Vi presento gli uomini così come li ho conosciuti io…

di

Barbara Scotti


Barbara Scotti - Vi presento gli uomini così come li ho conosciuti io…
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 109 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-3496

eBook: pp. 92 - Euro 5.99 -  ISBN 9788865873946

Libro esaurito

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In copertina «Awekening» olio su tela di Nikla Scotti


Le persone si scelgono ogni giorno, si sceglie di viversi e condividere, anche se le scelte, qualche volta, infrangono tutte le regole. Un giorno hai tutto. Un giorno non hai niente. Tu sei il mio tutto…

Andai nella mia baita in montagna con Valerio e Stefania, i miei amici del cuore. Arrivata lassù, mi fermai a contemplare la vallata, come facevo da bambina, e urlai a squarciagola il mio nome per sentirne l’eco. Virginia rimbombava fuori e dentro la mia testa e significava libera. La più dolce melodia che avessi mai sentito. Una nuova me. Stare per anni chiusi dentro ad una gabbia non può e non deve togliere il piacere di ricominciare a volare.


INTRODUZIONE

Gli uomini… che creature singolari! Vivono in un universo parallelo a quello delle donne, due mondi che non si incontreranno mai completamente.

Ci fanno arrabbiare, piangere, soffrire, ma non riusciamo a farne a meno. Ne ho conosciuti tanti nella mia vita, qualcuno l’ho amato, qualcun altro no, ad alcuni ho mostrato la mia parte migliore, ad altri solo il peggio.
Se oggi sono quella che sono, cinica e senza scrupoli, ma al tempo stesso romantica e sognatrice, lo devo in parte anche ad alcuni di loro.

Quelli che hanno i soldi cercano in ogni modo di comprarti, quelli che non ne hanno fingono di essere ricchi per impressionarti.
Sono teneri e impacciati, caratterizzati da un sottile senso d’inadeguatezza, sempre pronti ad attaccare per non essere attaccati. Adoro la loro fragilità, mi diverte la loro bassissima soglia di sopportazione del dolore fisico.
Mi incuriosisce l’incongruenza tra la loro tendenza a tradire e l’incapacità di ammetterlo, poi pubblicano le foto su facebook incrementando il lavoro degli avvocati divorzisti.
Alcuni si chiedono per anni come funzioni un ferro da stiro, altri sono attanagliati da un dubbio atroce: come fanno i panni sporchi a finire dal cesto della biancheria nella lavatrice?
Sono ben felici di farsi gestire la vita, ma poi ti accusano di prevaricarli e ribadiscono di essere loro a portare i pantaloni. Hanno la convinzione di avere un unico ruolo predefinito nell’economia domestica: portare fuori la spazzatura, purché sia la donna a ricordarglielo.
Il solo modo per avvicinarci a loro è cercare di entrare in punta di piedi nel loro spazio, fatto di sesso, calcio, motori e Playstation, imparare ad accettarli senza pretendere di cambiarli.
Sono Virginia, una donna comune di quarant’anni suonati, con una discreta carriera, un mutuo trentennale, la passione per i cani. Ho pochi amici ma veri. Faccio spinning tre volte la settimana affinché le mie chiappe possano sfidare dignitosamente la forza di gravità, vado al cinema solo la vigilia di Natale e mangio sushi una volta al mese. Lavoro come responsabile in una lussuosa palestra a Como, la mia città, e vivo in un piccolo paese in provincia, in una casa tutta mia. Come tutte le donne ho da sempre un rapporto conflittuale con l’universo maschile.

Seduta sulle ali di un grande albatro ho attraversato lo spazio temporale della mia vita, guardando dall’alto le esperienze più significative, i momenti unici e irripetibili.
Mi sono trovata bambina innamorata di suo padre, poi donna, moglie e forse anche… mamma.
Ho tradito e sono stata tradita, ho amato e sono stata amata, ho cercato di capire gli uomini e non ci sono mai riuscita fino in fondo.
Questo libro vuole essere un tentativo di riconciliazione, un motivo di riflessione, una flebile speranza di riuscire, un giorno, a vedere il mondo con i loro occhi.


Vi presento gli uomini così come li ho conosciuti io…


A James,
che mi ha regalato i giorni più felici della mia vita,
in nome di quello che siamo stati,
del nostro effimero “per sempre”.


MIO PADRE

È sempre stato un uomo ermetico, mio padre, a tratti indecifrabile.
Per tutta la vita ho cercato di comprenderlo, ma pochissime volte ci sono riuscita davvero. Spesso, ancora oggi che è quasi un sessantenne, riesce a nascondere magistralmente pensieri e preoccupazioni dietro ai suoi meravigliosi profondissimi occhi blu, dentro ai quali adoro navigare per poi perdermi.

Mi è capitato raramente, durante il matrimonio dei miei genitori, di vedere quegli occhi felici, pieni di luce, ma piuttosto spenti, piccoli, quasi assenti. Ho sempre creduto che un matrimonio non debba mai esistere o resistere per il bene dei figli, perché, nella maggior parte dei casi, il tentativo di tenere unita la famiglia si rivela una grottesca caricatura di un ideale irraggiungibile, una lenta agonia che porta, inevitabilmente, a precipitare nonostante il fallimentare esperimento di stare in bilico sull’orlo del baratro della vita.

Erano poco più di ventenni quando si conobbero. Mia madre era una bellissima adolescente ribelle, in fuga da un padre eccessivamente possessivo e severo; trovò in mio padre la sua ancora di salvezza, la via d’uscita a una vita che le stava troppo stretta. Lavorava come apprendista parrucchiera, amava i bei vestiti, anche se non poteva quasi mai permetterseli. Una volta, di ritorno da un viaggio in Inghilterra, si presentò all’aeroporto con una giacca bianca di piume di struzzo acquistata di nascosto con il suo ultimo misero stipendio, tacchi vertiginosi e capelli cortissimi di un colore improponibile. Quando sua madre la vide rimase di stucco, la afferrò per un braccio, la mise in macchina e non proferì parola fino a casa. Da quel momento mia madre non vide la luce per moltissimi giorni, chiusa nella sua camera a piangere amare lacrime di mascara nero come la pece che le colavano lungo le guance.
Mio padre era un bravo ragazzo, studiava tutto il giorno e raramente si concedeva qualche uscita con gli amici. Quando incontrò mia madre rimase folgorato dalla sua bellezza, aveva i lineamenti di un’attrice e sembrava più matura della sua età. Se ne innamorò immediatamente e, senza nemmeno avere il tempo di rendersene conto, scoprì che sarebbe diventato padre. Proprio lui, che era abituato a calcolare tutto nella sua vita, così preciso e sempre scrupoloso, si trovò travolto dagli eventi. Anche se aveva soltanto ventiquattro anni, dopo un periodo di iniziale incertezza, decise di assumersi le proprie responsabilità e, dopo pochi mesi, si trovò strizzato in un abito scuro davanti all’altare. Non è mai stato un codardo, mio padre, e accettandomi lo dimostrò già in quell’occasione. Fino alla mia nascita i neo sposi vissero in casa dei miei nonni paterni per poi trasferirsi nei locali sottostanti, dove il nonno aveva ricavato da un seminterrato un’incantevole casa per la nostra famiglia, che fu per molti anni la mia cuccia, il mio rifugio, il mio porto sicuro. Mia madre era ingrassata più di venti chili, il suo meraviglioso corpo di ragazzina era segnato in maniera incontenibile da quella gravidanza inaspettata, ma lei non perse mai il sorriso, anche se quei nove mesi furono difficili e interminabili. Era il 20 luglio del 1971, il giorno in cui era previsto il mio arrivo. Mia madre non dormì la notte precedente, era agitata e aveva già preparato una valigia con poche cose: una camicia da notte bianca, lunghissima di pizzo e una tutina rosa per me. Erano lontani i tacchi vertiginosi e la giacca di piume di struzzo! Improvvisamente la bambina indomabile si era trovata donna, presto mamma, ma era incoscientemente felice. Ad un tratto, mentre sorseggiava una limonata fresca in quella caldissima mattina di mezza estate, si sentì stringere da un nodo alla gola, quasi soffocare, fu colta dal presentimento che qualcosa non sarebbe andato nel verso giusto. La sua attenzione fu catturata dal gatto che miagolava fastidiosamente. Si avvicinò all’animale abbastanza da sentire un odore acre di morte e realizzò immediatamente l’accaduto: vicino al micio giaceva morto e in parte divorato un grosso topo di fogna! Urlò dallo sgomento, si allontanò immediatamente da quello scenario che interpretò come un terribile presagio. Trattenne a stento il vomito, cercò faticosamente di raggiungere il divano, tenendosi la pancia con entrambe le mani, camminando sorretta da quei piedi così gonfi che non entravano più nelle ciabatte, ma cadde riversa sul fianco perdendo i sensi.
Quando mio padre arrivò, la trovò ancora lì ai piedi del divano, corse verso di lei con il cuore che sembrava scoppiargli nel petto. Dopo un’ora erano in ospedale, in attesa di poter festeggiare quella nascita che tardava ad arrivare. La tensione durò più di dieci giorni perché, nonostante le insistenze del ginecologo, decisi di posticipare il mio arrivo al 31 luglio.
Mia madre era stata tutto il giorno a letto, era stanca e il suo entusiasmo stava sempre di più scemando. Si era fatto piuttosto tardi. In ospedale, vicino a lei, era rimasta solo sua madre, che cercava di darle un po’ di sollievo sventolando un grande ventaglio celeste. Ad un tratto cominciarono le doglie, la stanza si fece improvvisamente piccola, mia madre piangeva e diceva di sentirsi schiacciata da quelle pareti bianche. Chiese alla suora di turno di aiutarla, quella la guardò con freddezza e le rispose: «Siete proprio bizzarre, voi donne. Prima accettate di buon grado il piacere (quando concepite un figlio) e poi sfuggite al dolore (quando lo dovete partorire)!»
Quella cattiveria gratuita e ingiustificata, vomitata con tanto cinismo da chi dovrebbe professare la parola Dio, la fece precipitare in un dolore ancora più profondo di quello fisico. Chiuse gli occhi e andò incontro al suo destino.
Quando incappò per la prima volta in quel fagottino bianco e rosa, si sentì estremamente felice e sollevata, entrava nel mondo degli adulti e tutto quello che l’aspettava non poteva che essere migliore di ciò che in quel momento si lasciava alle spalle.
Uscì dalla sala parto portando con sé quel piccolo miracolo come un trofeo, provando a immaginare la reazione e lo stupore di suo marito.
Quando raggiunse il corridoio dell’ospedale c’era pochissima luce e riuscì a malapena a scorgere da lontano una figura esile e leggera; realizzò che non poteva nettamente trattarsi di mio padre e, mano a mano che si avvicinava, riconobbe in quell’ombra offuscata dal buio e dalla fatica, la nonna – sua madre, – che era stata lì ad aspettarci per tutte quelle ore. Ci corse incontro e ci travolse in un abbraccio infinito. Mia madre sorrise, ma non riuscì a trattenere le lacrime, che non erano dettate dalla gioia, bensì dalla delusione. Suo marito non era lì, era la prima di una lunga serie di occasioni in cui l’avrebbe lasciata sola. Ancora oggi non so dove fosse e perché non arrivò, ma credo che lei non glielo perdonerà mai. Il gatto aveva annunciato quel momento, non aveva sbagliato. Per questi motivi ancora oggi mia madre odia i gatti e credo che, a volte, odi anche mio padre.

Ero la reginetta di casa, una bambina viziata e capricciosa. Riuscivo sempre ad ottenere tutto da tutti. L’unico che mi resisteva era proprio lui, mio padre, non perché non mi amasse, ma semplicemente perché nel suo ruolo di genitore emergeva forte la priorità di trasmettermi valori e educazione. Non ricordo un abbraccio spontaneo, un bacio o una carezza da parte sua, che non fossero dettati dalle circostanze.
Era un tiepido e limpido pomeriggio che precedeva la Pasqua, in città era arrivato il Luna Park, un evento eccezionale per una bimba di provincia come me, strozzata in un piccolo paese che sorgeva sulle colline. Mio padre si stava dedicando alla sua più grande passione: l’orto. Stava lì, chino con le mani che affondavano nella sua amata terra, quando lo raggiunsi ansimante. Indossavo il mio vestito preferito, quello bianco e blu con ricamate delle grandi fragole rosse e le scarpe di vernice nera. Il cuore mi batteva forte e, nonostante temessi più di ogni altra cosa un fallimento, chiesi con un filo di voce: «Papà, mi porti al Luna Park a mangiare lo zucchero filato?»
Aspettavo e mi dicevo che mai avrebbe lasciato il lavoro in programma per quel giorno, ma dentro di me urlavo per non ascoltarmi. Lui si asciugò con la manica della camicia la fronte perlata di sudore, alzò la testa, mi guardò e all’improvviso il suo volto si illuminò.
«Va bene, adesso arrivo!»
Mi sentivo come dentro ad una bolla di sapone, sospesa nell’aria come un palloncino. È incredibile come le cose più semplici e banali possano segnare in maniera così determinante la nostra vita. Quella fu la mia prima grande conquista, quel piccolo gesto aveva cambiato in modo significativo la mia prospettiva per il futuro. Nonostante l’esito positivo, non ho mai smesso di avere un’ingiustificata paura nel chiedere qualcosa a mio padre, forse a causa di quel muro sottile che ho sempre sentito tra noi due e che ho cercato per tutta la vita di scalfire.
Mi teneva per mano mentre giravo tra le giostre, mi accompagnò sul trenino a forma di bruco nonostante le vertigini e mi comprò un pesciolino rosso incredibilmente ciccione. Ero la bambina più felice del mondo, fiera di avere a fianco il mio adorato “cavaliere”. Ho sempre amato lo zucchero filato e ancora oggi, quando lo mangio, mi sembra di sentire il sapore e il profumo di quegli anni e rivedo una piccina con un vestitino di fragole e dei lunghi capelli biondi che passeggia con suo padre. I ricordi sono un dono prezioso e ci accompagnano per tutta la vita, anche se gli eventi che li hanno generati ci hanno fatto soffrire.
La sofferenza, quella vera, la conobbi qualche anno più tardi, quando la mia quotidianità cominciò a essere scandita da lunghi silenzi tra i miei genitori intervallati da pacate discussioni, che si fecero via via più frequenti, fino a diventare una triste abitudine. Le divergenze di carattere e la totale assenza di dialogo stavano conducendo lentamente il loro matrimonio alla deriva. Io, testimone impotente, non potevo fare altro che stare a guardare, raccogliere i cocci di una famiglia a pezzi e nasconderli nell’angolo più profondo del mio cuore di figlia, il giardino segreto di cui nessuno ebbe mai la chiave.
Nemmeno l’arrivo di mio fratello riuscì a rimettere ordine nel nostro piccolo mondo, che diventava ogni giorno più stretto, facendomi sentire sempre più sola.
Mamma e papà litigavano continuamente e per ogni cosa, anche la più banale, lei urlava e lui stava quasi sempre zitto, poi si voltava e si rifugiava a casa dei suoi genitori. Io lo guardavo mentre veniva inghiottito da quel lungo corridoio, fissavo per ore la porta chiusa sperando di vederlo rientrare. Anche se ci separava solo una rampa di scale, in realtà, lo sentivo lontanissimo e quel silenzio si faceva sempre più assordante.
Alcuni episodi, agli occhi estranei di un ingenuo spettatore, potevano sembrare addirittura comici, come quella volta che mia madre si presentò a casa con una lunghissima e morbida pelliccia di visone, in un momento in cui la nostra famiglia non stava attraversando un periodo particolarmente florido dal punto di vista economico, poiché lei aveva smesso di lavorare per dedicarsi a me e a mio fratello, che era ancora molto piccolo. Mio padre era sprofondato nel divano e leggeva “Airone”, la sua rivista preferita, quando percepì il rumore delle chiavi nella toppa della porta, alzò gli occhi e si trovò di fronte ad una situazione che gli sembrò inverosimile. Ricordo che la sua pelle diafana si fece d’un tratto porpora, si alzò e fece per andarsene ma, come se qualcosa lo trattenesse, si voltò velocemente e, cercando di mantenere la calma, chiese spiegazioni. Immaginate la sua reazione quando mia madre, con la determinazione che l’ha sempre contraddistinta, rispose di aver impegnato alcuni vecchi gioielli che lui le aveva regalato per: «…realizzare il mio sogno» disse. Questo è il momento in cui nei film comici la gente ride e applaude, ma nella vita reale non è esattamente così divertente. Quell’istante fu tutt’altro che spassoso, direi tremendamente drammatico. Gli occhi di mio padre si fecero lucidi, era disarmato da quelle rivelazioni e pensava insistentemente a quel ciondolo a forma di cuore che aveva comprato per lei tanti anni prima a Vipiteno, dove aveva svolto il servizio militare. Anch’io me lo ricordo: era di oro giallo e pietre bianche, grande come una moneta da due euro, con applicata una stupefacente rosa rossa di ceramica al centro. Lo vidi per la prima volta al collo di lei, in una vecchia foto, dove i due giovanissimi fidanzati guardavano l’obiettivo stando in posa. Lui a torso nudo, indossava dei larghissimi pantaloni bianchi a “zampa d’elefante”, i capelli lunghi sulle spalle e la sua amata chitarra; lei al suo fianco, la chioma color oro le copriva interamente la schiena, calzava degli altissimi sandali “con la zeppa”. Quelle immagini hanno sempre rappresentato, per me, un ideale da seguire, un obiettivo da raggiungere, la loro vera natura collocata in quei meravigliosi anni Settanta che io ho sempre amato, ma che non ho avuto la fortuna di aver vissuto. Quando cerco di dare una forma alla vera felicità ripenso a quella foto scolorita e il cuore mi si riempie di meraviglia. Il ciondolo con la rosa illuminava il viso di quei due improbabili “figli dei fiori” e rappresentava il simbolo di un’unione che si proponeva di durare per tutta la vita. Non ho mai più visto un gioiello così intriso di poesia, ma non ho colpevolizzato mia madre per averlo venduto; credo che in qualche modo la sua fosse una provocazione, un modo per far capire a mio padre che quel regalo prezioso non avrebbe mai potuto colmare il vuoto lasciato dalla fine di quell’amore, che era ormai tangibile. Una richiesta di aiuto, forse.
Non ho mai capito perché, nonostante tutto, il loro matrimonio durò per più di venticinque anni. Forse alcune persone credono di essere naturalmente predisposte alla sofferenza e si rassegnano a lasciarsi vivere, senza nessuna aspettativa o forse, più semplicemente, non accettano il fallimento. Io invece credo che perdere una battaglia non significhi perdere la guerra e che ogni volta che cadiamo troviamo, dentro di noi, la forza per alzarci, camminare e magari correre più veloci di prima.

Un altro momento terribilmente vuoto e triste era il Natale, cioè l’occasione in cui le famiglie, quelle vere, si riuniscono e si sente il profumo delicato dello zucchero a velo spolverizzato sul pandoro.
Papà mi faceva preparare un piatto con i biscotti e uno colmo di neve, rappresentavano le mie personalissime offerte al buon vecchio Babbo Natale, che aveva decisamente bisogno di rifocillarsi dopo il lungo viaggio. La mattina di Natale, quando ancora in pigiama e scalza correvo in salotto, trovavo ogni anno i biscotti intatti mentre il piattino di neve era vuoto. Ancora oggi non riesco a spiegarmi perché Santa Claus avesse tali preferenze!
I sogni aiutano i bambini a essere più sereni e gli adulti a ritornare bambini.
I regali erano molteplici, come già detto ero disgustosamente viziata, ma spesso non li scartavo nemmeno per non sciuparli. Questo aspetto del mio carattere, cioè il rispetto per le cose, che a volte è addirittura maniacale, l’ho indubbiamente ereditato da mio padre. I regali che io e mamma sceglievamo per lui erano nella maggior parte dei casi talmente lontani dai suoi gusti che riusciva a malapena a nascondere il suo disappunto. In tanti anni gli abbiamo propinato quantità industriali di cravatte, per lo più di pessimo gusto; portachiavi, che lui ha sempre odiato; maglioni di almeno un paio di taglie più della sua… potrei continuare all’infinito e non riuscirei a riportare alla memoria le rare volte in cui ci abbiamo azzeccato!
Il pranzo di Natale era l’unico momento di aggregazione. Si svolgeva a casa dei miei amatissimi nonni, con tutta la famiglia riunita. C’era zio Sergio, fratello di papà, che all’epoca era ancora scapolo nonostante non fosse più troppo giovane; la dolcissima zia Maria, sorella del nonno, che non si muoveva mai senza la sua adorata gatta Paola; Wilma e Stella, cugine di papà, che rappresentavano per me delle adolescenti sorelle maggiori; Massimo e Anna, fraterni amici di famiglia, quasi degli zii e la loro piccola Germaine, la mia migliore amica da sempre. Tutte queste persone hanno avuto nella mia vita un significato profondo, quasi spirituale e indelebile. Ci sedevamo tutti intorno ad un lunghissimo tavolo, io mi mettevo in ginocchio sulla panca di legno, papà si arrabbiava e insisteva perché stessi a tavola composta, allora la nonna prendeva due cuscini dal divano e me li sistemava in modo tale che potessi, sedendomi, appoggiare i gomiti sul tavolo. C’era un gran chiasso di stoviglie e risate, i bicchieri erano colmi di quel profumato vino rosso imbottigliato dal nonno che, di nascosto dai miei genitori, ogni tanto mi faceva assaggiare. Era amaro come lo sciroppo per la tosse, lo inghiottivo a fatica e tossivo, poi diventavo rossa e mi si riempivano gli occhi di lacrime, ma dopo qualche minuto ne chiedevo ancora. Stavamo a tavola tutto il giorno, le portate uscivano dalla piccola cucina una dopo l’altra, senza interruzioni fino all’indimenticabile caffè della nonna, quello fatto sul fuoco, che inebriava tutta la casa con un aroma unico e inconfondibile, che posso sentire ancora oggi se chiudo gli occhi solo con il pensiero da quando, nelle nostre moderne case, la buona vecchia moka è stata soppiantata dalla macchinetta elettrica. Alcuni gesti del nostro passato sono legati in maniera indissolubile a dei valori antichi, dimenticati, così lontani dal nostro presente da riuscire a malapena a scorgerli eppure così vivi e radicati nel profondo del cuore.
Dopo pranzo – se così si può definire quel rituale della durata di svariate ore – noi bambini uscivamo in giardino a giocare nella neve con il cane e i numerosissimi gatti che giravano per casa. Ho avuto la fortuna di crescere circondata dagli animali, che ancora oggi significano tantissimo per me e verso i quali ho un rispetto quasi reverenziale. Sono creature capaci, a differenza dell’uomo, di amare incondizionatamente, ci accompagnano per tutta la loro esistenza senza chiedere nulla in cambio, ci sorreggono nei momenti tristi e ci leccano le ferite dell’anima.
Mio padre mi ha insegnato ad amarli in ogni circostanza, a non usare le maniere forti con loro, a non dimenticare che, nonostante abbiano i denti, fanno la scelta d’amore di non morderci. Non smetterò mai di ringraziarlo per questo prezioso insegnamento, dettato da una sensibilità più unica che rara.
Ricordo quella volta in cui un topolino di campagna riuscì a infilarsi, non so come, dentro una piccola fessura dietro il televisore del salotto, finendo all’interno di un mobile fissato al pavimento e rimanendoci per diversi giorni. Ad un certo punto papà, per ovvie ragioni, prese la decisione di mettere fine a quella convivenza forzata cercando di catturarlo. I roditori non sono certo i migliori amici dell’uomo, ma i metodi per debellarli sono a volte assolutamente disumani. Ho sentito di arnesi che li attirano con il cibo e poi li schiacciano, facendo addirittura fuoriuscire le povere viscere, oppure veleni che li eliminano all’istante agendo sugli organi interni, oppure ancora di colle speciali che li fanno rimanere appiccicati ad una tavoletta per poi essere finiti dalla mano dell’uomo, la stessa che un attimo prima dispensa carezze al micio di turno. Se avesse scelto uno di questi crudeli sistemi non sarebbe stato mio padre. Lui acquistò una gabbietta particolarmente sofisticata per l’epoca: era poco più grande dell’ospite che si proponeva di alloggiare, aperta sul lato, all’interno si posizionava un pezzettino di cibo che, se addentato dal famelico animaletto, avrebbe fatto scattare una molla che lo imprigionava all’interno, senza causargli nessun danno, se non un lievissimo spavento. Approvai senza indugio, perché si sa che i topi non muoiono certo di infarto! Dopo qualche giorno, un mattino sentii provenire dal salotto il grido di vittoria di papà. Aveva avuto la meglio su quel piccolo astuto antagonista, che gli suscitò tanta tenerezza da portarlo in camera mia per mostrarmelo, prima di liberarlo per sempre. Aprì la porta della cameretta e accese la luce, io ero già seduta sul letto in trepida attesa, quando accadde l’imprevedibile: la gabbietta gli scivolò dalle mani e, cadendo, si aprì facendo uscire quell’ingrato scaltro nemico che, invece di tornare da dove era venuto, s’infilò sotto il letto. Papà si mise letteralmente le mani nei capelli, io urlai così forte che la mamma arrivò di corsa e capì subito la tragedia che si era appena consumata. Eravamo increduli e al tempo stesso divertiti. Papà non si perse d’animo e smontò letteralmente i letti per poi posizionare nuovamente la sua trappola, era diventata una questione di principio, un conto in sospeso con quel piccolo diavolo. Evacuò la cameretta, io e mio fratello ci trasferimmo nella camera matrimoniale, era una faccenda che doveva risolvere da solo! Era stabilito all’unanimità: avrebbe dormito lui in compagnia del roditore fino alla sua permanenza in casa. Fortunatamente, dopo pochi giorni, la malefica creaturina fece capolino da dietro la scrivania. Papà lo osservava immobile, in silenzio, mentre quello si avvicinò al davanzale della finestra e, dopo avergli lanciato un ultimo sguardo di sfida con quegli occhietti sciagurati, si voltò è sparì inghiottito dalla vegetazione. Chi ha detto che l’uomo è il più intelligente degli animali?
Un esempio di animale squisitamente “umano” è il cane, che ancora oggi mi affianca e che è sempre stato parte integrante della mia vita. Avevo da poco compiuto sei anni quando papà decise di regalarmi una cagnolina, benché io non l’avessi chiesto, proprio per responsabilizzarmi e dare un valore aggiunto alla mia quotidianità.
Quella domenica mattina indossai un vestito elegante, quello per la Messa, ai piedi le mie preziose scarpe di vernice nera, salii sulla macchina e mi misi sul sedile dietro. Mamma stava seduta davanti. Papà aveva scelto, a differenza di tanti genitori che acquistano il cucciolo al negozio e poi gli mettono un discutibile fiocco rosso al collo, di portarmi con lui al canile comunale. Dopo circa un’ora di strada arrivammo a destinazione, scesi dalla macchina e mi ritrovai con i piedi nel fango, le mie scarpette di vernice furono presto sudicie e dopo pochissimi passi, raggiungemmo uno stabile enorme e decadente, dall’interno del quale provenivano ininterrotti latrati di aiuto. Ci accolse calorosamente una dolcissima signora cicciottella con dei grandi occhiali, si chiamava Rosa, indossava un grembiule verde simile a quello degli infermieri e calzava degli sbracati stivali da pescatore. È un’immagine buffa che ho impressa nella mente e che ricordo con tenerezza. Mi salutò con un sorriso e una carezza sulla testa, come si fa con i bambini e ci invitò a seguirla. Aperto quel portone arrugginito, si spalancarono le porte dell’inferno: un lunghissimo stretto corridoio scivoloso che attraversava una quantità impossibile da definire di gabbie che brulicavano di cani di tutte le razze e di tutte le taglie. Credo fossero almeno un centinaio, abbaiavano insistentemente aggrappati disperatamente alle maglie larghe di ferro, dalle quali spuntavano i polpastrelli feriti. Una bambina non è in grado fortunatamente di percepire a fondo la compassione e l’amarezza celate dietro a quello scenario, ma sono convinta che vivere quel momento abbia contribuito in maniera importante ad alimentare il mio amore per gli animali. Le mie scarpe di vernice s’intravedevano a malapena attraverso la patina di fango ed escrementi. Dopo pochi passi raggiunsi una gabbia semibuia, più piccola delle altre; mi avvicinai il più possibile, in principio mi sembrò vuota, ma osservando con attenzione riuscii a scorgere nell’angolo più lontano un batuffolo bianco e nero raggomitolato su se stesso.
«Quella è Lilly – mi disse la signora Rosa – ha sette mesi ed è un incrocio tra un barboncino e uno spinone, ti piace?»
Non so cosa scatti esattamente in quegli istanti e quale sia il meccanismo misterioso che ci spinge a scegliere un cucciolo piuttosto che un altro, ma benché non l’avessi ancora vista bene e lei non avesse fatto pressoché nulla per farsi notare, sapevo già perfettamente che era lei che volevo. Quando la signora Rosa aprì la gabbia, Lilly esitò per un lungo attimo, poi, finalmente si alzò e, dopo averci scrutati attentamente, si avvicinò a noi. Era incredibilmente minuscola e magrissima, le s’intravedevano le costole, questo particolare mi fece assolutamente impressione. Allungai una manina verso di lei. I suoi profondi occhi color nocciola erano nascosti da qualche pelo bianco e nero, fece due passi verso di me e mi leccò la mano. Anche se gli esperti in materia di comportamento animale sostengono che questo gesto non significhi quello che ci aspettiamo e non voglia in alcun modo esprimere affetto, ma semplicemente un istinto, quell’incontro fu per me illuminante e intriso di sentimento. Quel giorno Lilly si lasciò alle spalle per sempre quel posto desolante ed entrò nella mia vita. Mentre uscivamo da quell’incubo, ricordo una frase di papà, che oggi risulta essere ancora più carica di significato rispetto ad allora: «Poi dicono che l’uomo non è un animale…»
Così commentò l’abbandono di quelle creature innocenti e bisognose. A tale proposito e con la maturità di oggi, aggiungerei: «…È il peggiore degli animali!»
La piccola Lilly entrò a fare parte della famiglia da subito e ci accompagnò per dodici lunghissimi anni, per poi lasciarci in seguito ad un brutto edema polmonare, dopo qualche mese di dignitosa sofferenza. Una leggenda indiana racconta che quando un animale muore va al Ponte dell’arcobaleno, un luogo dove può giocare e correre felice in attesa del suo padrone. Quando lo rivedrà gli andrà incontro e attraverseranno insieme quel ponte per non lasciarsi mai più. È un’immagine che reputo straordinaria perché proietta l’amore sotto ogni forma al di là dello spazio, del tempo e della morte. Penso alla mia Lilly seduta davanti a quel ponte, proprio come la prima volta che l’ho incontrata, ancora in attesa di continuare a stare al mio fianco.

[continua]


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