Opere di

Carlo Ricci


LE NUVOLE CHE NON SONO

Guardo le nuvole che non sono,
nell’ombra di ieri una fila d’alberi
lungo la strada che conduce nel nord,
ai passi contati lungo i marciapiedi
nelle nebbie di fumi e ciminiere
e il segreto dell’acciaio
nel verde scuro delle brughiere;
ho abitato la dimensione della notte
nelle città dispiegate sui muri di periferia
le strade asfaltate nelle praterie di cemento
dove tutto vive nello schermo e nel momento,
il tempo sezionato, straziato tra ascisse e ordinate
dilatati lati di prati inerbati di solitudine.

Restano
effimere linee nere, nuvole
come favole fumose, erose
dune di sabbia;
forse forme sospese d’effimere eteree cose
fatte, rarefatte
rare lame di pioggia.

Cristallino suono è il ruscellare
della pioggia nell’onda,
quando dei sassi si fa salda sponda.

Nei passi,
nell’ombra che passa dopo il temporale
con labbra dissolte di silenzio
ora guardo dove stanno le nuvole
quelle nuvole che ho cercato
e come sono le nuvole quando sono davvero.


UNIVERSO

Perché sei così lontano?
Vorrei parlarti: racconta il tuo arcano
ce lo devi! Sono qui
prostrato, all’ascolto;
questa polvere così vicina
straziata, non ha più ombra:
è già scritto.
Vengo a cercarti
la notte
su questo prato desolato
nel tuo rumore,
che mi accolga al vago errore,
e seppur corto duri abbastanza
da illudere
un altro giorno che avanza.


IN QUESTO ANDARE SPARSO PER LE ORE

È così residuo il tuo persistere
sulle stese dei colli che ti fanno circo,

e sottovoce ti parla il torrente
di vertigini e tenebre? Qui dove
nascondo i volti e sfuggono le cose
ho accatastato giorni tra questi suoli solidi e immoti:

dove le contemplazioni sono alberi immensi
perfette le atmosfere e le stazioni.

Sono lontano, lontana

è ormai la strada delle luci
e m’inoltro per gli sterpi;

sono nei rami ora
tutto il mio esistere
è di queste gore,

e in questo andare sparso per le ore

soltanto foglie: sento i prati
i papaveri, i temporali.

SUI VIALI DELL’INVERNO

Così il Tempo s’invola
nei tanti minuscoli stridori

e ora che l’erba accosta le rovine
d’un estraniante dopo;

quali ripari vado cercando
sotto l’ombra grande dei ciliegi
se i passi sono
rami e foglie
e massi

dove patteggio il mio elidermi

casualmente.
E sui viali dell’inverno

cui poggia eroso il Mondo intero
procede esatto
lo sguardo millenario
della pioggia.


FOGLIA CHE CADI

Rossa gialla
foglia che cadi
così limpidamente variante
sui letti autunnali
dove ingiallito traccio
traiettorie di lentezze; e vado invano

a raccontarti di tristezze
quando ti chiudi nei tuoi grandi colori, nei silenzi
dei crisantemi
dei mille destini dei paesaggi che scolori
di complessa vaghezza e fragilissimi
stupori. Nel tuo sogno
perfetto di toni e suoni lenti
fluirò con innevata quiete, fluirà
anche tutto l’inverno nella siepe. Ma
quanta imperfezione quanta follia
in questi languori, e quanta bellezza finché ci sarà vento! E tu saggio vanto delle tempeste
intanto portaci fuori, sussultando
con te nei tuoi pigri disegni
nella tua apparente insensatezza,
dissolvendo.


ERRANTE ALLA CANICOLA

Veloce e lento scendo dal vento
disfatto, lo sguardo s’inerba vano d’ultime colline
e dispera orizzonti curvi e chiusi;
dissolvo per infiniti avvolgimenti tutto il dolore d’aprile:

ti ho visto come nuvola
nel cortile, semplice e fragile; già
sul dorso di luglio il frumento è trebbiato. Errante

alla canicola, la mente erra: dove
ti vedo, madre, ancora? L’estate cieca
stoppie e crepe rinzaffa
di cicale e deserti; ti rivedo nel tuo prato dove ora affieno
lacrime e cari ricordi.

Veloce e lento risalgo il vento
debolmente,
mi svolgo d’avaro pianto
dai tuoi occhi dove mi svegliai
ai campi di maggio e riporto
gl’occhi in afa: il frumento
ora è trebbiato,
al frumento sono tornato.



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