Ieri e oggi

di

Bruno Longanesi


Bruno Longanesi - Ieri e oggi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 352 - Euro 16,00
ISBN 978-8831336529

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In copertina: «La cordata dei geometri sta riposando sul colle del Lys – metri 4248» fotografia dell’autore

All’interno: fotografie dell’autore


Prefazione

Bruno Longanesi ama profondamente scrivere e afferma “sono uno scrivano” che scrive per divertirsi, raccontando la sua vita avventurosa e densa di molteplici esperienze che spaziano dalle tragiche vicende del periodo della seconda guerra mondiale, fino ai racconti divertenti ed ironici relativi ad avvenimenti che hanno contrassegnato il suo percorso esistenziale.
Bruno Longanesi è ben consapevole che la vita fugge veloce e scivola dalle mani come la sabbia cade dalla clessidra, per questo motivo sa che è fondamentale “saperla vivere”, perché “il valore delle cose non sta nel tempo che durano, ma nell’intensità con la quale vengono vissute”.
Con il suo sguardo attento e sornione fissa e narra i “momenti indimenticabili” e le persone che ha conosciuto nel corso della vita, costantemente proteso ad indagare le segrete emozioni e a ricercare, in ogni racconto, il senso autentico di ciò che sta riportando nelle pagine, la substantia intima di una sorta di morale della favola che, nella sua scrittura, profondamente sentita, è sempre ben presente, come a porre un sigillo letterario per ogni “storia” che fa parte della sua “raccolta” esistenziale.
Durante il processo narrativo si avverte chiaramente che i racconti, a volte, diventano uno strumento per sommessi ma cospicui recuperi memoriali; continue divagazioni che sono la prerogativa della sua figura di scrittore vulcanico e straripante; attente riflessioni esistenziali sempre passate al vaglio critico dello sguardo di un uomo che ha vissuto esperienze incredibili, mai dimenticando la capacità di stupirsi davanti alle molteplici manifestazioni della vita come alle meraviglie della Natura, durante le sue scalate in montagna, o durante i viaggi in giro per il mondo: esilarante il resoconto del suo viaggio per lavoro, nella città di Baghdad, alla fine degli anni Settanta, che lo vede scontrarsi con una realtà assai diversa da quell’idea di “città favolosa e fiabesca” dell’immaginario collettivo.
Bruno Longanesi si racconta e apre il suo cuore con una spontaneità stupenda, a volte, il ricordo si fa nostalgico quando ripensa al tempo della sua infanzia, e rivive quel periodo nel quale dominavano la semplicità, la genuinità e la spensieratezza, quando “bastava poco per essere felici”, al contrario della realtà odierna, fredda ed indifferente, ed il suo sguardo si vela di malinconia.
Bruno Longanesi ha compiuto novant’anni, ma ha mantenuto giovane la sua mente, è rimasto un “ragazzo” scapestrato e un po’ incosciente, come quando ricorda alcune gesta da “irresponsabile”, compiute durante la guerra: le perlustrazioni notturne per “procacciarsi cibo e medicinali” all’età di sedici anni.
Nella raccolta si trovano alcuni racconti che sono espressione fedele della sua grande passione per la montagna, “La cordata dei geometri”, “Tre cime di Lavaredo” e “La Val Fiscalina: un Paradiso”, che riportano in luce emozioni indimenticabili davanti a tali spettacoli di bellezza naturale. Poi, vi sono alcuni “racconti brillanti”, come il resoconto della divertente partecipazione alla famosa corsa in montagna, “La notturna di Dobbiaco” o il ricordo d’una esilarante “sfilata di moda femminile” che vede protagonisti “ruvidi giovanotti” del suo gruppo di amici che avevano preso in gestione l’albergo Villa Rosa, a valle del Monte Rosa, con “spogliarello finale alla Marlene Dietrich” ed il vescovo di Bellinzona che rideva a crepapelle.
Da sottolineare il racconto dedicato a Suor Maria Teresa, che gestiva l’ospizio dei “vecchietti” dove lui si era rifugiato durante i rastrellamenti del tedeschi, nel 1944: lo sguardo di Bruno Longanesi si accende d’amore con l’affettuoso ricordo della “suora per vocazione” che era sua zia Clelia Longanesi.
Chiudono la raccolta tre racconti relativi al periodo della guerra: “Quel Natale del ‘42”, “Sansone” e “Un giorno qualunque”, nei quali l’Autore mette in evidenza l’orrore e la tragedia dell’essere umano, la folle condizione che vede l’Uomo contro l’Uomo, l’orribile sensazione che procura la guerra perché è “inutile” e, alla fine, perdono tutti.
Bruno Longanesi è uno scrittore “puro e sincero” perché non cerca di costruire narrazioni artificiose, non è alla ricerca di facili ammiccamenti, ma “racconta” la sua vita, nel bene e nel male, con tutte le contraddizioni dell’essere umano, con le sue fragilità e le paure, ben sapendo che la sua scrittura autentica, onesta e generosa, merita di essere premiata, perché rappresenta la vita di un uomo di novant’anni che, coraggiosamente, continua a lottare per preservare il suo tesoro, il suo scrigno memoriale, che contiene preziose gemme esistenziali, a volte sofferte, altre volte gioiose e sentimentali, in alcuni casi ammantate da humour, in altri casi cosparse di qualche facezia, ma sempre pervase di una invidiabile profonda umanità.

Massimo Barile


INTRODUZIONE dell’Autore

Eccoci qua!
Come noterete, sto mettendo in circolazione un nuovo libro.
È il dodicesimo (mi pare).
Allora, a questo punto, mi chiedo: “Sono uno scrittore?”
Calmo!
Andiamoci piano con certe presuntuose affermazioni.
Scrittore è colui che si dedica professionalmente all’attività letteraria, colui che compone e scrive opere con intento artistico, e, soprattutto, sa… scrivere!
Possiedo io queste prerogative?
No! Decisamente no!
Io mi considero poco più di uno scrivano, in quanto scrivo per divertirmi, senza pormi traguardi di alto contenuto estetico e artistico e senza lucro.
Sono, quindi, un amante della scrittura, non uno scrittore!
Volete che vi confessi una cosa?
Ho cercato di esserlo, fin dall’infanzia, quello sì!
Ho passato la mia vita… scrivendo, perché sapete quando ho cominciato a scrivere?
A… tre anni.
Ma vah! A tre anni si piglia ancora il biberon!
Sarcasmo a parte, a tre anni scrivevo, a modo mio si intende, ma scrivevo!
“Allora, eri un bambino prodigio” mi si dirà.
No! (questi bambini li considero dei mostri): ero semplicemente un bambino al quale avevano insegnato a tenere una penna e, come si facevano le aste in prima elementare, aveva imparato a fare certi segni geroglifici (per me incomprensibili) che formavano le parole BRUNO E TERSA (Bruno e Teresa, il mio nome e quello di mia sorella).
Sì, avevo dimenticato la lettera “E”, ma a tre anni… dai!
Ho una foto che mi ritrae a quell’epoca (anno 1931) con su scritto (di mia mano, in carattere maiuscolo) quella dizione che documenta l’avvenimento.
Quindi sono stato un (inconsapevole) scrivano precoce.

Poi, ho cominciato a scrivere… professionalmente (a 17 anni).
Dico professionalmente perché… pagato!
Come mai?
Effetto del DNA? Richiamo del sangue? (Il rinomato scrittore Leo Longanesi era mio cugino).
No! Niente di tutto questo: meno prosaicamente l’ho fatto per un motivo più semplice, più… terra a terra!
Mi piaceva lo sport (tutti gli sport) e li frequentavo in veste di tifoso pagante (e non mi giravano capitali per le tasche!)
Dovevo trovare un modo di divertirmi senza… pagare.
Riuscii ad ottenere le esclusive sportive di Romagna, nientemeno che da tre giornali: “Stadio” di Bologna; “La gazzetta dello sport” di Milano e “Lo sportivo” di Parma.
Avevo i tesserini per entrare gratis a tutte le manifestazioni sportive, ero inviato per commentarle e per questo mi pagavano (cinque lire per riga pubblicata!).
In quell’epoca, l’etica sportiva, avrebbe voluto che non si potesse scrivere per più di un giornale.
Ma non presi in considerazione il fatto (non lo considerai un reato di malaffare così grave da chiamare in causa la morale).
Però, per mascherare il sotterfugio, fui costretto a firmare gli articoli in tre diversi modi: in un giornale firmavo Bruno Longanesi, nel secondo B.L. (le iniziali) e nel terzo Nino Slega (l’anagramma di Longanesi-ninoslega che è il mio contrassegno mail).
“Ma 5 lire per riga non è molto” direte voi.
Andiamoci piano: 5 lire nel 1945 non erano poche.
Se considerate che pubblicavo due o tre articoli settimanali, per ogni giornale, e ogni articolo prevedeva una cinquantina di righe a fine mese ne usciva una discreta sommetta che mi permetteva anche di contribuire alle spese di studio.
E mi vedevo gratis tutti gli sport in Tribuna stampa, riverito e gratificato da certi avvenimenti che dovevo illustrare.
Sì, perché ho avuto l’onore di illustrare le prime imprese calcistiche di Azelio Vicini (mediano del Cesena – Serie C), diventato poi Commissario Tecnico della Nazionale Italiana di calcio; di Ercole Baldini il ciclista romagnolo vincitore di un Giro d’Italia, di un Campionato del mondo e recordman dell’ora; di Vito Ortelli, Campione d’Italia di ciclismo e acerrimo rivale di Coppi e Bartali; di Giuseppe Minardi, il noto “Pipaza”, grande ciclista (lo sarebbe stato ancora di più se non avesse avuto un carattere bizzarro).

Il lavoro, il trasferimento a Milano e l’impegno professionale, fecero sì che abbandonassi questa simpatica attività.
Ma, (neanche farlo apposta), la mia attività (Responsabile del Personale all’Estero dell’ENI) mi portò, per decenni, a girare in lungo e in largo, i cinque Continenti e mi obbligò a… scrivere.
Non romanzi o racconti, ma Relazioni tecniche.
Ne ho scritte centinaia sulle varie “legislazioni” del mondo.
Ero anche allora uno scrivano a… pagamento (lo stipendio).
Come definirmi? Un… semi-professionista, come scrivano!

Poi, il pensionamento.
Dovevo occupare il mio tempo libero con qualcosa che fosse di mio gradimento.
Avevo avuto una vita molto avventurosa (tre quarti di secolo fa era da esploratori girare il mondo!); il mio Paese nativo aveva subito una guerra (sono stato quasi sei mesi in prima linea); avevo fatto sport di alta montagna come guida; praticato anche l’atletica (vincitore di una Stramilano Agonistica Internazionale); avevo partecipato alla Maratona di New York.
Materia per scrivere ne avevo a volontà, come pure il tempo a disposizione non era limitato.
Ora decisi di scrivere (era un destino!)
E (gratis come scrivano) ho appunto scritto dodici libri, partecipato e, soprattutto, premiato in 568 Concorsi Letterari Nazionali e Internazionali.
E continuo a scrivere…

A questo punto la mia presentazione, o introduzione, è finita.

Diceva Leo Longanesi (il mio cugino: lui sì veramente scrittore): “Lo scrivere è un appello al quale molti rispondono senza essere stati chiamati”.
Io non ho sentito il mio nome all’appello, dico la verità!
Leo è morto prima che io incominciassi a scrivere libri.
Non ha mai letto nulla di me.
Meglio così!
Altrimenti, (sono sicuro), con il suo caratterino, mi avrebbe dissuaso dal dissacrare la letteratura.
Ma allora? Cosa avrei fatto in questi lunghi anni di pensionamento?
Cosa dirvi?
Un buon scrittore non si riconosce tanto da quello che ha pubblicato quanto da quello che ha buttato nel cestino della carta (avessi pubblicato quel materiale…).
Beh! È andata così.
Buona lettura, comunque!

PS – Dimenticavo rammentarvi che presto vi… diletterò con un altro libro. Chiedo scusa in anticipo!


Ieri e oggi


LA “CORDATA” DEI GEOMETRI

“Non cercate nelle montagne un’impalcatura
per arrampicare.
Cercate la loro anima!”

(Julius Kugy)

Ogni tic-tac: è un secondo della vita che passa, fugge e non si ripete.
In essa c’è tanta intensità e interesse che il problema è solo saperla vivere.
Il valore delle cose non sta nel tempo in cui esse durano, ma nell’intensità in cui vengono vissute.
Per questo esistono momenti indimenticabili e persone non comparabili.
Sprecate i vostri soldi e sarete senza soldi, ma sprecate il vostro tempo e avrete perso parte della vostra vita.
La razza umana, in genere, adora gli orologi, ma non conosce il valore del tempo.
È un vero peccato che sia troppo breve l’intervallo fra il tempo in cui siamo troppo giovani e il tempo in cui siamo troppo vecchi.
Alla fine, ciò che conta, non sono gli anni della tua vita, ma la vita che metti in quegli anni.
Il tempo passa?
Ah no! Purtroppo il tempo resta, siamo noi che passiamo!
Talvolta il tempo trova il modo di… scherzare.
Credi che il passato sia… passato e invece no!
Quando meno te lo aspetti, è pronto a ripresentarsi e riproporti situazioni che ti hanno provocato forti emozioni.
Ne dubitate?
Allora leggete le righe che seguono!

Questo è un racconto normale.
È una storia come tante altre, senza particolari emozioni, direi anzi che è una storia banale e che non presenta alcun interesse, ma…
Ma attenzione!
Anche la cosa più insignificante può racchiudere un po’ d’ignoto e di brivido…
Riserva un finale che non trova facilmente riscontro con la normalità di tutti i giorni.
Un finale che giustifica e… merita la lettura fino in fondo!
Vogliamo scoprirlo insieme?
E so che i lettori (grazie a quei pochi!) che mi leggeranno, non si comporteranno come i lettori dei romanzi gialli che vanno subito nelle ultime pagine per sapere, in anticipo, chi è… l’assassino!
No! Qui non ci sono delitti!
Non si può parlare di thriller o di suspence.
Ma è un finale che merita l’attesa perché… perché, insomma, è originale!
La vita è sempre il trionfo dell’improbabile e miracolo dell’imprevisto.
Nel bene o nel male, la sorpresa ci coglie sempre inaspettatamente, portando con sé un bagaglio di emozioni diverse.
E, quando meno te lo aspetti, ti arriva improvvisa.
Ma ci vuole la… pazienza di aspettare!
Anche oltre… mezzo secolo!

Beh! Incominciamo con una descrizione del… fatto.
Il racconto è riportato in forma diaristica, come fosse la trascrizione, o meglio, una relazione tecnica di una normale scalata.
Infatti, quella fu una normale scalata, come tante altre, fatta su una vetta del Monte Rosa a quota 4559 metri di altitudine.
Ma… ma ha alcune particolarità (cosa non si farebbe per attirare la vostra attenzione!).


Premessa: Estate 1958

Come nasce questa storia?
Nasce da un incontro in un albergo di alta montagna, nell’alta vallata del Lys, proprio vicino alla morena che fa da ingresso al favoloso mondo delle otto vette oltre i quattromila metri della catena del Monte Rosa.
Ero in villeggiatura estiva nella frazione di Stafal (Gressoney la Trinitè) e stavo godendomi le mie montagne come di consueto.
C’erano molti clienti in albergo quasi tutti giovani e amanti di quelle cime del massiccio del Monte Rosa.
Anch’io non ero vecchio: 30 anni! (Dio mio! Sono passati 60 anni!).
Avevo una certa esperienza di alta montagna.
Avevo intrapreso scalate con Oscar, una guida locale, che mi aveva insegnato tante astuzie per soddisfare la mia passione.
Come conobbi quella famiglia?
Non ricordo il motivo del nostro incontro che si tramutò in amicizia.
Li vedevo sempre insieme: un gruppo di sei persone (cinque giovani, che sembravano coetanei e una persona adulta).
Era un gruppo un po’ appartato, non cercava la compagnia dei clienti dell’albergo.
E allora come facemmo a venire in contatto e a fare conoscenza?
Forse il motivo fu determinato da richieste di informazioni: probabilmente avrebbero voluto sapere qualcosa su una cima del Monte Rosa dalla quale stavo rientrando.
Erano appassionati di quelle vette, quello era certo!
Avevo notato che, con cannocchiali, stavano esplorando quelle cime, con attenzione.
Era evidente che erano interessati a quegli immensi bastioni di ghiaccio, elaborati come sculture, collocate fra quelle cime come gioielli incastonati in preziosi anelli; luoghi in cui Dio ha dimostrato di essere più bravo di Michelangelo a scolpire!
L’alpinista è un uomo che vuole arrivare personalmente proprio là, dove i suoi occhi, un giorno hanno visto una cima.
Incominciammo a parlarci.
Appresi che erano di Piacenza; che la persona adulta era il padre (vedovo) e i cinque ragazzi erano fratelli, suoi figli.
Il particolare curioso risultò che il padre era Geometra e i cinque figli tutti Geometri.
Il fatto che sembrassero coetanei era dovuto ad un motivo semplice: che il più vecchio dei figli aveva ventitré anni e il più giovane diciannove e le fattezze fisiche davano credito ad un parto plurigemellare.
Avevano. a Piacenza, uno Studio avviato, di “progettazioni”.
Amavano molto la montagna e mi dissero di aver scalato diverse cime, ma non avevano mai superato la quota dei quattromila metri.
Era, però, una loro aspirazione e si preparavano per questo.
Mi piacquero subito perché erano persone che… amavano quel mondo che io amavo!
Feci una proposta: “Volete provare l’emozione di superare i quattromila metri?”
La risposta, unanime, fu positiva.
“Bene – dissi – avete una Guida?
“No! – fu la risposta – ce ne può proporre qualcuna?”
“Certo… ma dato il numero delle persone, di “guide” ne occorrono due… alla fine è una discreta cifretta come onorario e rimborso spese per tre giorni, perché tanti ne occorreranno, col rischio di pagare la tariffa e non raggiungere lo scopo, se il maltempo ci mette lo… zampino”.
Notai il padre perplesso.
“Ci sarebbe una soluzione più economica… ” proposi.
“Qual è?”
“Se vi fidate vi porto io alla Punta Gnifetti; non è una scalata difficile ma presenta qualche difficoltà; è una quota sopra i “quattromila“ metri, addirittura i “quattromila-cinquecento”, ma possiamo farcela… l’ho fatta altre volte come “guida”… ripeto se vi fidate”.
“Beh! Se lo ha fatto altre volte… quant’è la cifra?”
Scoppiai a ridere: “Ma non è la mia professione: la mia tariffa è gratis naturalmente: è un piacere mio trovare compagni di cordata!”
L’entusiasmo fu grande nella famiglia S., ma non posso negare che fui preso anch’io da una certa esaltazione per il piacere di aprire un mondo nuovo a gente che avrebbe saputo ammirarlo ed apprezzarlo in tutta la sua bellezza.
Devo ammetterlo: sono un sentimentale!
Il sentimento è la poesia dell’immaginazione.

Io chiedo ad una scalata non solamente le difficoltà, ma una bellezza da mostrare a chi desidera ammirarla,
Le meravigliose viste, gli spettacoli che offre l’alta montagna, volevo offrirle ai miei ospiti.
Quegli spettacoli ci rendono sublimi se sappiamo apprezzarli e stupidi se ci lasciano indifferenti!
E i miei ospiti, ne ero sicuro, non sarebbero stati indifferenti!
All’ultimo momento si aggiunse un altro… cliente: un loro amico.
Ne parlai con la guida Oscar e chiesi il suo consiglio.
Portare tante persone a quelle altezze può essere un rischio.
Oscar, dapprima, si grattò la testa (era il suo modo di dimostrare che il problema non era facile, presentava qualche difficoltà e che ci stava pensando), poi mi disse:
“Otto persone sono tante, troppe… non puoi fare una sola cordata… assolutamente: devi fare due cordate di quattro ed è già un numero ragguardevole. Tu fai la prima cordata, fai da apripista e ti pigli i tre meno allenati e più deboli alpinisticamente; l’altro capo-cordata lo fa il padre che mi dici abbastanza esperto. Devi partire solo se le previsioni meteorologiche sono nettamente favorevoli, non puoi permetterti “cattivo tempo” a quelle altezze e con persone inesperte; se uno della cordata ha qualche malessere di altitudine, inverti immediatamente la rotta: torna indietro, non rischiare assolutamente. Preventiva tre giorni di scalata, magari quattro se necessario, ma procedi lentamente: devono assuefarsi all’altitudine gradualmente; al Rifugio Gnifetti valuta bene la tenuta: non rischiare la parte ghiaccio se non sei sicuro del loro comportamento; stai molto attento nella zona del ghiacciaio del Lys. Alcune guide mi hanno riferito che, quest’anno, ci sono parecchi ponti di neve: se hai dubbi, saggia bene il terreno prima con la piccozza; porta con te parecchi limoni e cioccolata, marmellata, miele e frutta, molta frutta: ne avrai bisogno, ma, soprattutto, porta con te ottimismo da infondere ai tuoi compagni di scalata: lo sai che l’ottimismo consapevole (e rimarcò la parola!) è una componente essenziale per una riuscita in montagna”.
Si grattò ancora la testa e pronunciò (in “patois”, il suo dialetto) “La và!”.
Era il suo assenso alla scalata!


23 luglio 1958 (mercoledì)

Partimmo di mattina da Gressoney-la-Trinitè (1635 metri di altitudine).
Ci attendavano circa 3000 metri di dislivello.
A quell’epoca non c’erano, come oggi, impianti di risalita e l’altitudine dovevi guadagnartela metro per metro con il sudore e coordinando bene le gambe, il cuore e i polmoni.
Ci incamminammo su, lungo un sentiero in mezzo ad un bosco di larici, inframezzato da ampie radure che lasciano intravvedere i ghiacciai in lontananza.
Tutti gli sguardi sono rivolti là!
Man mano che avanzavamo, la vegetazione alta (abeti, pini, larici) diventava più rada per far posto alle macchie di rododendri, in quella stagione, particolarmente colorati.
Il vallone che percorrevamo è quello di Moos, ed è laterale alla valle del Lys seguendo il tracciato di questo piccolo affluente.
Arrivati alla morena del ghiaccio attraversammo, a guado, un piccolo ruscello.
Questa zona è ricca di piccoli ruscelli che scendono dai ghiacciai sovrastanti e si scavano un letto nei punti in cui la pendenza è leggera, formando piccoli rivoli e piacevoli cascatelle saltellanti, con numerose frange, nella sinuosità del terreno.
A questo punto dell’itinerario la Natura è ancora gentile!
Incominciammo a salire, molto decisamente, fino al culmine della morena stessa.
Così, a muscoli freddi, la salita si fece sentire, ma questa difficoltà iniziale era già messa in preventivo.
Arrivammo al Lago Gabiet, un bel laghetto artificiale (con diga) color turchese, con alcuni ghiacci affioranti, nonostante l’altitudine sia ancora bassa (circa 2400 metri).
Qui, al Lago Gabiet, è situato il Rifugio Gabiet, ma non entrammo nel locale.
Ci fermammo un attimo alla piccola Cappella adiacente al rifugio.
Nella Cappella, dentro ad una nicchia, c’è (c’era) un ritratto della Madonna delle nevi.
È il punto di partenza della scalate al Monte Rosa, dal versante meridionale, e meta di pellegrinaggio di tutti quelli che affrontano la montagna.
Credenti e scaramantici (non si sa mai… ) si fermavano, anche solo un attimo in raccoglimento perché, come sta scritto a fianco del tempietto: “Raggiungere la vette è facoltativo, tornare indietro è obbligatorio!”
Ancora poche centinaia di metri, in ripida salita, e arrivammo al Rifugio Lys, un “bel” rifugio in sassi, caratteristico di alta montagna.
Lo sovrastava, orgogliosamente, un tricolore.
Saliti i quattro gradini dell’ingresso ci accolse Mario “il Moro”, il gestore.
Era sempre lui: allegro, gioviale, buontempone, simpatico con gli uomini e… gentile con le donne, alle quali, al loro arrivo, dopo l’immancabile bacia-mano, donava sempre una stella alpina, seguito dal rituale: “L’ho raccolta, esclusivamente, per lei, bella signorina”.
Veramente, in una fonetica influenzata dall’“erre” francese, diceva “L’ho vaccolta esclusivamente pev lei, bella signovina”, ed era uno spudorato mentitore perché era una frase che rivolgeva a tutte le donne che si presentavano al rifugio (di qualsiasi età: erano tutte… belle signorine).
Ed erano numerose, perché tutte le straze che frequentavano la zona faticavano per ore ed ore, nell’intento di raggiungere il suo rifugio, ricevere l’ambito fiore e l’incoraggiante e lusinghiero complimento che lo accompagnava.
Con gli uomini, invece, era molto generoso nei consigli per le scalate, che partivano quasi tutte dal suo rifugio.
Si informò del nostro itinerario, soprattutto si interessò di come erano formate le nostre cordate, delle attrezzature e alla preparazione fisica dei componenti.
Gli dissi che eravamo diretti alla Capanna Margherita sulla punta Gnifetti.
Una scalata di media difficoltà, (quarta cima come altezza – 4559 metri – dopo la Dofour, la Nordend e la Zumstein), conosciuta ed ambita per i medi alpinisti del massiccio del monte Rosa.
Sulla sua vetta è situata la Capanna Margherita, (un rifugio e osservatorio situato nel punto più alto d’Europa, voluta dal Barone Luigi Beck Peccoz, presunto amante della Regina d’Italia Margherita (scusate se mi è sfuggito il pettegolezzo, questa è una storia a parte e non interessa il nostro racconto!).
Mario, il Moro, mi conosceva da tempo, ma mi guardò con una certa perplessità per il motivo che, due cordate di quattro persone, senza Guida Ufficiale, con molti che non avevano mai superato i 4000 mesi, era decisamente sotto i limiti della sicurezza.
Mi disse solo: “Tieni gli occhi apevti!”.
Capii che non approvava l’impresa!
In compenso apprezzò la mia attrezzatura: la piccozza Grivel (ultimo modello di tecnologia avanzata) e i ramponi Steiner (snodabili).
Non conosceva questi ultimi modelli!
Li avevo acquistati pochi mesi prima a Milano, ed erano il non plus ultra per le attrezzature di sicurezza in montagna (piccozza leggera, adatta a pendenze ripide, per canali e cascate di ghiaccio); ramponi leggeri, snodabili, con punte frontali, verticali e orizzontali).
Oggi, questo materiale è in cantina come… reperto archeologico!
La protezione della testa appariva ridicola se consideriamo che gli scalatori moderni (pochi) affrontano l’impresa con monumentali… caschi da “astronauti”.
Allora la testa era meno protetta: il mio “casco” era una specie di larga cupola, bianca (si diceva che quel colore proteggesse meglio dai raggi ultravioletti) ed era chiamata “alla Trenker” perché usata dalla nota guida-regista Luigi Trenker.
Ma, a quei tempi, la testa era più… dura!
In quanto ad occhiali non erano di moda come quelli attuali che coprono mezzo viso, a copertura laterale, a variazione di luminosità, in policromato e con fotocroma in funzione alla temperatura.
No! I miei occhiali erano quelli in dotazione ai… saldatori di officina!
Solo gli snob usavano quelli dei… motociclisti, un po’ più appariscenti!

Lasciammo il rifugio Lys e ci incamminammo verso la zona morenica.
La stagione era ottima: un bel sole illuminava i bianchi ghiacci a portata di… gamba!
Ci eravamo spalmati la faccia (l’unico pezzo anatomico scoperto!) di… grasso di maiale!
Eh sì! A quelle “altezze” il sole picchia forte e i cosmetici conosciuti allora erano pochi: c’era il Tibetan (addirittura propagandata come crema rassodante!) ma era costosissimo e allora si faceva ricorso, appunto, al grasso di maiale.
Rimedio efficacissimo per il sole ma, quando si scioglieva e si impregnava col sudore, diventava puzzolente al massimo!
Si usava anche il… para-naso come protezione dal sole.
Io mi sono sempre rifiutato di portare questo aggeggio, ma questa decisione mi costava molto: dovevo fare impacchi, a fine scalata, perché il naso doveva essere… ristrutturato!

Salutato il simpatico gestore, le nostre due cordate si incamminarono decisamente alla volta del Col d’Olen (2881 metri) che divide le due vallate: quella del Lys e quella della Valsesia.
A metà strada dal Colle, svoltammo a sinistra, verso il Passo dei Salati (2950 metri di altitudine) e incominciò ad esserci un po’ di neve ai lati dello stretto sentiero, appena accennato.
In tutti i componenti le due cordate c’era molta vivacità: ogni passo ci avvicinava ai grandi ghiacciai, all’altitudine, alle inconfondibili sagome delle grandi vette!
Il cannocchiale venne usato spesso: ravvicinava le vette e anticipava, nella mente, quelle cime!
Devo essere sincero: nonostante un panorama e un clima familiare, questo entusiasmo, mi contagiò e mi infuse una specie di euforia che può identificarsi con il piacere di presentare qualcosa di maestoso a ospiti desiderosi di ammirare queste bellezze.
Sì! Lo stesso piacere di un anfitrione, padrone di casa, generoso e ospitale, nei riguardi di ospiti ai quali vuole fare ammirare il suo splendido palazzo!
Arrivammo al Passo dei Salati, dopo due ore di salita.
Una breve sosta, per non raffreddare troppo i muscoli.
Oggi nella zona sono installati molti impianti di risalita, ma allora era una zona abbandonata; nelle vicinanze c’erano solo i ruderi della vecchia Capanna Linty, adibita, a suo tempo, come ricovero per i … cercatori d’oro!
Sì! C’è stato un tempo in cui si riteneva che nelle viscere del Monte Rosa ci fossero miniere d’oro e molti accorsero per… prelevarlo!
Ma, credo, pochi si siano arricchiti!
Ci fermammo poco, sul Passo dei Salati, ma quel poco tempo mi bastò per fare alcune riflessioni: eravamo sufficientemente allenati, fisicamente, per fare questa scalata? Eravamo preparati ad affrontare l’altitudine o difettavamo di graduale assuefazione all’altezza? (oggi si direbbe “per migliorare la soglia aerobica”, allora si diceva: “per non farti prendere dal mal di montagna”).
Non volli darmi una risposta!
Ormai eravamo in… ballo e bisognava “ballare”!

Procedemmo alla volta del Ghiaccio Stolemberg, avvolto da una leggera nebbia che lo faceva apparire piuttosto inquietante.
Ci legammo i ramponi agli scarponi.
Dico legammo perché allora i ramponi non avevano le attaccature moderne a scatti, ma venivano avvinghiati agli scarponi, con corde di juta.
Perdemmo un po’ di tempo perché è un’operazione laboriosa e delicata: bisognava imbragare bene quegli oggetti metallici ai piedi, altrimenti il procedere nel ghiaccio poteva diventare pericoloso.
Bisognava anche avere una certa esperienza e una certa… stoicità per usarli.
Le espressioni non devono sembrare esagerate: esperienza in quanto, dopo un paio d’ore, la juta inumidita e con venti o trenta gradi sotto zero, incominciava a gelare e si stringeva, provocando una torturante morsa sempre più comprimente il piede: bisognava non stringere troppo la corda; stoicità perché se i passi non venivano effettuati con sincronismo, i denti dei ramponi erano appuntiti e, per una mossa falsa, gli aculei di acciaio strappavano il calzettone e… quello che c’era sotto.
Era difficile tornare da una scalata con i polpacci sani!
Quando, poi, si dovevano slacciare i ramponi, occorreva una fonte di calore per allentare la presa e rendere possibile lo sgancio.
La novità dei ramponi (era la prima occasione!), mise in allegria i… Geometri.
Anche perché il camminare, con quegli aggeggi ai piedi per la prima volta, risultò abbastanza incerto e ridicolo.

Proseguimmo, dunque, con i ramponi.
A parte alcuni tratti un po’ esposti, ben assicurati con funi fisse, non risultò, in realtà, nulla di particolarmente difficile, ma tra sfasciami e tratti attrezzati artificialmente, ci impegnò per circa un’ora.
Impiegammo più tempo del normale perché il numero dei componenti le due cordate era numeroso e i passaggi delicati andavano sorvegliati a vista.
Verso mezzogiorno ci fermammo a mangiare qualcosa, all’inizio del ghiacciaio dell’Indren.
A mezzogiorno eravamo alla vista di quei colossi di ghiaccio!
Mi tornarono, immediatamente, alla mente i versi di Giosuè Carducci:
Nel gran cerchio de l’Alpi, sul granito
squallido e scialbo, sui ghiacciai candenti,
regna sereno intenso ed infinito
nel suo grande silenzio il mezzodì!
Li recitai ai componenti la cordata, per togliere un po’ di agitazione.
Ci fu un applauso alla… recita che suscitò in me un sentimento di serenità.
Ne approfittai per fare un… resoconto della situazione.
Tutti mi sembravano in ottime condizioni fisiche, gasati quanto mai, entusiasti del paesaggio che cominciava a diventare di alta montagna.
Infatti cominciava il vero e proprio ghiacciaio (che non ci avrebbe abbandonato più), spuntavano i primi pinnacoli, le prime fenditure; le voragini e i seracchi; i primi pilastri di ghiaccio.
C’erano anche dei crepacci, ma ben visibili.
Incominciava il nuovo mondo: quello dell’alta montagna!
Per l’incalzare del progresso tecnologico, l’uomo ha perduto la rigenerante capacità di stupirsi.
Quanta magia abbiamo sotto gli occhi, tutti i giorni, ma noi lasciamo che ci passi accanto senza dare eccessiva importanza, senza porvi sentimento.
Il sentimento è la poesia dell’immaginazione!
Lo spettacolo che si presentava ai nostri occhi era tale che era impossibile non restare sbalorditi: oltre alla bellezza era necessario lo stupore!
In effetti è un mondo diverso: queste montagne sono le grandi cattedrali della terra, con i loro portali di roccia; i mosaici di nubi; i cori dei torrenti; gli altari di neve e di ghiaccio.
Sulle cime più alte ci si rende conto che la neve, il cielo e l’oro hanno lo stesso valore!
Tutto bello!
Presto sarebbero incominciati anche, i primi pericoli e non dovevo evidenziarli troppo per non allarmare i giovani neofiti delle altezze.

Ritenni non fosse ancora il caso di assicurarci con le corde.
Bastava un po’ di attenzione a dove si mettevano i piedi.
Ci incamminammo verso il terminale dell’Indren per raggiungere poi la base del ghiacciaio del Garstlet, bacino glaciale del Lys.
Il cielo era una po’ velato ma nessuna minaccia meteorologica e non faceva assolutamente freddo.
Sì… intendo dire che la temperatura era di poco sotto i… zero gradi!
Una temperatura ideale affinché il tempo… tenesse!
Ma a quelle altezze, non si possono fare previsione (specie se… positive!).
Per associazione d’idee, rammentai l’effetto farfalla (la teoria di Edward Lorenz) la quale asserisce che il “battito delle ali di una farfalla” in Brasile, con le sue variazioni di pressione (sia pur minime) e il movimento di molecole d’aria, che a loro volta scatenano migliaia di altre molecole, può determinare una serie di reazioni fisiche a catena che, amplificate, nello spazio e nel tempo, possono provocare e scatenare uragani e tempeste magari a migliaia chilometri di distanza cambiando, improvvisamente una situazione atmosferica.
Scacciai il pensiero: In Brasile, quella farfalla, al momento giusto, stava posata su un fiore, intenta a succhiarne il nettare!”

Il ghiacciaio fu piuttosto lungo da percorrere e in continua ascesa, anche perché, per chi non è abituato, trova difficoltà iniziale a camminare con i “ramponi”.
Dopo alcune ore, sulla nostra destra vedemmo una parete rocciosa e, sulla cima, apparve visibile il Rifugio Gnifetti, meta e tappa del nostro pernottamento.
Nonostante tutto lo spazio che ci separava, quella visione mise allegria: era il punto di arrivo della prima giornata di scalata; meta di un riposo prolungato e punto di ristoro per una dormita!
Bisognava scarpinare ancora parecchio, però!
Ma la visione del Rifugio, che si stagliava in alto, ma sempre più vicino, ci incoraggiò.
Era già pomeriggio inoltrato e la montagna che ci circondava era splendente sotto i raggi tangenziali che allungavano le ombre.

Finalmente varcammo l’ingresso del Rifugio Gnifetti, che sorge sullo sperone di roccia che divide il ghiacciaio del Garstelet da quello del Lys.
Arrivati, sistemammo gli zaini nella camerata e ci rilassammo guardando il paesaggio (in basso), le alte vette a trecentosessanta gradi e il panorama (in alto) che avremmo dovuto percorrere il giorno dopo per salire alla Capanna Margherita.
C’era aria di cameratismo al “Rifugio”: l’entusiasmo del traguardo raggiunto, giustificava l’ottimismo, ma sapevo che incominciava il suo effetto un’altra componente: l’euforia derivante dall’altitudine!
Eravamo a 3.647 metri di altezza.
A queste quote, durante le ascensioni in montagna, l’organismo umano viene sottoposto ai primi effetti della diminuzione della pressione atmosferica.
La diminuita pressione barometrica nell’aria diminuisce proporzionalmente la pressione parziale inspirata e quindi dell’ossigeno, provocando una ipossia ipobarica.
Le prime manifestazioni sono un graduale aumento e frequenza degli “atti respiratori” e della frequenza cardiaca.
Ma subentra anche una particolare euforia: l’individuo sembra sia colpito dall’… ebbrezza dell’alcool!
Di conseguenza sottovaluta gli elementi e le situazioni reali con i suoi pericoli, sopravvalutando, nel contempo, se stesso e compiendo azioni inopportune.
La sua attenzione non è più vigile e tende a strafare.
Salendo di quota (oltre i 4000 metri), il fenomeno si accentua: si incomincia col freddo agli arti, fischi alle orecchie, sudorazioni fredde e oscuramento della vista.
I respiri diventano più profondi, seguiti da lunghe pause.
La fatica aumenta paurosamente e si deve proseguire molto, ma molto lentamente (tre o quattro passi, seguiti da una sosta prolungata).
Il procedere è lento, si ansima faticosamente (sembra un mantice o, come si suol dire in gergo, sembra una locomotiva sotto pressione).
In compenso c’è questa naturale euforia che ti aiuta a sopportare la fatica.
E questa esaltazione incominciava a farsi sentire!
Ciò non succede solo ai… clienti, ma in uguale misura, anche alle Guide professionali.
Evitai di dirlo, per non creare uno stato di condizionamento psicologico.
Questi fenomeni, più o meno accentuati, sono percepiti da circa il cinquanta per cento delle persone che si avventurano in montagna, a quelle altezze, con scarso allenamento.

Avevamo, dunque, raggiunto il Rifugio Gnifetti.
Qui, secondo le indicazioni della mia guida, Oscar, dovevo… giudicare il comportamento dei miei… occasionali clienti, al fine di decidere, definitivamente, se continuare o meno la scalata.
In queste occasioni appare veramente la personalità della Guida: sono decisioni che deve prendere nella massima responsabilità, valutando tutti i parametri che si presentano alla sua sensibilità, intuendo, per quanto possibile, l’imponderabilità degli eventi.
E tutto questo in un tempo limitatissimo e non portato a conoscenza dei clienti.
Che dire?
Si erano comportati egregiamente: ragazzi forti, abituati allo sport, pieni di entusiasmo, non potevano che dare risultati positivi.
Nonostante qualche perplessità iniziale per la giornata impegnativa che ci attendeva, decisi di continuare e lo feci con convinzione.
Sì… il loro entusiasmo meritava il “tentativo”!
Anche il “padre” dei ragazzi, nonostante l’età, sembrava un… ragazzo!
“Dai che la và!” feci mio il motto di assenso di Oscar!

Eravamo arrivati abbastanza presto: c’era tempo per fermarsi nella terrazza-panorama del Rifugio ad ammirare la vista e fare alcune foto ricordo.
A pagina 15 ce n’è una che ritrae la comitiva fuori dal Rifugio e che ha per sfondo il percorso del giorno dopo.
Quasi tutti i componenti hanno il viso allegro, meno il sottoscritto (ero preoccupato per l’esito della scalata?).
Ne approfittai per fumare una sigaretta.
Sarebbe stata l’ultima per tutta la scalata: in altezza non sentivo il desiderio di fumare!
Ed ero un “fumatore”… professionista: da… sessanta sigarette al giorno!

Alla sera mangiammo nello stanzone del Rifugio (il locale… soggiorno!).
Alla tavolata c’erano nomi illustri di scalatori (allora il Rifugio era meta iniziale di grandi imprese alpinistiche) e le loro vittorie vennero narrate a viva voce.
I miei amici geometri si entusiasmarono: avevano sentito parlare, o letto, della loro imprese, ma non avevano mai conosciuto i protagonisti di persona.
Questo servì a non soffermarci troppo sul menù!
Succede questo nei Rifugi di alta montagna: la pietanza è unica ed è il… minestrone di verdura!
Il “gestore” aveva acceso il fuoco sotto un grande paiolo pieno di minestrone di verdura, ma non aveva preventivato bene il numero dei clienti i quali, nel corso del pomeriggio, andarono aumentando e di molto.
Ad ogni nuovo arrivo… nuova aggiunta di acqua.
Era evidente che, alla sera, il piatto non fosse… saporito!
Ma a quelle altezze il desiderio di mangiare scompare: si apprezzano solo frutta e cioccolato!
Distribuii un po’ di cioccolata.
E poi la… sorpresa!
Chiesi ai miei giovani clienti: “Come è andata la cena?”
Si guardarono tra loro e solo uno ebbe il coraggio di dire: “Beh! Insomma… ”
“Di cosa sentite il desiderio?” chiesi.
“Frutta!!! fu un coro unanime.
Sapevo, per esperienza, che a quelle altezze si desidera molto la frutta.
Tolsi dal mio zaino numerose pesche e le distribuii con un: “La cena è servita!”
Vi assicuro: quelle pesche furono divorate!
Mi feci una… fama come guida premurosa!

Dopo cena tutti a letto presto in una camerata di venti… posti letto.
Si accedeva per una scala a pioli e si entrava in… camerata attraverso una… botola.
La zona notte consisteva in un ampio stanzone con un letto… multi-piazze: un unico tavolato in legno, lungo circa venti metri e inclinato, sul quale ci si stendeva, di fianco (non ci si stava supini, in quanto stracolmo di ospiti).
Per non scivolare in basso, in fondo al tavolato inclinato, si poggiavano i piedi contro un cordolo di una decina di centimetri.
Dopo la cena, con un menù, come si è detto fisso, e dopo aver bevuto un grog bollente, molto alcolico, (ottima tisana sedativa per conciliare il sonno difficoltoso data l’altezza), venne l’ora di coricarsi.
A questo punto il rituale è semplice: per svestirti, ti togli solo gli… occhiali da sole rispetto all’abbigliamento del giorno e ti cerchi un varco per inserirti fra tutti gli altri corpi.
È indispensabile dormire vestiti, dato che non c’è alcun riscaldamento, anche se tanti corpi umani producono… calore!
Ma in trenta e passa, si fa fatica a trovare lo spazio per sdraiarsi, sia pure in verticale (di fianco).
E poi vestiti si occupa più spazio!
Per cuscino: la corda di sicurezza arrotolata.
Non è come oggi che questo Rifugio, rinnovato, è perfettamente riscaldato, con bagni e docce, servizi igienici idonei, luce elettrica e, addirittura, è servito da macchine asciuga-scarponi, asciugatoi per abiti, ponti radio e… collegamenti mediatici.
Allora non c’era la luce elettrica (lumi a petrolio), eravamo privi di bagno (una lunga passerella usciva da un lato del Rifugio – senza… scorrimano – e in fondo aveva un foro sopra un abisso di mille metri”!)
C’era anche una spiritosa scritta: “Vietato sporgersi!”
Le necessità dovevi sbrigarle in fretta e con regolarità cronometrica: alla temperatura (di notte) di meno quaranta gradi non puoi fermarti a… leggere il giornale!
Lo stanzone da letto, inoltre, era irrespirabile: finestre sempre chiuse (giorno e notte); cortina di fumo che si tagliava col coltello (allora si fumava dove e quando si voleva!); il petrolio che bruciava alla lanterna; intenso… profumo di sudore e di grasso di maiale; un russare incontrollato e, dalla cucina (attraverso le numerose fessure del pavimento) l’effluvio del minestrone; i canti al bar dei nottambuli, incentivati dalle gare a chi beveva più… grog; il concerto degli scarponi chiodati con brocche (chiodi) sul tavolato di legno!
Alla fine, la mia decisione era sempre la stessa: uscire a passare la notte bivaccando in un anfratto di ghiaccio, avvolto nella mia “particolare” giacca a vento (imbottita di piume!)
Pensate che a quell’epoca non esistevano… giacche a vento (sembra incredibile!).
Sentivo la necessità di un indumento particolare protettivo del freddo per i bivacchi notturni.
Ne parlai con il proprietario di un grande negozio di sport a Milano e esposi le mie necessità.
Convenimmo che se un particolare indumento veniva imbottito di piume (specie penne d’oca) avrebbe soddisfatto queste esigenze.
Me ne feci preparare un… prototipo (mi venne a costare!): rispondeva alle necessità termiche e di leggerezza.
Era nata la prima… giacca a vento?
Non voglio dire questo: voglio solo precisare che non se ne vedevano in giro e la mia era molto invidiata!
La piccozza era necessaria per preparare il… letto all’aperto.
Diversi colpi, ben assestati, procuravano un… vano capace di ospitare una persona.
Seduto, con i piedi nel vuoto, ti preparavi a passare la notte.
Quella sera, i Geometri mi seguirono!
Fu una piacevole esperienza per… procurarsi un letto!
Con che vigore picconavano quel ghiaccio, con che entusiasmo e con che battute scherzose fra i fratelli: “Franco va legato perché è sonnambulo!”
Ci rannicchiammo nelle nostre cavità nel ghiaccio.
Ma a quelle altezze, riesce difficile dormire, anche se si è stanchi, e allora è più divertente ammirare il firmamento con le stelle che brillano, in una maniera sorprendente per la rarefazione dell’aria, che restare in quella bolgia del rifugio.
E poi, c’era il plenilunio e con l’aiuto di un buon cannocchiale (attrezzo allora indispensabile) e della rarefazione dell’aria, si vedeva… Milano a una distanza ravvicinata.
Distinsi, dal fascio di luce più appariscente, il centro della città illuminata e, dall’estesa zona d’ombra, il Parco Sempi

[continua]


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