in prima persona ma in cui, paradossalmente, il protagonista non compare che nel III libro dicendo comunque assai poco della sua vita (tra l’altro il romanzo è incompiuto, si ferma al IX volume e non va oltre la fanciullezza di Tristram); si sa molto di più degli eventi precedenti la sua nascita, raccontati seguendo il filo tortuoso dei suoi pensieri con una tecnica straordinariamente moderna che più di un secolo dopo verrà chiamata flusso di coscienza. E, cosa che non guasta, si tratta di una lettura divertente, talvolta spassosa, che non soffre assolutamente dei duecento anni passati dal momento della scrittura né come linguaggio né come stile.
L’autobiografia (con tutte le sue declinazioni in termini di sottogeneri, come il romanzo autobiografico tradizionale e/o epistolare) non ha cessato di esercitare il fascino “riscoperto” dagli scrittori un paio di secoli fa. Nel Novecento, poi, si è assistito al singolare fenomeno dell’appropriazione di questo strumento espressivo da parte delle donne, che ne hanno fatto anche un momento di conoscenza del proprio essere diverse rispetto all’universo maschile con risultati di grande letteratura. Parlare di sé, in realtà, rappresenta un momento altamente consolatorio: e quando questo si fonde con una reale sicurezza di stile lo scrittore diventa una “porta”, un canale attraverso il quale passano le emozioni e i travagli di tutti. Perché il mondo è fatto di tante singole individualità, e solo la condivisione degli affetti può far sentire meno soli; si vorrebbe però che questo non diventasse mercificazione, esibizione sbandierata e sgangherata di tante “vite vere” e “vite vissute” gettate in pasto a famelici spettatori (non più lettori, e questo è un vero guaio) pronti ad assorbire tutto senza entrare in empatia con niente e nessuno. La vita individuale – l’esperienza individuale – è l’unica vera ricchezza che all’uomo è dato possedere: è straordinario che si riesca a farne patrimonio comune, ma è triste e squallido che diventi solo metro per misurare audience. Rifarsi a modelli di autentiche, grandi autobiografie del passato è forse l’unico modo per riappropriarsi di uno strumento espressivo eccezionale e dalle potenzialità uniche, che va però coltivato con sapienza e usato con intelligenza e cuore.

Olivia Trioschi



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