Il lupo e l’eremita

di

Costante Passera


Costante Passera - Il lupo e l’eremita
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 66 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-4929

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In copertina: Acquerello dell’autore


Questa è la storia di un uomo che decide di ritirarsi sui monti e vivere di silenzio. Acquista una casetta in pietra e consolida così il proprio eremo. Vive nella pace e nella tranquillità, finché un giorno trova un cucciolo di lupo in un bosco e decide di allevarlo. Purtroppo non si avvede di un pericolo incombente che si sta aggravando nella valle: il randagismo, provocato da branchi interi di cani abbandonati che si ribellano a una ingiustizia subita. Successivamente va incontro alle più inaspettate insidie del luogo e a spiacevoli situazioni: dapprima viene ritenuto un irresponsabile e in seguito verrà addirittura condannato a lunghi anni di carcere. Tuttavia l’ingrato destino sembra allentare la sua morsa e grazie all’amnistia gli viene condonata una parte della pena. Finalmente libero, desidera ardentemente ritornare sui monti e ritrovare la sua casa, ma lo aspetterà un’amara sorpresa…


Il lupo e l’eremita


I personaggi, i luoghi e la storia di questo racconto sono ispirati ad un fatto realmente accaduto.


Una dedica particolare
a tutti gli stomizzati italiani e nel mondo.


1

Lavorava su una catena di montaggio che produceva imballaggi. Obbligato a fare gli straordinari senza fiatare, doveva produrre ogni giorno escludendo di risparmiarsi, finché esausto abbandonò; cosicché dopo sette anni di servizio, si dimise e con i risparmi acquistò una casetta di pietra in montagna. Eravamo nella primavera del ’77 e il sole splendeva radioso.
Intorno all’abitazione c’era buona terra e un vecchio pozzo. Tranquillo, così lui si chiamava, abbandonata dunque la città, si diede a faticare di buona lena. Dapprima costruì un pollaio e uno stallino; dopo di ché seminò l’orto e il campo. Con gli ultimi soldi comperò una capretta e una gabbia di pulcini. Così, stanco delle dure giornate, si riposava fra la quiete dei monti. Un piatto caldo di minestra alla sera, un boccale di vino e il cielo. E per lui, era la pace.
Dentro la casa c’era un antico camino e un letto di paglia. Ben presto rimediò a quel che mancava: un tavolo fatto di legno e una seggiola.
In questo modo, i giorni trascorrevano sereni e quando era ormai prossimo l’autunno, gli animali erano già tutti in salute, il campo dava frutto e aveva l’acqua del pozzo per dissetarsi. Era soddisfatto e viveva con luce nuova le sue giornate.
Di lì a poco, c’era tutto ciò che gli serviva per vivere: il grano per trasformarlo in pane, il latte, le uova e dalle viti, il vino.
Figlio abbandonato, crebbe sino a età giovanile in un orfanotrofio. Era anticonformista e ribelle verso ogni sorta di istituzione. Ora aveva trentacinque anni, non era sposato e non aveva figli.
A poca distanza c’era un piccolo borgo, caratteristico e tipico dei luoghi, ma era soprattutto silenzioso. Quando abitava in città era sempre sommerso dal rumore, per non parlare del traffico e dell’agitazione sul lavoro. Poi aveva l’affitto da pagare, le bollette, le tasse, le multe. Era continuamente sotto stress. Ogni giorno tornava a casa con un forte mal di testa che non passava mai. Ma ora poteva mandare a quel paese chi di dovere e finalmente fregarsene di tutto. Che meraviglia alzarsi al mattino e non avere niente e nessuno davanti. Il mondo di prima spariva e cominciava una nuova vita e anche se pioveva o nevicava, c’era il sorriso nel suo cuore, perché aveva la sua casa sulla roccia e la sua terra per nutrirsi.
Alla sera prima di addormentarsi, pensava a quanta gente si accontentava di poco e ad altra, che non era mai soddisfatta. Saper cogliere l’essenzialità della vita, non è sempre una cosa facile; e saperla vivere serenamente, con pazienza, è altrettanto difficile. Però, rifletteva, non siamo qui solo per soffrire e sarebbe giusto ogni tanto seguire la propria anima. Scoprire qualcosa di bello, equivale a viverlo. Dopotutto è un ritorno alle origini, alla pura terra, ma è come ascoltare il respiro della natura. E se una cosa viene dal cuore, si tratta solo di saper aspettare.
Tranquillo non aveva la luce elettrica e neanche il gas metano. Era privo di cellulare e pure di computer. Non possedeva né la radio, né la televisione. Non aveva la macchina e neppure il motorino. Libero! Era libero da tutte queste cose. Sapeva ricavare dalle erbe le giuste medicine. Lavava i suoi panni nell’acqua del ruscello e accendeva il fuoco sfregando la pietra.
Vicino alla casa c’era un aspro sentiero che conduceva dentro il bosco, dal quale ne ricavava la legna per scaldarsi e il miele per rinvigorirsi. Le caldarroste scoppiettavano allegre sulla sua stufa e gli scaldavano il cuore insieme al caldo vin brulé. Ma quell’anno cadde tanta di quella neve che la vallata fu sommersa di bianco. Di notte il freddo arrivava a temperature rigidissime. Lui, però, aveva la sua scorta fatta durante l’estate: legno di selva e cibo genuino, cibo sano, che solo una terra pura può dare. Laborioso e paziente, era riuscito a ricavare dalla cera delle api alcune candele; un aiuto meraviglioso in inverno quando vien buio presto, ed egli, spesso dopo cena, al caldo della sua casetta accendeva un cero per lavorare i suoi attrezzi di legno. In quel periodo, vista la necessità di doversi muovere sulla neve, stava giusto costruendo un paio di ciaspole per potersi agevolare meglio nei suoi lavori. Ma si era ormai prossimi alla vigilia e da lassù, quando non c’era foschia, si scorgevano le luci e gli addobbi natalizi, però il cielo dava ancora neve. Poi arrivò una bufera improvvisa che creò gravi disagi in tutta la valle. Tetti divelti e crolli, colpirono numerose abitazioni. Ma la casetta di pietra, piccola e solida, sembrava immune da ogni minaccia. Appena la tormenta cessò, tornò il sole e la serenità nella valle.


2

Tranquillo Santi era di carnagione scura con un grosso naso aquilino che gli conferiva una espressione antica. Labbra sottili e guance scarne gli completavano il viso. Di media statura e di costituzione robusta, aveva mani e piedi grandi, abituati alle fatiche. I capelli nerastri, ribelli ed arricciati, gli conformavano il volto insieme ad una barba arruffata e spinosa. Non era un bello di società. Aveva caratteristiche decisamente diverse. Le poche donne che aveva avuto modo di conoscere, non era mai stato in grado di reggerle se non per pochi giorni. Non riusciva a creare una relazione. Le sentiva troppo diverse e lui troppo distante da loro. Era qualcosa di inconscio che cercava di capire, ma che non poteva spiegare.
Cresciuto in un istituto per trovatelli, non poté mai sentire l’umano affetto di un padre e di una madre. Intorno a sé vedeva solo persone incaricate a svolgere il loro servizio, che si occupavano di lui come di tanti altri che avevano subito la sua stessa sorte. Erano addetti regolarmente salariati che a fine settimana tornavano a casa. Anche le suore che prestavano assistenza nella struttura, rientravano in famiglia almeno tre volte all’anno. Per lui, invece, sia d’estate che d’inverno, la famiglia era rappresentata da quelle vecchie mura; da quei viali d’ospizio e da un misero letto dove poter sognare.
Di carattere cupo, non seppe mai elargire un gentile sorriso a chi lo andava a visitare e si chiudeva nei suoi silenzi, dentro una sottile incomprensione. Il nome ed il cognome gli furono dati dalla direzione degli archivi, con quale criterio, sinceramente non lo saprei spiegare, ma comunque sia stata la cosa, certamente non avrebbe avuto parentela in nessuna parte del mondo.
Terminati gli studi d’obbligo, si prestò a lavori di manovalanza all’interno dell’ospizio. Da un anziano erborista imparò anche a riconoscere con cura le varie piante officinali e quando raggiunse l’età della ragione, fu affidato a un parroco di provincia. Lì, si accasò per diverse stagioni, anche se la vita da sacrestano non era certo quella che desiderava. Poco tempo dopo, infatti, mollò l’incarico contro ogni ordine ecclesiale e si trasferì da un amico d’istituto che aveva trovato famiglia.
Qui trovò un lavoro presso un mulino. Il proprietario fu disposto ad accoglierlo con vitto e alloggio, però con una paga decisamente al di sotto di un regolare salario. La mansione era pesante e veniva svolta manualmente. Per tutto il giorno si caricavano sacchi di farina da cinquanta chili all’interno di camion articolati o di carri agricoli; bisognava essere giovani e sani per non soffrire più del dovuto. Un mestiere duro che portò avanti sino a quando si stancò di ricevere una retribuzione sotto ogni norma prevista dalla legge. Sottopagato e malnutrito, si sentiva peggio che in ospizio. E quando venne a conoscenza che in città cercavano operai generici per turni lavorativi, lasciò l’avaro padrone e se ne andò.
Dopo che fu assunto, si trovò una piccola sistemazione in città. Doveva imparare un’attività nuova ed avviarsi su un percorso lavorativo diverso. Pur di riuscire a mettere via qualche risparmio, fece per sette anni duri sacrifici. Aveva in testa uno strano desiderio che sentiva di poter compiere; cercare una realtà libera, senza vincoli e soprattutto senza istituzioni. Voleva affrontare la vita con le proprie risorse per sentirsi indipendente da tutto. Così un giorno, partecipando a un’asta, trovò l’occasione che cercava: una casetta di pietra in alta montagna con terreno circostante recintato. Veniva via con un prezzo stracciatissimo.
Senza pensarci un istante, se l’aggiudicò. Quel luogo doveva diventare il suo habitat naturale, un sogno che si stava realizzando.

[continua]


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