Spettro d’albero

di

Davide Bertolini


Davide Bertolini - Spettro d’albero
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 32 - Euro 6,50
ISBN 978-88-6037-9115

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Spettro d’albero


I.

I morti ci guardano,
ma distanti dal tempo che ci rimane
non ce ne accorgiamo,
distratti dai nostri fiati
noi siamo quello che amiamo.

Noi siamo uno sfiorire,
un incenerire per un eterno invisibile
dove i guardiani di sepolcri
vagano dal tramonto all’alba
(trasparenti stralci per chi guarda).

Qui siamo noi ogni irreale ombra
che al vagar del vagabondo Sole
s’aggira s’allunga e s’accorcia.

Sullo sfondo c’è l’odore di viole.


II.

Sono i morti i veri vivi
nel loro mondo e nel nostro,
invisibili nel visibile giorno
riemergono dall’invisibile
silenzio notturno.

Vagano nel nostro vivere,
ma noi stupidi li cerchiamo
tra gli ossari, i marmi, le fosse,
dove ombre accostano
prima verso egli
poi lui ora un altro:
le foto sommerse.

Ci appaiono nei sogni,
li vediamo spettri o fantasmi,
li conosciamo i morti
bianchi come cadaveri.

Soffi intattili sono i fantasmi
che non riusciamo a toccare,
ma ci toccano il cuore
quando in visioni ci sorridono.

Noi temerari li temiamo,
perché sanno di loro e sanno di noi,
invece nulla noi sappiamo di noi
lontani da noi stessi come siamo.

Noi li vediamo
i morti di un’ora,
così distesi e addobbati,
sembrano bambini dormienti
nella propria culla, incuranti
al di là dal proprio sonno.

Noi li vediamo
i corpi senz’anima
affondare in un buio di terra,
non resta che pensarli
anime senza corpi.

Nemmeno a me
piace stare in piedi,
ma io non galleggio in mare
e nemmeno nel silenzio.

Io mi affanno in un nuoto
che fa tormenti emozioni gioie,
mentre loro i morti
al di là della riva lo sono
tormenti emozionano gioie,
sanno oramai chi sono.


III.

Che la morte sia un traguardo
inevitabile della vita
è presto detto è presto fatto,
ma che al di là del traguardo
ci sia premiazione, consolazione,
un angolo per il rinfresco,
è tutto da ripensare o magari
tutto da lasciare nell’impensato.

Non fu la morte un’invenzione
(del sogno lo fu la vita),
fu l’imprevista conquista
intravista tra il vedere al di là della vista.

Fu l’inizio della storia dal futuro in poi.

Fu per noi, tra l’agire nel fluire,
l’argilla del nostro vivere.


IV.

Solo i nati morti
non pensano alla morte,
sordi al ritmo delle proprie aorte,
non sanno quanto rumore
nasconde il silenzio della notte.

Io per conto mio,
in queste quiete ore
mi preferisco addormentare
tra gli orti di Montale
(universo di rime sbagliate),
dove muraglie si sperdono
tra infiniti bisbigli.

Così come le disseccate foglie
le nostre palpebre si chiudono
nel buio che le accoglie.


V.

Non ho dimenticato
che la notte è il mondo dei morti
e la nebbia si confonde di visioni spettrali.

C’è gelo di morte in queste notti invernali,
come quel tempo di quando si congelò il tempo
e il ricordo dei brividi e sommosse del cuore,
nel guardare l’oscurità mentre stava per arrivare,
come fa un sogno all’inverso.

Così la morte sarebbe l’universo
di un corpo che addormentato è guardato
e ammirato per i suoi occhi sbarrati all’inverso.

Tra le fessure ignoro fessi sussurri.


VI.

Morti da qualche tempo e dissotterrati,
orrore e ossi dilaniati,
di noi rimane più che altro crani crepati,
così siamo ora intravisti e ammirati:
per sempre nature morte siamo diventati.

Siamo teschi con dentiere
e sguardi con in capo le parrucche,
noi senza occhi voi ci guardate,
e con quanto coraggio ci toccate!


VII.

Cari morti dal tempo assente,
vi considero come siete:
vivi trasparenti come soffi
presenti nel languore,
lo stesso di quando nel vostro trapassare
si seppellì la nostra vanità,
circonciso l’affetto di noi per noi.


VIII.

Di notte galleggiano veli
tra ariose correnti in cimiteri,
melodie e geli tra lumi e neri sfondi,
mentre dai muri emergono profondi
ricordi “dell’inconscio nell’infanzia”
oramai tra il sogno e il sonno.

Al di là del cancello è tutto vero
quello che non vedo,
ma che sento farsi sentimento.


IX.

Così supino in bara, a braccia composte,
limbo di attimi intimi io mi poso pensoso:
“io sono?

Temporanei temporali siamo?”

Le risposte sono stravaganti come i passi
di quando, con sottobraccio un diario sdatato
a tempo perpendicolare, passeggio
a modo di pendolo nel vento sotterraneo,
esistendo il tempo.

“Noi siamo trasparenti feti d’angeli,
rovesciati in bicchieri di cieli
e allora io sono un pesce che muore di sete.”

“Sospeso in penombra sono il mio fiato fermo.”

“Nel distillato del diluire
siamo null’altro che il divenire
un silenzio senza sole
sotto un cimitero pieno di rumore.”

Come vedete le risposte sono pure insensate,
evacuate tra sguardi infermi:
solo un plurale di vermi.


X.

Mi coltivo con vertiginose impressioni
la cellula spirito, nel respiro vortice al logaritmo
che mi rade lo scheletro d’un movimento cosmico.

Alzandomi notturno vedo
i quadri fermare lo scorrere del tempo
nella parete dietro,
formando tra le fessure polvere di reliquie,
che non toccano luce e fanno da riflesso alle ombre.

E che bizzarre constatazioni davanti all’ombra mia:
“io sono il mio respiro obliquo
bambino esserico dal battito plastico
io sono il mio crepuscolo sommerso.”


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