Origini

di

Debora Pietrarelli


Debora Pietrarelli - Origini
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
12x17 - pp. 126 - Euro 9,50
ISBN 978-88-6587-3106

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In copertina: “Origini” di Debora Pietrarelli


Mentre Alice prosegue l’Università in carriera, studenti e laureandi si susseguono di anno in anno nelle varie facoltà universitarie.
Tra orgoglio ed amore Erick, uno studente della facoltà di giurisprudenza, imparerà che non si può scegliere senza dover rinunciare e che, spesso, le scelte che si fanno coinvolgono coloro che amiamo.


Origini


Origini

Un tuono di tamburo si faceva armonia di un equilibrio nell’infinito, attraverso la corporea struttura di una massa al cosmo. Al suono di un tamburo l’indio muove le sue mosse, al suon di sé, in un tutt’uno che diviene da piccolo ad immenso universo. Danza e non danza l’indio all’intenso rullo; saldo al rombo, a se stesso.

Alice

Ero sempre più interessata all’antropologia e la parte che mi interessava maggiormente era l’idea di una vita sciamanica. Nel frattempo Egidio divenne professore di Storia dell’Antropologia e da quel momento mi suggerì di potergli essere di valido aiuto nella ricerca. Mi fece sua assistente, ben chiacchierata vista la nostra relazione, ma in fondo mi apprezzavano per quanto riuscivo a dimostrare nel campo della ricerca; e mentre lo aiutavo prendevo contatti con i colleghi di altre facoltà per collaborare nel più ampio e vasto campo, chiaramente nella norma di quanto la legge detta. Diego, il collega di sostegno al professore di Diritto Internazionale mi era di grande aiuto per la valutazione dei criteri di convivenza fra le diversità razziali, derivanti dalle diverse forme legislative oltre che da usi e costumi. Mi parlò lui stesso di un ragazzo che si stava laureando in Legge perché seppur geneticamente appartenente alla razza originaria del Nord America (i cosiddetti Indiani d’America) era però nato e cresciuto a Roma, e con tutti gli annessi e connessi, in lui, non si lasciava trapelare molto delle proprie origini. Lo osservammo fino al giorno della sua laurea grazie all’interesse che la sua fidanzata dimostrava per il diritto internazionale.

Fu meraviglia, perché per la prima volta notai il ripetersi degli eventi seppure con diverse modalità, nella vita dei più giovani. Il suo nome è Erick Mage. Partì per un viaggio nel Paese nativo di sua madre e noi prendemmo contatti con la sua fidanzata.

Il mio nome è Erick Mage.

Proverò a raccontare la mia storia attraverso i momenti decisivi della mia vita che hanno portato il mio accadimento del sé, ovvero a riconoscermi nel mio lignaggio.

“Posso farti una domanda?”

“Da quanti milioni di euro?”

“Oh, beh, potrebbe valere molto più di qualche milione di euro!” Disse ridendo e aggiunse:

“Potrebbe essere di valore inestimabile.” Annuii per consentirle di fare la sua domanda:

“Dove sei nato?” Anche se ci conoscevamo da qualche anno non poteva saperlo perché non parlavo mai delle mie origini. Era tabù. Ma risposi con molta semplicità:

“Vivo qui, a Roma, qui studio e qui sono nato, anche se mia madre non è italiana.” Non so perché aggiunsi che mia madre non è italiana, forse perché tanta era l’evidenza dei miei tratti somatici da farla incuriosire sulla mia provenienza.

“E di dov’è?”

“Mia madre è nativa del Montana, negli Stati Uniti, al confine con il Wyoming. Si è trasferita a Roma per lavorare come colf presso una ricca famiglia di notai. Loro la conobbero in una vacanza che fecero nei pressi della riserva in cui mia madre viveva. Anche tu sei nata a Roma?”

“No, sono nata a Belluno. Mio padre si è dovuto trasferire qui per lavoro dieci anni fa ed io avevo solo quindici anni. Lui era un direttore in gamba nella banca dove lavorava, tanto che l’hanno trasferito nella sede centrale qui a Roma, ed io mi sono ritrovata a ricominciare tutto da capo!”

“E tua madre?”

“È morta quando avevo solo cinque anni.”

“Scusa, non potevo sapere.”

“Figurati. Ci si abitua.”

“Usciamo di qui, ti va?”

“Sì, ho voglia di fare due passi anche io.”

Camminammo ore intere fino a tarda sera. Non volevo lasciarla. Avevo paura di non rivederla. Almeno finché non mi diede il suo numero di cellulare, allora la guardai, lei mi guardava, sembrava mi dicesse “già non vedo l’ora di rivederti”. Ed era proprio ciò che io stavo pensando di lei: non vedo l’ora di stare ancora con lei.

Tornai a casa. Vivo con mia madre nella casa dei notai per cui lavora. Abbiamo ognuno la sua stanza e dividiamo il bagno di un’ala del loro grande appartamento in cui ci ospitano. Hanno una grande cucina dove mangiamo in orari diversi dai loro quando sono a casa, perché se loro mangiano in casa mamma deve organizzare i pasti e servirli a tavola. Quindi, o mangia prima o mangia dopo. Io posso mangiare anche durante, tanto loro sono nella camera da pranzo dove neanche accedo, non perché mi sia proibito, semplicemente perché non la sento una stanza che possa far parte della mia casa. La mia casa sono la cucina, la mia stanza ed il bagno che condivido con mia madre. Per il resto non ci fanno mancare nulla. Mia madre ha uno stipendio soddisfacente che ci permette di vivere dignitosamente e di farmi studiare, come lei e loro vogliono. Ma io non so più quanta intenzione ho di portare avanti gli studi. Sento il bisogno di uscire fuori da questa routine. Studio giurisprudenza, facoltà che mi ha permesso di incontrare Angelica, proprio in questo momento che vorrei poter dire a mia madre quanta voglia provo di andare lontano, dove lei è nata, in quei posti di cui mi parla tanto. So dove sto crescendo, ma quando i miei amici parlano delle loro case, delle loro famiglie, dei loro Paesi e delle loro radici ed origini, io mi sento un cittadino a cui manca qualcosa. Allora mi radico all’unico ragionevole appello che trovo: quell’immensità universale che ci permette di riconoscere l’armonia fra le cose. Ma ora c’era qualcosa in più, ora c’era la possibilità di sentirsi, come dire, forte ed insostenibile, al di là di ogni cosa: l’amore. Un sentimento che non avevo mai provato prima. In precedenza ho provato solitudine, acredine, affetto, tristezza, allegria, gioia, dolore e sofferenza per non avere una esplicita identità di discendenza nella quale riconoscermi. Ed ora, per la prima volta, mi sento fortemente trasportato verso una donna. Come una sconosciuta calamità provavo il senso immenso di una realizzazione: Angelica si materializzava dai sogni e dalle speranze di avere qualcuno con cui condividere me stesso e che lei stessa poteva condividere sé con me in una complicità alchemica di estremi sensi, e perché no, di estrema passione.
La sera dopo cena me ne andai in camera mia. Di solito facevo due chiacchiere con mia madre e qualche volta i notai mi intrattenevano nei loro discorsi e si interessavano di norma alla mia crescita personale ed accademica. Loro sono come due cari zii, distaccati ma presenti. In fondo ero figlio di mia madre ed era lei che aveva ogni responsabilità nei miei riguardi. Loro, però, non mancavano di appoggiarla nel sostenermi affinché io concretizzassi i miei successi. Sono notai ed hanno studiato giurisprudenza prima di me, nel loro Paese, presso le loro origini, alle quali tanto erano attaccati quanto io cercavo di sforzarmi a capire quale fosse il percorso da intraprendere. Sì, avevo scelto la facoltà di giurisprudenza sostenuto da un diploma liceale, dai sacrifici di mia madre per me e dall’ammirazione che avevo per loro: i notai. Portavo con me sempre questo pensiero. Non erano il signore e la signora Potassi ma erano i notai e sempre mi sono rivolto a loro con il loro titolo, mai con un signor o signora. Chiamarli per nome era impensabile. Loro erano coloro che ci ospitavano, coloro che ci davano la possibilità di mantenerci. Avevamo vitto ed alloggio più lo stipendio da colf di mia madre, che un giorno avrebbe avuto la sua pensione e sarebbe rimasta indipendente come aveva sempre voluto. Per quel che ne so, dai suoi racconti, ha accettato la proposta dei notai perché sognava di vivere libera, fuori dal sentirsi rinchiusa in una riserva. Non sopportava più l’idea di sentirsi una pellerossa in riserva, dove gli stranieri vanno in cerca di giorni folkloristici. Non amava gli stranieri e avrebbe voluto essere lei stessa una straniera per sentirsi libera e non per andare a sbirciare piccole riserve ma per rendere alla sua sensibilità la magnificenza di un mondo che di bellezze naturali ne ha da custodire e mantenere. Sognava di viaggiare anche lei per vedere posti nuovi e conoscere gente nuova, gente libera, posti incontaminati come la sua riserva ma non circoscritti. Arrivata in Europa, però, ha capito che la sua vita ero io. Io che fino a questo momento non avrei mai pensato di dare posto ad un’altra donna che non fosse mia madre nel mio cuore. E quella sera non riuscii a chiudere occhio. Pensavo ad Angelica, a come l’avrei rivista, a come sarebbe stato, se sarebbe stato come quel pomeriggio stesso in cui usciti dall’Università andammo con altri colleghi di corso a mangiare una cosa in un fast-food per ritrovarci a passeggiare, io e lei, soli, ed a parlare di noi e di ciò che pensiamo. E lei era bellissima quel pomeriggio, quasi non me ne fossi mai accorto. Era bella davvero e mi piaceva in ogni sua movenza, il sorriso e lo sguardo. I suoi occhi sembrava parlassero all’unisono con le sue labbra, che nel mentre si sfioravano l’una con l’altra emettevano un tiepido suono intriso di dolcezza e di tenerezza. Avvolto com’ero dal tepore delle sue labbra in movimento, dal suono delle sue parole e dai pensieri immensi che esprimeva, seppure fossimo stati nel pieno inverno polare non me ne sarei accorto!

La mattina dopo andai a lezione e quando i nostri sguardi si incontrarono vibrai all’ennesima potenza. Mi chiedevo se per lei fosse la stessa cosa. Eravamo all’ultimo esame di turno prima della laurea, entrambi, ed entrambi con buoni risultati agli esami precedenti, potevamo aspirare alla lode, eppure in quel momento persi ogni intenzione. Capii che dovevo sapere cosa volevo veramente per me. Per me stesso, cosa volevo? Ero combattuto. Nel mio cuore l’unica donna amata era mia madre, eppure, ora, Angelica vi era entrata senza alcun modo di poterci irrompere. Senza niente, né una chiave di lettura. Lei non aveva mai fatto un bel niente per entrare nel mio cuore. In cinque anni di corso di laurea insieme non eravamo neanche mai stati veri amici, amici intimi, confidenti. No, niente di tutto ciò. Era un’amica superficiale, un’amica con la quale non avevo mai condiviso argomenti che esentassero dagli studi, al massimo si parlava del più e del meno, di quello che si discuteva in aula con un docente o l’altro, ma mai eravamo entrati in dettagli tanto intimi, di vita privata, di pensieri nascosti, di armonia ed universalità. Comunque quella mattina ci incontrammo in aula, quando arrivai era già entrata ed aveva preso posto vicino alle sue amiche. I nostri sguardi si incontrarono e ne scaturirono i nostri sorrisi. Mi sentii rinascere e che in fondo non avevo passato una notte insonne per niente. Ora sì che valeva la pena mettersi in discussione. Ora c’era qualcuno che mi toccava nell’intimo. E soprattutto, ora, capivo di aver trovato intesa. O meglio, qualcosa di intimo in me, qualcosa che mi era sempre sfuggito e per questo non potevo capire né apprezzare.

Alla fine della lezione feci in modo di uscire dall’aula avvicinandomi a lei, o forse è stata lei a fare in modo di avvicinarsi a me.

“Ciao.” Le dissi con tono tenue e soave, di una dolcezza unica, mai trapelata dal suono della mia voce, che in quel momento stentavo a riconoscere.

“Ciao.” Rispose con lo stesso identico tono.

Stentavo a credere che potesse esserci qualcosa di così intenso come il suono lieto e soave di una voce. Stentavo a credere che potessi provare qualcosa per lei. Stentavo a credere che non fosse un’illusione. Stentavo a credere che potesse esistere. Stentavo a credere a me stesso preso nell’intimo.

“Stiamo andando a pranzo per darci un’idea della tesi. Siamo all’ultimo esame di corso ma vogliamo arrivare preparate alla scelta per non trovarci svantaggiate.”

“Mi sembra giusto. Io un’idea ce l’avrei già, ma è ancora tutto da vedere!”

“Angelica! Dai, abbiamo fame!”

“Devo andare. Ci sentiamo dopo se mi chiami.” Raggiunse le sue amiche e proseguì con loro.

“Sì, certo.” E non uscì altro dalle mie labbra.

Restai lì, fermo, impalato a guardarla arrivare fino alle sue amiche, a provare la sensazione che potessero allontanarla, ma mi aveva chiesto di chiamarla e quella sensazione svanì all’istante. Le sue amiche non potevano certo sapere che tra me e lei si stava instaurando qualcosa di veramente singolare. Qualcosa che pochi conoscono e molti invidiano. È l’estremo senso dell’incontrarsi. L’estremo senso del riconoscersi.

Quella sera, a casa, neanche per farlo apposta, il notaio mi chiedeva se avessi idea dell’argomento che avrei discusso per la tesi. In realtà ero già pronto per la tesi, sapevo cosa avrei discusso e sapevo che non sarebbe stato facile. Il notaio non si stupì affatto quando mi sentì parlare di diritto di famiglia fino ad esprimere quanto approfondito nelle mie ricerche, ormai da tempo, di lignaggio giuridico e lignaggio genetico. Eravamo entrambi emotivamente coinvolti nell’argomento, tanto quanto ne fossimo distaccati al contempo, perché loro non avevano figli ed io non avevo padre. Non sapevo alcunché, solo che mio padre era una brava persona ma non poteva prendersi cura di me perché aveva preferito costruirsi un’altra famiglia. Aveva esplicitamente rinunciato alla mia natività, lasciando che mia madre prendesse una decisione e lei accettò se stessa. In tutto questo ero comunque distratto dal pensiero di Angelica, quindi mi apprestai in breve ad augurare una buonanotte ai notai e passando per la cucina, dove mia madre era indaffarata nelle ultime faccende della giornata, la salutai sfiorandole la fronte con le labbra, era il bacio della buonanotte che da tempo ormai non le davo più; almeno da quando ero al primo esame universitario ed ora mi stavo approssimando alla tanto aspirata laurea. Trovai semplice il mio gesto, spontaneo e dolce, lo feci con una tale disinvoltura che non me ne resi neanche conto. Mia madre mi guardò uscire dalla cucina per andare nella mia stanza e lì ero di nuovo libero, io con il mio pensiero: chiamare Angelica, che mi aveva dato una certezza, mi aveva detto che potevo chiamarla e forte del di lei invito presi il cellulare e chiamai.

“Pronto.” Non le avevo dato il mio numero quindi non poteva sapere che fossi io, non avendolo non poteva averlo memorizzato.

“Ciao.” Di nuovo quel tono dolce e soave che speravo tanto lei non trovasse smielato.

“Ciao.” Di nuovo quel tono celestiale che sembrava quasi elevarsi a la diesis. Questo era: una vera e propria intonazione di ogni lettera dell’alfabeto, un inconfondibile suono, una tenue vibrazione, un risveglio dei miei sensi più reconditi. “Mi dispiace di non essermi fermata neanche un attimo ma era una settimana che avevamo deciso di pranzare fuori e…” Si stava giustificando perché non si era fermata a parlare con me per raggiungere le sue amiche.

“Perdonata.” Le seppi solo dire.

“Posso rimediare in qualche modo?” Si prestò a pormi l’occasione sul cosiddetto piatto d’argento.

“Diciamo che non c’è bisogno che ti scusi, almeno per questa volta, e che non potevi sapere che ti avrei chiesto io di pranzare con me per discutere della tesi.”


[continua]


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