Senza soluzione di continuità

di

Cristiana Romano


Cristiana Romano  - Senza soluzione di continuità
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 48 - Euro 8,00
ISBN 978-8831336253

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In copertina: «Art Spring border background with pink blossom» © Di Konstiantyn – stock.adobe.com


La raccolta di racconti “Senza soluzione di continuità” riprende il genere letterario della narrazione breve, già affrontato in “Fermo immagine”, ed offre dodici piccole storie che, per quanto concluse, sono collegate tra loro da uno stesso filo conduttore: la continua ricerca del sé.
Il libro condensa, così, situazioni, aneddoti ed esperienze di vita comune, eppur sostanziale, nella presentazione della natura dell’uomo e nella comprensione del suo pensare-sentire-agire.
Fragilità, speranze, timori, reminiscenze e dimenticanze, desideri inespressi, luci ed ombre concorrono a delineare i protagonisti delle short stories, i quali si rendono strumento indispensabile per snocciolare il lavoro interiore che ciascuno di noi mette in atto quotidianamente nella scoperta della propria identità più profonda ed autentica.
In apertura, ogni miniracconto concentra l’attenzione su una massima, la quale attraverso rapide ma succose parole ne racchiude il senso o ne diviene la chiave di volta.
Buona lettura!

Cristiana Romano


Senza soluzione di continuità


A mio nonno, conosciuto dai racconti di mia madre


Siamo tutto ciò che ci attraversa ferocemente o sfiora lievemente.
Siamo memoria voluta e distratta dimenticanza, come pure dimenticanza voluta e distratta memoria.
Siamo incertezze e fragilità, gioia e passioni, paure e speranze.
Siamo il bene e il male, la luce e le tenebre.
Siamo le zavorre del passato, l’incanto del presente e lo smarrimento per il futuro.
Siamo colui o colei che non vorremmo mai essere o che desidereremmo essere veramente, essenza poco compresa o malamente intuita.
Siamo, infine, origini e radici, nonché ali di libertà e brama di solitudine.


BILANCI

“La nostra felicità dipende da quello che siamo, dalla nostra interiorità, mentre per lo più prendiamo in considerazione soltanto ciò che abbiamo e il ruolo che rappresentiamo.”

Arthur Schopenhauer

Quel nodo alla cravatta gli serrava il collo.
Un avvitamento di centottanta gradi che avrebbe sciolto volentieri per la sgradevole sensazione di cappio asfissiante.
“Un orpello in più. – Pensava. – Mi sembra di soffocare.”
Infastidito, attendeva alla stazione l’arrivo del treno delle ore nove per recarsi presso l’ennesima convention di lavoro.
“Presentazioni, appuntamenti e incontri: l’ufficio è ovunque!” Desiderava urlare.
“Sono un manager di successo…ho idee brillanti…correrò anche questa maratona. – Continuava a ripetere tra sé e sé, mentre si avviava verso la sua esecuzione capitale. – Sono consapevole del mio ruolo e dell’obiettivo che intendo raggiungere.”
Come un condannato all’impiccagione prendeva posto sul treno, sospirando di tanto in tanto ed insistendo in uno scomodo esercizio di training autogeno. Mirava, difatti, a scaricare le tensioni in eccesso accumulate nel curare la performance comunicativa che, di lì a poco, avrebbe tenuto in presenza di numerosi altri leaders della relazione.
Del resto, conosceva bene i suoi interlocutori e sapeva di dover gestire in modo efficace clienti e fornitori, al fine di assumere il proprio progetto come l’unico progetto economico d’abbracciare tra diversi progetti presentati.
Aveva tutte le doti del manager esemplare; tuttavia, quel nodo alla cravatta gli stringeva il collo al punto di provare asfissia.
In treno sedeva davanti ad un giovane, il quale vestiva una colorata T-shirt ed un paio di blue jeans… quanta invidia andava provando per la libertà e la leggerezza indossate dal ragazzo!
Il colore acceso della maglietta gli ricordava spietatamente di essere stato giovane anch’egli parecchio tempo prima, quando “dare tempo al tempo” era cosa naturale e lo faceva star bene. Quando gli allenamenti di training autogeno non esistevano. Quando portare a casa un risultato significava riuscire a strappare un appuntamento alla ragazzina della scuola che tanto gli piaceva.
Erano lontani gli anni in cui correva al campo-scuola del quartiere… mai, allora, avrebbe immaginato di correre da futuro runner d’impresa!
Allora: una parola che gli suonava, adesso, estranea, non fosse altro perché rimandava al passato ed un buon runner d’impresa non può farsi risucchiare dal passato e nel passato. Non fosse altro perché chi detiene la leadership deve avere ben chiari in mente gli obiettivi prefissati, nell’ottica continua di un miglioramento futuro dell’impresa.
Eppure, con l’avanzare dell’età, gli capitava spesso di farsi inghiottire dal passato e nel passato.
Nel momento in cui ciò accadeva, un sottile velo di malinconia gli copriva il volto. Repentinamente, l’attento speculatore rifiutava ogni successo lavorativo ottenuto e quella velata distanza che, a guardar bene, gli si leggeva come l’ombra di una vaga tristezza, si tramutava, subito dopo, in una soffocante oppressione per il ruolo ricoperto, per la vita vissuta fin lì, per ciò che egli stesso rappresentava e che, forse, era stanco di rappresentare altresì.
Osservava con rabbia, ora, il giovane sedutogli davanti: il ragazzo, così acerbo ed incauto, aveva tutta la vita innanzi per scegliere ancora e per sbagliare, per cambiare se stesso e per non perdersi in ruoli o profili attitudinali che società richiede e che natura respinge.
“Potessi tornare indietro, cancellerei un intero ciclo di studi!” Sempre più forte si faceva in lui il desiderio di gridare.
“E darei più tempo al tempo! – Tanto andava odiando le corse e gli spostamenti rivendicati per lavoro. – Ecco, darei più tempo al tempo!”
Seguitava a rimuginare con gli occhi abbandonati sul ragazzo, forse per la smania repressa di alimentare i sogni che mai aveva potuto perseguire in gioventù o, forse, nell’ingannevole speranza di non trovarsi più imbrigliato al collo da quel nodo sociale che tanto, adesso, lo costringeva.
Non poteva sottrarsi alla vista del giovane: in quegli occhi maledettamente limpidi si riconosceva molti anni addietro e vi riconosceva la propria storia incompiuta.
L’acclamato e compiutissimo businessman non esisteva se non in coloro che lo vedevano tale.


IL PROFUMO DEI RICORDI

“C’è un piccolo cassetto nel lobo destro del mio cervello, pieno di tutti gli odori importanti della mia vita. Gli odori rimangono per sempre e basta un pensiero per convocarli al tuo naso.”

Maurizio Maggiani

La sera lenisce ogni pena.
Questo pensava in quel fondo di letto.
E piano piano, sera dopo sera, si addormentava regalando gli occhi al sonno.

Giacché la malattia lo aveva costretto a letto, era solito riscuotere visite sia mattutine che pomeridiane.
In effetti, amici e parenti, come pure medici ed infermieri, si alternavano con regolarità nell’affollare la stanza della clinica di cui era ospite, perché non fosse mai lasciato solo e ricevesse ogni attenzione possibile.
Solamente col giungere della sera e nella ferma convinzione che dovessero concedergli le giuste ore di riposo, quelle presenze, tanto premurose quanto ingombranti, si allontanavano placidamente.
Perciò, tutto il brusio, che aveva fino ad allora riempito il dì, faceva spazio ai colori del tramonto.
Il cielo si tingeva di rosa, adesso, ed offriva uno spettacolo unico.
“Benedetto tramonto! – Sussurrava grato. – Ti ho atteso tanto… mi abbandono a te.”
Come ogni sera, attraverso i vetri della grande finestra alla parete, amava portare gli occhi al cielo per godere di tanta bellezza e direzionava lo sguardo verso il terrazzo metropolitano dello stabile posto di fronte alla clinica, al quale da giorni accorreva una coppia di gabbiani. Ad infissi aperti poteva udirne anche il canto, un soave stridio che lo carezzava quasi come una ninna nanna.
In quei brevi istanti, tornava al ricordo della moglie Angelina e agli anni vissuti insieme al mare.
Gli bastava poco perché la metropoli capitolina divenisse la località di mare che li aveva visti, una volta, abbracciati a contemplare i tramonti estivi.
Socchiudeva appena gli occhi ed iniziava, così, a ripercorrere quel tempo di vita in cui, pazzi ed innamorati, lui e Angelina s’intrattenevano ore a cantare alla luna e a numerare le stelle.
Persino nel puzzo alcolico dei medicinali, egli riusciva ad apprezzare il profumo del mare: si dice che la memoria olfattiva sia immagazzinata stabilmente nel cervello… dunque, perché non richiamare il profumo dei ricordi?
Serbar memoria di Angelina, quand’ella era ancora nel fiore della giovinezza e nulla sembrava turbarla, aveva il potere di quietargli le fitte dolorose che accusava sempre più frequentemente all’addome.
Ritrovava pace solo davanti alla ricchezza del sorriso della moglie e a quel bagliore rosato che le illuminava il volto.
Così la ricordava.
Le rivedeva i lunghi capelli neri, raccolti di lato e finemente bloccati da un fermaglio di perle, ed un succinto vestito a fiori, che rendeva onore, allora, al generoso décolleté.
L’aveva amata tanto e l’amava ancora, oltre la morte: gli era stata strappata troppo presto ed egli non poteva non continuare a sognarla.
In quegli attimi di estraniazione dalla realtà, anche spirare gli sarebbe stato più lieve… tanto erano dolci.

Nel frattempo, i bianchi pennuti, complici malandrini dello stesso sogno d’amore, avevano nidificato noncuranti dei residenti del quartiere e, ad onor del vero, non erano sì ben accetti da quest’ultimi.
“C’è da intervenire! – Molti di loro andavano blaterando. – Sono voraci ed aggressivi, che tornino al mare!”
Eppure, gli uccelli non avrebbero fatto ritorno al mare tanto presto, di certo non prima della dipartita del moribondo: così, almeno, egli aveva implorato al Creatore e così, senz’altro, avrebbe voluto anche Angelina.
Il distacco sarebbe giunto dopo aver contemplato, un’ultima volta, i colori dell’imbrunire e soltanto dopo il commiato della coppia di Laridi, un candido intreccio d’ali, cioè, compiuto dinanzi allo spiccare il volo.

La sera lenisce ogni pena.
Questo pensava in quel fondo di letto.
E piano piano, quella stessa sera, si addormentava regalando gli occhi all’Eterno.


MALDICENZE

“Con silenzio e pazienza, vincerai la maldicenza.”

Antico proverbio

Tonia: “Ma tu te la ricordi Suor Venerina?”

Andreina: “Suor Venerina chi?”

Tonia: “La suora carmelitana che diede scandalo!”

Andreina: “Ma chi quella che ebbe un figlio da Padre Gerardo?”

Tonia: “Sì, proprio lei!”

Andreina: “Che fine ha fatto? So che lasciò i voti tanto tempo fa…”

Tonia: “Il minimo che potesse fare allora… oggi insegna religione cattolica nella scuola di Gustavo mio.”

Andreina: “Davvero? E con che faccia?”

Tonia: “Con quella che si ritrovava al tempo, Andreina cara…”

Andreina: “Non capisco… come hanno potuto permetterlo?”

Tonia: “Le strade del Signore sono infinite, Andreina cara…”

Andreina: “E Padre Gerardo? Dice Messa ancora?”

Tonia: “Certamente, sembra sia stato trasferito presso un’altra parrocchia.”

Andreina: “Non mi capacito… perché hanno voluto consentirlo? Spero perlomeno che il figlio non sia così sconsiderato come il padre e la madre…”

Tonia: “Il figlio, Andreina cara, si dice che balli in costume in uno di quei locali per soli uomini.”

Andreina: “Che cosa? E chi lo dice? Saranno malelingue… il mondo è pieno di malelingue…”

Tonia: “Malelingue o no, nuvole verdi e scurette son tempesta e saette!”

Andreina: “Tonia cara, hai ragione… quando canta il rospo il cielo si fa fosco… i proverbi non sbagliano mai.”


IL TEMPO DELL’OBLIO

“La morte non arriva con la vecchiaia
ma con la dimenticanza.”

Gabriel Garcia Marquez

Cercava gli occhiali per tutta casa, portando sottobraccio l’album delle fotografie, quelle in bianco e nero.
La cattiva messa a fuoco da vicino, del resto, ne tradiva l’età ormai, tanto da riuscire a distinguere le vecchie amicizie e gli affetti perduti unicamente attraverso le necessarie lenti correttive.
Nel via vai di figli e nipoti e nella confusione delle loro frenetiche attività, concedersi il lusso di isolarsi e ritagliarsi del tempo in totale silenzio lo confortava parecchio.
Prima, però, occorreva recuperare gli occhiali, ostili a saltar fuori.
Niente di che, volatilizzati nel nulla, nonostante avesse eseguito un secondo giro di ricognizione per le stanze dell’appartamento.

“La casa nasconde ma non ruba. – Diceva a voce alta, mentre rovistava tra i cassetti del comodino in camera da letto. – Si manifesteranno presto o tardi.”
E s’aggirava per i locali con circospezione, come un malvivente.
“Nulla ancora. Svaporati ineluttabilmente.” Ribadiva incaponito nella ricerca.

Dal momento in cui la moglie aveva spostato l’arredo e gli oggetti contenuti in cassetti e credenze, gli riusciva più difficile orientarsi, così almeno giustificava a se stesso. In realtà, la memoria iniziava ad ingannarlo ed il ricordo, tanto nel lungo quanto nel breve periodo, gli si presentava fastidiosamente offuscato; giammai, tuttavia, avrebbe ammesso un principio di demenza senile… si sentiva ancora talmente giovane nello spirito e nel corpo!
Seguitava a cercare, dunque, anche se il detto “chi cerca trova” non pareva sortir alcun effetto positivo.

Ai suoi occhi, sul tavolo del soggiorno, si profilarono d’un tratto gli occhiali della moglie, presbite anch’ella. Li inforcò quasi furtivamente e subito dopo raggiunse la poltrona dai grandi cuscini.

Finalmente poteva godersi il suo amato album.
Scorreva le fotografie lentamente, soffermandosi sui più piccoli particolari: la borsetta in lapin di Rosina, le scarpine lucide della figlia del compare Amedeo, la cravatta a quadri dello zio Fortunato.
Il compare Amedeo e lo zio Fortunato erano morti già da diversi anni. Rosina e la figlia del compare, invece, vivevano ancora.
A quel bianco e nero, talora sgualcito e talora macchiato, fluiva davanti tutta la sua gioventù e tornavano alla mente le uscite ed i festeggiamenti di un tempo, come pure i momenti di vita comune, vissuti felicemente ed immortalati per sempre.
Sarà stato che la spensieratezza giovanile ti faceva star bene ovunque – pensava – fatto stava che non c’era foto in cui egli non elargisse un sorriso sincero.
Sarà stato pure che un tempo con poco si viveva bene ed i guai di allora non erano di certo i guai odierni – si capacitava – ma di fatto Rosina era bella anche in bianco e nero e con quella stupida borsa in lapin.
Rosina: un metro e sessanta di garbo per quarantacinque chili di riservatezza. Con atteggiamento sottomesso, pur di compiacere a mamma e papà, aveva finito per accettare la proposta di matrimonio del signorotto della zona. E quel signorotto le aveva regalato l’inutile borsetta in lapin, sancendo con lei l’unione futura.
Rosina… quanto l’aveva amata! Tacitamente, dolcemente.
Il ricordo di lei non l’abbandonava ancora e solo per questo andava odiando quel principio di demenza che si prendeva gioco di tante memorie tranne che di quella di Rosina.
Egli non temeva il tempo dell’oblio, lo attendeva inesorabilmente nella sua pienezza e nella speranza che gli restituisse infine un poco di pace.

[continua]

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