L’onda perfetta dei ricordi

di

Domenico Livoti


Domenico Livoti - L’onda perfetta dei ricordi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 84 - Euro 10,00
ISBN 978-8831336550

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In copertina: «Alfonso Livoti, figlio dell’autore» fotografia di Domenico Livoti


Sparge strisce d’oro la montagna
a ottobre,
quando il gallo lancia il suo canto
e traversa la valle come un razzo!
Spolvera di bianco gli anfratti
novembre
e alla pernice chiede un’eco metallica
tra gli speroni di nero granito!
Lascia cadere un manto bianco
dicembre
sopra i larici e sopra le pietraie
in attesa poderosa e silente
delle stranezze di un’altra Primavera!


L’onda perfetta dei ricordi


PROLOGO

Non so se nel 21° secolo ci sia ancora qualcuno che cerchi una guida nella Filosofia per orientarsi nel complicato mondo contemporaneo.
Le parole difficili sono state messe da parte con l’ausilio dei mezzi di comunicazione moderni.
I ragionamenti fanno perdere tempo e le indicazioni religiose fanno sorridere gli scettici dei sistemi informatici.
Trovandomi però tra le mani un breve saggio del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset scritto per giustificare le tendenze venatorie di un suo nobile amico, sono stato colpito da un’espressione, che il filosofo poi invita a mettere in pratica anche nella vita di tutti i giorni.
Contro l’inerzia, la mancanza di iniziativa, la ristrettezza di giudizio e l’angoscia esistenziale l’uomo si qualifica come “essere allerta”, capace cioè di dare vita a tutto ciò che entra nella sua sfera percettiva, di mantenere brillante la sua mente e di capire il mistero dell’esistenza.


A Luciana, Anna, Francesca e Alfonso


È quest’aura di spuma bianca
che io ho cercato per tutta la vita!
So che la potenza poi mi stritolerà,
so che come sassi scrocchieranno le mie ossa!
Ma chissenefrega!
L’acqua penetrerà dentro di me
e regalerà una parvenza di celeste purità
al mio animo stanco!
Questa furia, questo candore, questa forza
io desidero!
Mio figlio ce l’ha fatta!

DOMENICO CORDIANO
1949-1970


Il cimitero di Barcellona, in Sicilia, è su una collina, da dove si gode un panorama stupendo.
Montagne verso sud, piana, mare e isole verso nord. A oriente pinete e uliveti, a occidente promontori e santuari.
Viene voglia di dire “finalmente lassù avrò pace!” Ogni volta che vado a visitare le tombe dei miei cari, scopro visi di persone che ho conosciuto viventi sotto i raggi del sole e ora sono invece fissati in una foto e ti guardano come a voler dire “attento, noi ci siamo conosciuti! Anche tu farai parte prima o poi della nostra grande famiglia! Perciò, fermati un istante e trova dentro di te un ricordo delle nostre esistenze!”
Mi si inumidiscono gli occhi quando essi vengono fermati, come calamitati da un volto che ho conosciuto vivente, ridente, rabbioso, generoso, gentile, voglioso, forte e potente nella vita dei miei ricordi.
E mi convinco sempre più che per apprezzare la vita bisogna passare tra i tormenti, i dolori, le passioni e le certezze spesso incomprensibili, inspiegabili e inaccettabili di una fine.
Il rito della morte è divenuto nel corso dei secoli un’arte, e l’arte è la vera godibilità di una vita intera.
Non esiste la dolce morte, esiste il travaglio della morte. Da un travaglio siamo emersi alla luce, da un travaglio ci congediamo da essa. Le scorciatoie non sono possibili.
Così mi è successo che nel vialetto principale del cimitero di Barcellona, con un mare ottobrino all’orizzonte che era un piacere per gli occhi e per l’anima, una lapide cattura la mia attenzione.
“Dove vai, pellegrino? Fermati un istante e recita una preghiera per me! La vita mi è sfuggita proprio quando pensavo di aver colto il suo magnifico pulsare tra le onde del mare. La mia anima è volata via sulle ali di un gabbiano, come è successo al tuo amico a Lampedusa, ricordi? L’eco dei tuoi versi è giunto fino a me e ho percepito la disperazione e nel contempo l’estrema accettazione di un destino!
Come cantavano quei versi… aspetta… ecco, non voglio pronunciare il nome del tuo amico, lasciamolo in pace… ecco ricordo…

venne a galla nel sole di Agosto
senza aver più bisogno di un respiro.
La sua anima, azzurra, traversò
gli ultimi metri, veloce, e volò
sulle candide ali di un gabbiano.
La gente dice che fu un incosciente,
ma il suo labbro sereno sull’onda
solo a me sussurrò da lontano
che era quella la morte che amava.

Bravo coscritto! Come vedi anch’io sono del ’49. Le parole, quando sono scelte con la forza dell’animo e la sensibilità dell’artista, smuovono le corde giuste e arrivano al cuore!
E quello che tu hai scritto è per me come una preghiera e un inno di ringraziamento allo stesso tempo.
Perciò, fermati un istante, raccogli i tuoi pensieri e racconta la mia storia! Che essa vaghi per il mondo e mi regali ancora un’eco di quell’esistenza che è durata troppo poco, ma quanto magnifica, quanto ricca di emozioni!”
Stando in silenzio accanto a quella tomba, percepii le parole che quel giovane amante del mare mi aveva fatto pervenire attraverso le segrete vie che, invisibili, legano i fili di due destini cui è stata regalata l’avventura di una vita.
Una piccola lapide era stata messa all’inizio della penisola di Milazzo, là dove la sabbia cede il posto alla scogliera e si aprono sui fondali mondi di assoluta bellezza e mistero.
La lapide voleva essere un monito per tutti coloro che cercavano sui fondali la propria anima marina.
Ma nessuno, oltre a una veloce preghiera, si soffermava a prendere coscienza dei pericoli. Essi erano dappertutto, come spie invisibili attentano alla sicurezza dei viventi e fanno festa quando i loro tentativi hanno successo.
Ma non hanno mai fermato nessuno!
Soprattutto quando si è giovani un’aura di immortalità avvolge i cuori e tutto diventa possibile.
Perché rinunciare? Perché non provare? Perché non sentirsi, per una volta, al di sopra delle predizioni, delle fattucchiere e dei profeti? Perché chiudere il proprio animo dentro la prigione delle paure e dei limiti?
Sì, mi ero ricordato di quella lapide di granito e allora cercai di ricreare con le parole tutto ciò che un giovane può provare negli abissi del mare.
Perché anch’io l’ho vissuto, perché anch’io ho esultato, perché anch’io ho sentito giungere l’oblio e il senso di abbandono e di morte.
Un giorno un vecchio pescatore mi disse:
– Ma perché scendi sott’acqua? Non è umano, non è giusto andare a disturbare i pesci nelle loro tane! Tu sei un uomo e non respiri acqua! Vieni con me in barca! È da lì che bisogna pescare oppure dalla riva, come fanno tutti i cristiani! –
Ma a me, a noi due, non piaceva, dissi dentro di me rivolgendomi alla foto di quel giovane che aveva liquefatto la sua anima sui fondali di capo Milazzo.
Sotto il velo delle acque mondi nuovi e meravigliosi si aprono inondati d’azzurro marino.
Dove è possibile galleggiare in una bolla iridescente di cristallo e fluttuare come nel vuoto cosmico se non tra le pieghe del mare, di questo grande padre e madre che ti circonda, ti circoncide, ti allevia e ti ridimensiona, ti fa raccogliere in te stesso e ti solleva al di sopra dei limiti, delle incomprensioni e delle ingiustizie del mondo?
“Tu ed io lo abbiamo capito! Vero? Abbiamo avuto il privilegio di sfiorare l’impossibile, di affacciarci alla porta di un’altra dimensione e restarne affascinati e abbagliati! Ma tu non sei tornato indietro e la tua anima è diventata azzurra e incontaminata! Chi è il fortunato tra noi due?”
Quante volte sono tornato indietro e non ho poi provato dentro di me la gioia del ritorno, quell’ansia indicibile che anela al mondo, che si attorciglia al ramo e poi al fusto, per avvinghiarsi alfine alle radici!
A Lampedusa un giorno lontano del 1978 penetrai in una grotta subacquea in apnea.
Si diceva che si sarebbe emersi nelle viscere della costa nord dell’isola, in una bolla d’aria dove da una piccola sorgente sgorgava acqua dolce.
Per un’isola povera d’acqua, perché le sue falde acquifere si erano prosciugate o si erano inabissate quando le sue foreste erano state distrutte completamente dalla mano dell’uomo, quell’angolino segreto era una ottava meraviglia del mondo.
Mentre mi accingevo a ritornare in superficie fui attirato dal classico rumore che fanno le cicale di mare e proprio dentro una tana nei pressi dell’entrata della grotta c’erano due cicale che facevano come un suono di nacchere.
Mi avvicinai curioso, ma già il diaframma mi avvertiva che era ora di risalire nel mio mondo. Il segnale d’allarme era scattato ed io non potevo ignorarlo.
Volsi gli occhi verso quei due esseri straordinari e cominciai a pinneggiare per risalire.
Il velo dell’acqua era lì che splendeva ai raggi del sole, ma improvvisamente qualcosa mi frenò.
La sagola del mio palloncino segnasub era rimasta incastrata nel falso corallo rosso che ornava uno spuntone della grotta.
In questi casi basta prendere il coltello subacqueo e tagliare la sagola per recuperarla dopo.
Sono i particolari che segnano il confine tra la vita e la morte in un ambiente estraneo.
Ma il coltello quel giorno lo avevo lasciato in barca, non lo avevo fissato alla mia gamba o al cinturone dei pesi per la troppa fretta di tuffarmi in acqua e trovare l’apertura di quella grotta segreta lì nella costa nord dell’isola di Lampedusa vicino alla punta Alaimo.
Rifeci la capovolta a mezz’acqua e andai a liberare dal corallo matto la sagola, stando attento a non fare gesti forzati.
A quel tempo non ero uno sprovveduto. Avevo già frequentato un corso subacqueo che era durato un anno, i corsi della FIPS, difficilissimi da superare perché facevano acquisire un’acquaticità invidiabile.
Il mio autocontrollo sott’acqua era migliorato moltissimo e in ogni momento ero consapevole dei pericoli che stavo correndo.
Il mio diaframma continuava a mandarmi segnali di allarme ed io mi resi conto che negli ultimi metri al mio cervello non sarebbe più arrivato ossigeno e sarei andato in sincope.
D’improvviso quella sfera di cristallo, che mi aveva accolto con grande naturalezza e disponibilità, si stava ora trasformando in un tunnel di trasparente sopravvivenza dentro cui io dovevo dosare le mie forze e ricorrere a tutte le nozioni che avevo assimilato e a tutti quei consigli che la mia esperienza stava mettendo a mia disposizione.
Così, dopo aver liberato la sagola, resi il ritmo della falcata della mia pinneggiata verso l’alto più lenta e più fluida.
Non mi feci prendere dall’ansia dell’aria anche se il mio diaframma urlava ormai l’urgenza di rifornire d’ossigeno tutte le mie fibre.
Intanto sganciai la cintura e smisi di pinneggiare.
Il punto critico era lassù, anche a pochi palmi dal mio “mondo”, che mi aspettava a braccia aperte, ma con l’ansia della madre che vede materializzarsi il pericolo per il figlio incosciente, che si era avviato per i sentieri dell’impossibile.
A tradimento poteva arrivare la sincope, e tenni desta la mia mano.
Quando sentii che gli occhi cominciavano a chiudersi come comandati a un sonno mortale da un ipnotizzatore, diedi un’ultima spinta con le pinne e appena la mia testa emerse dall’acqua la mia mano destra scattò per darmi un forte schiaffo.
Gli occhi assopiti si aprirono, un lampo traversò la mia mente e la bocca che aveva mollato il boccaglio alfine si aprì per una vitale e dolorosa sorsata d’aria.
Mi adagiai sull’onda per riprendere le forze, il sole ferì i miei occhi e la vita riprese il suo ritmo naturale e normale.
Ero tornato uomo, ma perché piansi allora?
Il perché tu lo sai benissimo, che mi sorridi da quella foto da lapide.
Quella volta conquistai la superficie oppure mi arresi alla mia natura umana?
Non ero forse ancora pronto a entrare in confidenza col grande padre mare.
“I particolari, uomo! Attento ai particolari!” sentivo una voce penetrare nella mia mente.
In effetti quel giorno tanti particolari erano venuti a mancare. Il coltello, ad esempio, la distrazione con le cicale mentre ero in risalita, il mancato sgancio della cintura con la sagola quando mi ero accorto che era rimasta avvinghiata al corallo matto.
Davanti alla tomba di quel giovane, venuto a mancare nel 1970 sui fondali di Milazzo negli anni in cui le cernie si mettevano a candela a osservare sbigottite quell’essere strano e nero che era appeso lassù come un lampione di altri tempi, telepaticamente ho sentito quello che era successo quel lontano giorno degli anni meravigliosi dell’apnea siciliana nei primi anni ’70.
Non era facile allora lasciare la spiaggia gremita di amici e di amiche in bikini sempre più ridotti.
Il mare veniva goduto nei primi venti metri, dove il fondale era appena di due metri circa e si poteva subito guadagnare la riva con poche sgambate più o meno composte.
Sui materassini si giocavano le voglie dei giovani, ci si sfiorava, ci si toccava, si andava a fondo per cercare di intravvedere le gambe delle ragazze e qualcosa in più.
Era tutto un tramestio e un ingorgo pazzesco che lasciava senza fiato e poi si aveva bisogno di recuperare le forze sdraiati sugli asciugamani come tanti manichini dimenticati.
Lui invece andava al largo a seguire l’andamento del fondale con la maschera nuova che aveva trovato in un bel negozio di articoli sportivi a due passi dall’Università di Messina.
Le riviste del “Subacqueo” erano stati i suoi maestri perché a Barcellona non esisteva una scuola per l’apnea o per l’uso delle bombole per andare sott’acqua.
E la costa del promontorio di Milazzo, a partire dal Tono fin sotto l’eremo di S. Antonio e poi ancora fino alla falsa torre saracena e ancora fino allo scoglio del “Carciofo”, così denominato per gli spuntoni di roccia scolpiti dal mare, era stata la sua palestra.
Proprio lì davanti allo scoglio la piscina di Venere apriva le sue braccia al mare che si incaricava di cambiare l’acqua a ogni sommovimento delle onde.
E poi ancora verso est, doppiato il capo, fin dove una spiaggia solitaria accoglieva gli amanti del mare.
Ma soprattutto la secca di Ponente. Quella grande, meravigliosa, vivificante mammella del mare di Milazzo.
Si eleva da un fondale profondo circa 80 metri e si protende verso la superficie fermandosi a 8 metri dallo specchio azzurro, come se volesse mantenere nascosti i suoi tesori e i suoi segreti.
Di quella secca ho le coordinate dei pescatori, ma non voglio rivelarle perché deve rimanere privilegio di pochi.
Su quella cima marina le correnti fanno a gara a cercare un poco di respiro, a raccontare le loro storie lontane e a regalare manciate di plancton che attirano i vari pesci del grande mare.
A ogni estate cernie curiose si impadroniscono delle tane lasciate libere e nugoli di gamberetti danzano nella riservatezza di grotte subacquee fiorite di corallo.
Lì impera il silenzio e l’incredibile attrattiva di un piacere solitario, come era quello di un apneista.
Chi può capire la magnificenza di uno spettacolo sottomarino, la sua varietà e la sottile e silente battaglia continua per la vita, le occhiate guardinghe, le pinneggiate curiose, le fughe improvvise, il bagliore e l’opulenza dei colori, il continuo stupore per un mondo negato ai più?
Probabilmente c’era insicurezza nei suoi rapporti con gli altri oppure un amore non corrisposto, e la discesa in apnea nelle profondità del mare gli dava la giusta sensazione della conoscenza dei suoi limiti.
L’acqua lo fasciava, lo accarezzava, lo accoglieva nel suo grembo e gli svelava i suoi segreti.
Lì gli abitanti, dopo un’iniziale sorpresa e un attimo di smarrimento, imparavano subito ad accettarlo e lo inserivano nella continua lotta per la vita.
Lì non c’erano trucchi, gli occhi guardavano negli occhi e ogni essere ricorreva alle astuzie note e conosciute.
Così quella magnifica cernia, che quel giorno si era messa a candela osservando la sagoma nera dell’apneista, quando realizzò di essere diventata una preda e non predatore, ricorse a ciò che la sua natura le aveva insegnato.
Si infilò nella sua tana, scelta apposta perché appena appena più ampia della sua mole, e stette in attesa.
In quei primi anni Settanta era ancora possibile sui fondali di Milazzo imbattersi in una grossa cernia che ti osservava curiosa con l’enorme bocca che filtrava l’acqua, la nera maculata livrea, e la coda che si muoveva per tenerla in equilibrio a mezz’acqua.

[continua]


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