Cioccolato e peperoncino

di

Carlo Antonio Bertolo


Carlo Antonio Bertolo - Cioccolato e peperoncino
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 104 - Euro 20,00
ISBN 978-88-6587-6039

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina e all’interno fotografie di Carmen Bertòlo

pag. 60: dipinto di Carlo Antonio Bertòlo


Prefazione

Carlo Antonio Bertòlo è poeta che rappresenta, fedelmente e simbolicamente, il desiderio di comunicare la propria visione attingendo al meraviglioso giacimento lirico che possiede il suo animus di scrittore.
Si avverte la costante propensione a scrutare la realtà e riportarla, con parole pregne di significati e legate intimamente al suo vissuto, sulle pagine della silloge “Cioccolato e peperoncino”, sempre alimentando l’attento sguardo lirico che è proprio ed innato nel poeta.
La poesia diventa “cassa di risonanza emotiva per lo spirito dell’Uomo”: il canto lirico invade ogni “semplice cosa” e le occasioni della vita, di montaliana memoria, tramutano in poesia le molteplici visioni dell’animo e le pulsioni profonde; le passioni del cuore e le contraddizioni dell’umano vivere; le suggestioni del mondo naturale così come le emozioni quotidiane.
La capacità di osservare la vita, da parte del poeta, è sempre efficace nel rivisitare ciò che merita d’essere salvato e riesce a cogliere sensazioni e sfumature esistenziali, fin nelle più labili percezioni e nelle più profonde fenditure dell’umano vivere, dimostrando di possedere forte dose di sensibilità, prima umana e, poi, lirica.
Tutto è pervaso da un sentimento lirico che innalza ad una dimensione superiore.
Nella concezione di Carlo Antonio Bertòlo, la poesia come “atto artistico”, è emozione e meraviglia e, come afferma nella sua introduzione alla presente silloge, “non v’è nulla da spiegare”.
La volontà di definire e codificare un poeta è illusione vana perché la visione di un poeta muta nel tempo e cambia in base alle esperienze vissute e sofferte: unica possibilità per comprendere veramente un poeta è penetrare nel profondo il suo universo lirico.
La propensione a voler incasellare i poeti in gabbie mentali o categorie, che trovano spazio solo in accademiche di­squisizioni critiche, dimostra quanto possa essere messa in pericolo la tensione all’originalità d’un poeta che deve essere letto, compreso e vissuto, tenendo conto esclusivamente del suo nome e del suo cognome, unici dati sensibili per un’autentica ricerca.
Nella poesia di Carlo Antonio Bertòlo possono prendere vita le illusioni rimaste celate, le nostalgie ed i recuperi memoriali con i ricordi d’infanzia, il “vuoto d’amore” come i “sogni vani”: e tutto si miscela in una substantia lirica capace di rivisitare il “dolceamaro” della vita, di percepire il “tannico sapore del dolore” e di navigare nei pensieri dispersi.
Dalla sua parola irradia il pensiero poetico che fluttua fra Terra, Mare e Cielo, la visione di una Natura che “trasuda amore”, quasi a preludere l’inevitabile ritorno alla Madre Terra, come a ricercare il mistero di una possibile rivelazione che rappresenti uno stato estatico universale.
Carlo Antonio Bertòlo è “uomo solitario” che “abbandona le sue parole al vento” (tensione sovente reiterata nella sua visione lirica), fiducioso nell’immenso potere della Parola e sempre proteso ad indagare anche i silenzi che, spesso, nascondono innumerevoli emozioni inespresse ed inesprimibili, fino alla necessità inderogabile di scoprire il senso della vita e, nella personale visione, ricercare il significato autentico della sua avventura umana, dopo aver vissuto i “sogni giovanili”, dopo aver fatto i conti con i “pezzi di verità”, le immancabili ferite e le “vuote speranze”.
Carlo Antonio Bertòlo, è poeta che cosparge molte liriche di numerosi riferimenti mitologici e classici, ma è anche capace di spolverare i componimenti con l’ironia e con sguardo critico nei confronti delle contraddizioni e delle ingiustizie della società.
Nel continuo processo di scandaglio lirico Carlo Antonio Bertòlo confessa di sentirsi “anima sospesa” in ascolto della “musica del cuore”, immerso in un limbo mentale, quasi asserragliato nel suo “claustrale rifugio”, insieme ai suoi libri: oasi dove “danzano superbe” le sue orchidee, sigillo lirico di straordinaria eleganza.

Massimo Barile


La poesia è morta. Viva la poesia!

Cos’è poesia? Il vocabolario ci suggerisce: «Esprimere in forma d’arte la propria visione della realtà»
Definizione chiara? Esaustiva? Direi proprio di no. Basta fermarsi un attimo e chiedersi cosa si nasconda dentro quel piccolo lemma polisemico di quattro lettere: “Arte”, privo di membrana come un’ameba, pronto ad assumere la forma di qualsiasi contenitore in cui lo si voglia imprigionare.
In questo ci può forse aiutare l’etimo latino quando associa al mestiere delle qualità come il talento, l’abilità, il sapere, l’unicità del prodotto, la sua originalità nell’universalità del riconoscimento? Non mi pare, perché se fosse solo così l’arte sarebbe semplice artificio: un feto nato morto.
Se pretendessi di essere in grado di definire l’arte sarei spudoratamente presuntuoso, nulla però mi vieta di esprimere quel che io provo di fronte all’arte. Se qualche prodotto umano mi fa sbottare inconsapevolmente e all’improvviso nell’espressione di meraviglia: «Bello!», per me quella cosa è opera d’arte.
L’arte quindi è fonte di emozione e di meraviglia, non di analisi più o meno logica.
Come si fa a razionalizzare una emozione, un sentimento, pretendendo di spiegarlo senza ucciderlo?
Comunicare agli altri la propria visione della realtà è nell’agire quotidiano di ognuno di noi usando mille mezzi, mille forme e mille modi, ma non per questo facciamo sempre dell’arte. Lo strumento privilegiato nel comunicare è la parola che, tanto orale quanto scritta, utilizziamo in proporzioni e modi diversi: prosa, poesia, recita, canto e via dicendo.
Ma cosa significa fare della prosa o della poesia?

Si legge in Wikipedia: «Il concetto di prosa va considerato in opposizione a quello di poesia… La poesia è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di particolari leggi metriche un componimento fatto di frasi dette versi in cui il significato semantico si lega al suono musicale dei fonemi. La poesia ha quindi in sé alcune qualità della musica e riesce a trasmettere concetti e stati d’animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa».

Dice le qualità ma non l’essenza. Il tentativo di spiegare l’una per mezzo dell’altra è una evidente tautologia, ma la contraddizione successiva lascia ancora più perplessi allorché si legge:

«Nel XIX secolo, con la nascita del concetto dell’arte per l’arte, la poesia si libera progressivamente dai vecchi moduli e compaiono sempre più frequentemente componimenti in versi sciolti, cioè che non seguono nessuno schema particolare. Via via che la poesia si evolve, si libera da schemi obbligati per poi diventare forma pura d’espressione».

In parole povere ci dice che la poesia si libera delle pastoie della metrica, della rima e della musicalità. Ossia che il componimento perde le sue caratteristiche distintive e va sempre più a confondersi con la prosa.
Per rendere più chiaro il concetto mi affido a una metafora: se la poesia è fiume e la prosa mare, quando il fiume abbandona le sponde e l’alveo e sfocia in mare, perde la propria identità di fiume, ossia la poesia non è più poesia perché diventa prosa a tutti gli effetti.
Cosa vorrà dire poi: “forma pura d’espressione?”… che se modulo una pernacchia io recito una poesia?
Chiaro perciò che si stia scadendo nell’assurdo e lo dimostra il fatto stesso che le poesie o le presunte tali in rete si moltiplichio a dismisura: infatti basta saper leggere e scrivere per esprimere il proprio pensiero e questo è in grado di farlo anche un bimbo di quinta elementare, il come è un altro discorso.
La poesia per essere tale deve conservare una forma che la distingua nettamente dalla prosa, questo non impedisce la ricerca di nuove strutture entro cui modellarla senza però stravolgerne la peculiarità. Per essere arte, non basta che sappia avvincere, incuriosire, stupire, commuovere, sedurre e coinvolgere, ma deve farlo entro una sua membrana specifica.
Poesia allora non è soltanto comunicazione della propria visione della realtà (di tutta la realtà sia immanente che trascendente all’essere), cassa di risonanza emotiva per lo spirito dell’uomo con le sue passioni e visioni, la sua grandezza e la sua meschinità individuali e collettive, ma è anche metrica. È libera di cambiare abito ma non identità.
Fedele al mio credo io ci ho provato. Ci sarò riuscito?
La patata, fredda o bollente che sia, la sbuccerà il lettore.

C.A.B.


Cioccolato e peperoncino


A mia moglie Antonella


Scarpe

Se ti ripenso quand’eri bambina
incespicante entro scarpe di donna
mentre indossavi di mamma la gonna
e t’atteggiavi di già a signorina,

la tenerezza riprovo di allora.
Avevi smania di crescere in fretta,
pensavi la vita fosse perfetta
e d’esser grande sognavi già l’ora.

Mute parole, una fiaba infinita
quando mimavi le tue fantasie
ad uno specchio lator di bugie.
Certo dei grandi storpiavi la vita.

Rimpiango triste, e il cuore mi duole.
Forse giocare ben altra partita
avrei dovuto, la non suggerita.
Non ho saputo? Non trovo parole.

L’eco risento di tacchi e di suole
e un argentino vociar di bambina;
forse ricordi di chi è sulla china:
l’ultimo splendido raggio di sole.


Jag ska go hemma

(voglio andare a casa)

Quando lasciammo la terra vikinga
non lo ricordi tant’eri piccina.
So che partimmo di tarda mattina
abbandonando ogni falsa lusinga.

M’era crollato l’intero universo
quando tua madre con tranquillità
disse: «Rivoglio la mia libertà,
voglio riprendermi quello che ho perso».

Per quell’amor ch’era stato rimosso
volli scrollarmi il passato di dosso,
asserragliato nel crudo dolore,

teso allo spasmo dal tetro rancore.
A me deciso a ignorare il dilemma,
piangendo dicesti: «Jag…ska go hemma».



La cavolaia

Umile cavolaia che d’estate
mi sfarfallavi sopra i gelsomini,
ora ch’è inverno, dove sei fuggita?
Al bruco tuo donasti un dì la vita:
larva che si nasconde chissà dove;
crisalide dal freddo intirizzita.
Forse ti rivedrò,
uscita dal tuo guscio,
tornare a svolazzare
sul limitar dell’uscio,
ma non sarai la stessa,
anche se ti confondo:
vita che si ripete
nell’orbitar del mondo.



Ti voglio bene

Ti voglio bene. Solo tre parole
povere forse, semplici ma vere.
Sanno irradiar tutto il calor del sole.

Le dita ti accarezzano leggere,
cercando vanno ciocche di capelli
mentre dormi. Così passo le sere

sul tuo respiro e penso ai menestrelli,
a note per cantare i sentimenti,
ma le parole suonan come orpelli,

non son per esaltare quei momenti.
Meglio il silenzio: musica del cuore
perché l’amore ignora gli argomenti

dissolti entro il trascorrere dell’ore
nell’estasi e nell’intimo di alcove
ove chi soffre stempera il dolore.

Non so, forse ti ho conosciuta altrove,
e stesti accanto a me continuamente
credo aspettando che arrivasse il dove

oppure il quando. Forse inconsciamente
insieme in altra vita; so che intanto
tu vivi accanto a me qui nel presente

e che ti amo non so dirti quanto.
Mentre tu dormi penso ad un grafema,
a un fonema, voce a questo canto,

a inchiostro con cui scrivere un poema,
la nostra fiaba, il nostro mondo arcano:
il sì dei nostri cuori è quel glossema.

Se poi a qualcuno può sembrare strano
vederci camminar lungo la via
bimbi canuti mano nella mano,

ricorda che la vita è poesia.
Guardandoci negli occhi or proseguiamo
dentro quel sogno pieno di malia.


«Il conto per favore!»

Tutti mangiammo al noto ristorante
di quest’albergo ch’è chiamato Vita
servendoci alla tavola imbandita
tra la ressa di gente sgomitante.

Ebbi assaggiato il cibo del grifagno?
L’ebbrezza dolceamara del rancore?
Il tannico sapore del dolore?
Il digestivo tossico del ragno? ...

Bevuto ho del lamento soffocato
di delfini spiaggiati sugli scogli,
di megattere, squali e capodogli
vittime d’un agire scriteriato?...

Stesi pur io l’aracneo sudario
ove ripor gli avanzi della mensa
per arricchir di scorte la dispensa
ipotecando i dì del calendario? ...

Così fan tutti mi son detto anch’io.
Non fui peggior di molti miei compagni:
di acari, scorpioni, zecche e ragni
qui sulla terra pel voler di Dio.

Non serve ormai affannarmi ossessionato
a rastrellar perfin sulla battigia
ossi di seppia per la mia ingordigia:
non c’è un domani dato per scontato!

Portami il conto dunque, cameriere,
voglio veder, lasciandoti la mancia,
pingertisi il sorriso sulla guancia
tosto che pareggiai dare ed avere.


Par lamento

Lassù, inerpicato fra i graniti,
avvolto dentro il suo candido manto,
per popolar la notte il cieco vate
sulla cetra vibrò l’ultimo canto.
Cantò di Luna al cinguettio di Stelle,
di Pan, che ascoso tra i frondosi larici,
flautava il vento al luccicar di quelle.
La Ninfa Eco seco raccoglieva
quei grappoli di note entro un bucato
panier che disperdea lungo le valli
come fosser lamento disperato.
Il cieco vide allora per incanto
schiudersi a lui le porte del mistero.
Dalla vetta del fiordo udiva il mare
urlare contro un povero nocchiero.
Poseidone scuotere il tridente
e scatenar sul mondo l’uragano.
Vide le spume popolarsi d’ombre:
ressa di larve urlanti in cimitero.
Scagliarsi l’onde come Dei furenti,
e le Nereidi che danzando insieme
traean dal mare mostri come armenti.
Le fiere Allo, Ocipite e Celeno
il vate vide assecondare Aletto:
bruma di morte che opprimeva il petto.
Sorse Tiresia e zittì l’aedo:
«Taci, poeta, con le tue sciagure!
Paterno Zeus incaricò Morfeo
che con l’ulivo asperga piano piano
la sua rugiada sul furore umano».


Simposio olimpico

Fu Clio a porgere la cetra al vate:
«Poiché i giovani ignorano la storia
provati a risvegliarne la memoria.
A Roma una svastica uncinata
che grondò sangue è stata riesumata.
Scrivi un sogno che parli di salsedine,
scrivilo con la penna di gabbiano,
metti il sigillo e mandalo lontano
nascosto sotto le ali d’un airone
migrante ardito verso meridione.
Fa che Mneme riguadagnando il soglio
starnazzi come l’oche in Campidoglio.
Cercando vada un po’ di quella luce:
la fiaccola di Caute che illumina
d’Eliodromo il sentiero che conduce
al ciel di Mitra e dentro al suo mistero».
E il vate strimpellò le sue canzoni:
«Lassù sospese le Costellazioni
si narrano dell’uomo le illusioni
e nel convito il nobile consesso
fra un agape ed un brindisi alla vita,
sconfitto Ahriman il dio feroce,
si chiedono perché non vi sia pace».
«Scorpione fu, l’aracnide venefica
quando insidiò i testicoli di Toro»,
Esordì Miles,«mentre il divin Mitra
con la spada sgozzava l’animale
che stillò sangue per il baccanale».
«No, non mi pare» ribatteva Perses
«Luna mi disse che l’umano genere
ama l’insidia della Notte scura,
divide con la Serpe la natura,
squarta ed uccide, scatena la guerra,
rifiuta la memoria e non afferra
il dramma della morte e per sua quiete
cerca l’oblio tuffandosi nel Lete».
Concluse il Leontocefalo indulgente:
«L’uomo è così, non possiam farci niente».


Ricerca

Volli indagar tra il folto delle selve
ove s’asconde l’albero di vita
e rintracciare sotto le radici
dove la sua memoria s’è smarrita.
Un angelo o un demone, non so,
preso per mano mi portò lontano,
mi pose fra le mani un astrolabio
per navigare ed esplorare il cielo
ed unghie per scavare nel pantano.
M’avvolse poi in un turbine di vento
e mi trovai lontano in un momento.
Nel vuoto d’uno spazio sconfinato
davanti a me si profilava un antro
più tetro ancor del nero della notte
ed inquietante forse più del Fato.
La scala si perdeva nell’abisso.
Scesi gradini senza corrimano
della spelonca ruzzolando in fondo:
tempio di Mitra dove uccise il Toro
dal cui midollo germogliare il grano
vidi e dal sangue il tralcio della vite
quali doni magnanimi di Dite.
Era di Zaratustra quell’invito,
ma mi lasciava incredulo e avvilito.
L’attimo dopo già non fui più lì.
Posato fra le braccia di Kalì
vidi tigri, serpenti ed elefanti,
occhi stupendi ma terrificanti
fra il tanfo ed il baglior di pire umane.
La verità non è metempsicosi,
gl’Indù me l’hanno razionata in dosi.
Entrare e uscir dal corpo di animali
è una tortura che non trova uguali.
Varcato il monte scranno degli dei,
Confucio mi sorrise ambiguamente:
«La verità la troverai nel Cielo,
sei stolto se la cerchi fra la gente».
Trattolo fuor dal fondo del corbello,
mi mise tra le mani un filugello:
«La bava sua ti porterà lontano,
vedrai, fino alla reggia del Sultano».
E così fu, però lungo la via
vidi di lapidati una moria,
di arsi e di sgozzati una ecatombe.
Passando per il tempio degli Ebrei
non fui contento e per altri dei
verso occidente orientai la vela,
ma Manitù non era un rivelato
per cui dai bianchi venne massacrato.
Dove cercare allora il Paradiso?
L’albero della vita e del sapere?
Pensai si nascondesse a settentrione.
Montai sul carro e, salutato Orione,
del polo perseguii la direzione.
Giunto, che vi trovai? ... Desolazione.
Avanti ancora e presso un cimitero
scorsi la guida dal mantello nero.
«Fermati là!» mi disse: «Che vuoi fare?
Vuoi continuare ancora ad indagare
o vuoi tornare indietro e rinunciare?
Sei sulla soglia, se la vuoi varcare
svelata ti sarà la verità,
ma non t’è più concesso ritornare».
Chinato il capo scelsi di star qua.



Favelas

Se guardi oltre il recinto
delle tue assurde brame,
d’uccelli e di fanciulli
tu vedi un brulicame:
frugano tra i rifiuti
bambini che ai gabbiani
contendono la fame.


[continua]

Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it