13 racconti per serate noiose

di

Eugenio Felicori


Eugenio Felicori - 13 racconti per serate noiose
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 80 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-231-4

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2012


Nella presente raccolta di racconti eterogenei, Eugenio Felicori mette in luce la sua facilità di scrittura e la capacità di raccontare, spaziando tra vari generi letterari, eppure sempre magnetizzando l’attenzione del lettore…
Nel variegato percorso narrativo ritroviamo racconti dal sapore nostalgico, atmosfere surreali ed oniriche, componimenti pervasi da forti sentimenti, fino a risultare struggenti e anche qualche storiella divertente.

dalla prefazione di Massimo Barile


Prefazione

Nella presente raccolta di racconti eterogenei, Eugenio Felicori mette in luce la sua facilità di scrittura e la capacità di raccontare, spaziando tra vari generi letterari, eppure sempre magnetizzando l’attenzione del lettore.
Nel variegato percorso narrativo ritroviamo racconti dal sapore nostalgico, atmosfere surreali ed oniriche, componimenti pervasi da forti sentimenti, fino a risultare struggenti e anche qualche storiella divertente.
Il racconto intitolato “Le lucciole”, che apre la raccolta, risulta decisamente il più complesso e rappresenta una sorta di severa critica alla odierna società tecnologica, che pare aver dimenticato i valori fondamentali della vita e, soprattutto, la capacità d’amare.
Ecco allora che ritroviamo il protagonista, un uomo simbolico che è ormai assuefatto ad uno stile di vita dove domina il cinismo, la “visione pessimistica del futuro” ed il “rifiuto di coinvolgimenti sentimentali”, vittima anch’egli di un devastante attacco informatico che manda in tilt i sistemi di comunicazione, oltre ad una serie di attentati terroristici alle centrali nucleari: la paralisi totale scatena il caos, il panico e la violenza.
Il suo appartamento iper tecnologico è diventato una trappola, le comunicazioni sono interrotte, tutto ciò che è collegato al sistema non funziona ed è inutilizzabile: dall’ascensore al suo frigorifero con apertura codificata.
Non rimane che la fuga verso la vecchia casa dei suoi genitori, sull’Appennino Ligure: sarà proprio in quel luogo che riaprirà i suoi occhi, ritornerà alla mente il ricordo del primo innamoramento quando andava ad “acchiappare” le lucciole e quel “richiamo d’amore” indicherà la via della rinascita. Essere nuovamente capace d’amare sarà la luce salvifica.
Nel susseguirsi dei racconti ritroviamo il sentimento d’amore, che si fa struggente, tra due persone anziane, ormai costrette sulla sedia a rotelle, ma ancora capaci di trascorrere qualche ora insieme e lanciarsi sorrisi dietro i vetri di una finestra.
Nel racconto intitolato “L’Angelo”, v’è un riferimento all’eutanasia e alle numerose diatribe giuridiche, etiche e religiose che comporta: un angelo bianco che “prende fra le sue braccia” e vola verso il cielo è la visione che può rendere dolce anche la morte.
Non mancano alcuni racconti divertenti e divertiti come, ad esempio, il resoconto della nascita di un bambino che viene raccontata come in una sorta di sfratto forzato dalla “casa” dove il nascituro stava così bene; e ancora, nel racconto “La bottiglia del nonno”, che tende ad esorcizzare la morte, grazie ad una vecchia bottiglia di vino capace di tenere lontana la morte solo se “l’ultima bevuta” è la nostra.
La silloge di racconti, nel suo continuo dipanarsi grazie ad una costante creatività, nasce dalla fervida fantasia di Eugenio Felicori, che espande le numerose visioni narrative, giungendo nel profondo delle sue intenzioni, fino a sezionare le emozioni che hanno dato vita alla miscela letteraria: un lento inabissamento nelle pieghe recondite dell’esistenza.
Un salto acrobatico nel mistero della vita, nel significato autentico di ciò che significa vivere: tra rari lampi di gioia e numerose lacerazioni, inutili attese ed illusioni, sogni infranti ed impensabili eventi che possono cambiare il corso dell’esistenza.

Massimo Barile


13 racconti per serate noiose


Questo libriccino è di Ettore Eugenio
per quando sarà più grande


LE LUCCIOLE

«sono scomparse le lucciole» (P.P. Pasolini)

Fu alle 21.32 del 13 luglio di quell’anno così tristemente famoso che tutte insieme in tutta Europa le luci si spensero.
Le cronache raccontano che centinaia di migliaia di persone rimasero intrappolate e senza possibilità di soccorso negli ascensori e nelle metropolitane, i treni si fermarono in aperta campagna, gli aerei in volo furono costretti ad atterrare su piste non più illuminate e molti si schiantarono al suolo. L’acqua non arrivò più nelle abitazioni. Anche tutti i sistemi di comunicazione e quelli informatici cessarono di funzionare, mentre in preda al panico milioni di persone cercavano contemporaneamente ma inutilmente di comunicare.
Michele aveva appena imboccato corso Buenos Aires quando le luci nelle strade, nelle vetrine dei negozi, nei bar, nei ristoranti, nei cinema, nelle abitazioni, tutte si spensero inesorabilmente.
Anche i semafori cessarono di funzionare e il traffico automobilistico, già normalmente caotico e indisciplinato, rallentò bruscamente fino a paralizzarsi, mentre gli automobilisti sfogavano la loro rabbia e la loro impotenza claksonando furiosamente e lanciando inutili insulti contro le auto che li precedevano.
“Ma porc…!” imprecò Michele, picchiando i pugni sul volante. Già era uscito dall’ufficio in ritardo per colpa delle “ansie uterine” del direttore marketing del suo più importante cliente, pieno di dubbi sulla campagna pubblicitaria che gli aveva proposto e ora anche questo blocco.
E l’appuntamento con Giovanna era per le nove e mezza!
L’unica serata di relax (non più di una volta la settimana) che riuscivano a concedersi, in una vita troppo piena di impegni, dove anche la partita di golf, il sarto, la palestra, l’estetista, i vernissage, i cocktails, le cene erano parte integrante e irrinunciabile del loro lavoro.
Aveva prenotato un tavolo al Nobu dello Spazio Armani: sushi e champagne francese, cassata ricoperta di caldo cioccolato maya, una sniffatina (meglio due, ma di ottima qualità, così non fa male) e poi… Una seratina da ricordare, insomma, almeno fino alla prossima, ma solo fra una settimana, se tutto andava bene.
Afferrò il videotelefonino per avvertire Giovanna del ritardo. Sullo schermo gli apparve l’immagine registrata dell’ultima telefonata con lei: “Guarda, non ho le mutandine…” gli aveva sussurrato maliziosamente. Provò ripetutamente a chiamarla, ma senza risultato.
Tutte le comunicazioni erano interrotte. Accese la radio per cercare di avere notizie, fece la scansione di tutte le frequenze disponibili ma l’apparecchio restò muto. Notò che anche il suo fedele GPS aveva smesso di funzionare.
Spense il motore e uscì dall’auto. Il caldo umido e opprimente che gravava sulla città l’avvolse.
Incominciò a sudare rabbiosamente; si tolse la giacca e la cravatta, ma ben presto anche la camicia fu totalmente inzuppata. L’aria già normalmente inquinata era diventata irrespirabile.
“Spegnete almeno i motori!” urlò agli altri automobilisti, ma senza risultato.
Dai bar, dai ristoranti, dai negozi, dalle case le persone si riversavano preoccupate nella strada, interrogandosi l’un l’altra su cosa stesse succedendo. Il lancinante quanto inutile urlo delle sirene delle autoambulanze e dei mezzi dei Vigili del Fuoco intrappolati nel traffico completamente bloccato sovrastava le loro voci e acuiva lo stato di sgomento generale.
Due elicotteri della Polizia sorvolarono a bassa quota il corso illuminando con la luce accecante e azzurrognola dei loro fari quella folla impaurita e scomparvero dietro il grattacielo Pirelli.
Col passaparola incominciarono a diffondersi le prime notizie. Si parlava di attentati terroristici simultanei a centrali nucleari, di nubi radioattive che avrebbero presto avvolto la città. Improvvisamente si udì un enorme boato provenire dall’aeroporto di Linate e fu chiaro che anche là stava succedendo qualcosa di molto grave.
Ai più fu chiaro che era inutile e forse pericoloso continuare a rimanere in strada. Meglio abbandonare l’auto, dirigersi a piedi verso casa e cercare di riunirsi con i propri famigliari.
Michele non abitava lontano. Un appartamento al 18° piano in piazza della Repubblica. Come gli altri si incamminò, ma per la prima volta nella sua vita si sentì solo. Non aveva nessuno da cercare e nessuno l’aspettava a casa.
Per scelta aveva sempre rifiutato qualsiasi coinvolgimento sentimentale. Gli piaceva Giovanna perché condivideva il suo stesso cinismo nei confronti della vita e la stessa visione pessimistica sul futuro. D’altro canto con il petrolio a 120 dollari il barile, un terrorismo integralista scatenato con cui oramai l’Occidente si era rassegnato a convivere, le inarrestabili “invasioni barbariche” di tanti, troppi disperati della terra, la competizione selvaggia sui mercati, le ricorrenti crisi del sistema finanziario che gli Stati oramai faticavano a tamponare, l’inquinamento sempre crescente dell’aria e dell’acqua, meglio non pensare al futuro e cogliere solo i piaceri che ancora era possibile godere.
Paradossalmente il loro lavoro (Giovanna era conduttrice di reality show) consisteva nel continuare a proporre illusioni a una massa sempre più povera e indebitata, in modo da impedire che la ruota del consumismo si arrestasse. E in questo erano molto bravi e così potevano permettersi quei lussi e quei piaceri oramai preclusi ai più, anzi li divoravano con famelica ingordigia, spinti dalla consapevolezza che ogni giorno poteva essere l’ultimo.
Michele arrivò a casa. Era suo vanto abitare al 18° piano, anche quello un modo per sentirsi sopra agli altri, ma ora, con i 360 gradini da salire e al buio per di più, maledisse quella scelta.
Al 10° piano sentì dei lamenti uscire dall’ascensore bloccato. Soffriva di claustrofobia e il pensiero che avrebbe potuto trovarsi in una situazione del genere lo terrorizzò. In preda ad un’ansia crescente si mise a correre su per le scale per allontanarsi il più possibile da quella presenza. Entrò finalmente nel suo appartamento, sfinito e fradicio di sudore.
Solo una luce malata e lontana entrava dalle vetrate. Michele si avvicinò alle finestre e vide che era la luna. Sembrava un bottone giallo rotto sul vestito nero e sporco della notte.
Ma aveva bisogno di più luce, perdio!
Andò in bagno e accese tutte le candele che circondavano la sua Jacuzzi, dove amava rilassarsi, ascoltando musica barocca, mentre l’acqua calda e profumata gli accarezzava, gorgogliando, il corpo.
Aveva disperatamente bisogno di un bagno. Si denudò ed entrò nella vasca, ma neppure una goccia d’acqua usciva dal rubinetto. Il bisogno di lavarsi si tramutò in ansia. E poi doveva bere assolutamente! La bocca era riarsa, la lingua impastata.
Comunque il frigorifero doveva essere pieno di bottiglie, ma, per quanti sforzi facesse, le porte di quel bastardo non si aprivano! E dire che era il suo gadget preferito, che mostrava con orgoglio agli amici. Non si trattava infatti di un normale frigorifero, ma di una vera e propria macchina intelligente, collegata via Internet col suo ufficio e con i fornitori per l’approvvigionamento, con le porte dei diversi scomparti che si aprivano solo con un telecomando.
Ora invece ci sarebbe voluta una spranga di ferro per scardinare il meccanismo!
L’ansia per un po’ d’acqua si trasformò in angoscia. Con gesti concitati entrò nel suo “sacrario”: la cantinetta dove custodiva gelosamente vini e champagne pregiati.
Stappò nervosamente alcune bottiglie di Dom Perignon e se le versò sulla testa. Ingollò alcune sorsate, ma trovò questa volta il sapore ripugnante. E poi aveva bisogno di aria!
Senza l’impianto di condizionamento, l’appartamento tutto a vetrate ermeticamente chiuse gli sembrò una vera e propria prigione di cristallo. Ma i meccanismi di apertura erano tutti elettrocomandati e non si era mai preoccupato di procurarsi la manovella per l’apertura di emergenza. In preda al panico da soffocamento afferrò una delle sue preziose sedie MacIntosh e incominciò a colpire furiosamente la vetrata, finché la sedia non gli si spezzò fra le mani.
Avvertì sulla mano il calore del suo sangue che usciva copiosamente dalla ferita procuratagli da una scheggia.
Si infilò un paio di pantaloni e si precipitò nel buio delle scale. Il suo amato e prezioso appartamento gli appariva ora come una trappola soffocante da cui bisognava solo fuggire.
Raggiunse l’atrio e si sentì subito meglio. Aria, sporca puzzolente e inquinata, ma pur sempre aria, finalmente.
“Meglio non uscire, dottore.” gli disse uno degli uomini addetti alla vigilanza del lussuoso condominio. Erano in due, come tutte le altre notti, ma ora indossavano giubbotti antiproiettile e imbracciavano mitragliatori Uzi con atteggiamento minaccioso.
“Fuori sta succedendo l’inferno!” disse uno dei guardiani.
“Tutti i bastardi di questa città, approfittando del buio, sono usciti dalle loro fogne. Assaltano e saccheggiano negozi e supermercati e non c’è nessuno a fermarli.”
“Entrano anche nelle case, rubano, stuprano, uccidono!”
“Spero che ci provino anche qui. Ho una voglia matta di stenderne qualcuno di quei porci!”
Una raffica di proiettili partì dall’Uzi contro l’asfittica magnolia che abbelliva l’ingresso. “Fatevi vedere, bastardi!” gridava l’uomo come invasato. “Se non fossi di servizio, sarebbe la notte giusta per andare a caccia. Bisogna fare pulizia! Ordine e pulizia! Non ho ragione, dottore?”
Michele annuì, offrì ai due uomini la dose di cocaina che aveva in tasca e chiese in cambio dell’acqua. Seduto sul marciapiede bevve avidamente. Si sentiva più tranquillo insieme a quegli uomini.
Non era una notte da passare da soli.
Finalmente arrivò l’alba a rischiarare la città di una luce livida e fumosa.
E con la luce incominciarono ad arrivare informazioni più certe su quanto stava accadendo. Con il passare delle ore, la gravità della situazione si andava sempre più delineando. In contemporanea agli attentati terroristici ad alcune centrali nucleari, un micidiale attacco informatico aveva messo fuori uso tutti i sistemi di telecomunicazione, di fatto paralizzando tutta l’Europa. Le città erano in preda alle violenze e ai saccheggi perpetrati dalle masse di emarginati.
In preda al panico ai più fu chiaro che la fuga dalla città era l’unica possibilità di salvezza, abbandonando i propri averi alla furia dei saccheggi.
Fiumi di automobili stracariche di persone e di oggetti preziosi dilagarono per tutte le strade in uscita da Milano, tutti mossi oramai solo da un cieco istinto di sopravvivenza.
Michele possedeva una casa sull’Appennino Ligure: un luogo sereno, ridente e ricco di acque, ma la casa era rimasta chiusa dal tempo della morte dei suoi genitori. Non era un posto alla moda, infatti, ma ora gli appariva come l’unico rifugio sicuro e possibile.
Recuperò la sua auto, verificò di avere carburante comunque sufficiente per raggiungere la località, rubò anche lui acqua e cibo da un negozio ancora non completamente svaligiato, e si unì a quella fiumana in fuga. Aveva studiato un percorso per vie secondarie, lungo vecchie strade provinciali; un tragitto più lungo ma con minori rischi di rimanere imbottigliato nel traffico. Dopo tre ore di marcia finalmente l’auto abbandonò la pianura. La strada incominciava a salire; man mano l’aria diventava piacevolmente più fresca, il cielo più terso, il verde dei prati e degli alberi più intenso.
In vista di R… l’auto fece alcuni sobbalzi e poi si fermò. La benzina era finita, ma Michele non si perse d’animo. Se ancora ricordava bene, conveniva abbandonare la strada provinciale, scendere per i campi fino al vecchio mulino e di là risalire per l’antico sentiero che, costeggiando il torrente, conduceva fino alla sua casa.
Mise lo zaino con le poche provviste in spalla e s’incamminò. Ce l’avrebbe fatta ad arrivare prima dell’imbrunire. Di fronte a lui si ergeva il verde profilo dei Monti, simile a un gigantesco dinosauro addormentato, e Michele si stupì come per tanto tempo avesse potuto dimenticare e stare lontano da tanta bellezza. Si sentì pervadere da nuova energia e s’incamminò fra l’erba alta dei campi in direzione del torrente. Aggirata la rupe su cui ancora svettava l’antica torre di avvistamento, intravide in basso una famiglia di cinghiali che andava ad abbeverarsi al torrente. Si fermò a guardarli stupito, ma anche impaurito da quella presenza per lui così estranea.
Riuscì a ritrovare, anche se sbiaditi dal tempo, i segni di colore bianco e rosso che indicavano il sentiero. Rassicurato, accelerò il passo.
Dopo circa due ore di cammino, raggiunse il poggio su cui sorgeva la casa.
Finalmente…, ma un’amara sorpresa l’attendeva.
La porta era stata abbattuta, vetri rotti delle finestre dappertutto. L’interno era stato spogliato di gran parte dei mobili. Il pavimento ingombro di cartacce, vasellame e suppellettili distrutti con cieca furia, escrementi. Le mura annerite indicavano chiaramente che erano stati accesi dei fuochi all’interno. Anche il piano superiore era stato devastato. Magicamente intatto era rimasto solo quello che Michele chiamava il museo: la raccolta, amorevolmente curata da suo padre, di attrezzi e oggetti che testimoniavano il duro lavoro di un tempo nei campi e nei boschi, quasi che i vandali ne avessero avuto un sacro rispetto.
Era oramai buio. Michele affranto uscì dalla casa e facendosi largo fra l’erba alta che quasi gli arrivava alla vita, attraversò il vecchio frutteto, oramai esangue per gli anni di incuria, cercando nel campo retrostante la panchina che da ragazzo aveva costruito con suo padre, di fronte a una piccola Maestà devozionale. La ritrovò e lì si sedette distrutto dalle emozioni della notte precedente, dalla fatica del lungo viaggio e dall’amara sorpresa dello scempio subito dalla sua casa.
Anche quello che aveva creduto il suo rifugio sicuro, l’ancora di salvezza dallo sfacelo in cui il suo mondo sembrava stesse precipitando, non c’era più.
Ma in fondo era tutta colpa sua. Anche i luoghi, come le persone, richiedono cure e attenzioni.
Il campo oramai era totalmente immerso nel buio. La luna, nascosta dal monte, sarebbe apparsa solo molto più tardi. Dal bosco alle sue spalle proveniva il canto monotono di un uccello notturno.
Gli parve di intravedere non distante, fra l’erba alta, correre un animale, un tasso o una volpe, forse. Michele si sdraiò sulla panchina, cercando di addormentarsi. Meglio aspettare l’arrivo della luce della luna prima di muoversi. Quel buio così assoluto, cui non era abituato, lo terrorizzava.
Improvvisamente nel bosco di lecci ai margini del campo intravide piccole fiammelle che si muovevano rapide e leggere fra i tronchi degli alberi.
Dapprima rade, crescevano di numero a vista d’occhio fino a quando tutto il bosco non ne fu pieno. Poi tutte insieme, come ad un segnale convenuto, lasciarono la protezione degli alberi e come un fiume di luce dilagarono fra l’erba alta del campo, sempre più avanti, sempre più avanti, fino a circondare Michele.
Erano lucciole!
Centinaia di lucciole che danzavano leggiadre e silenziose nell’aria ancora calda della notte.
La presenza di quelle minuscole magiche fiammelle rasserenò Michele.
Quando era bambino, dopo che la mamma, datogli il bacio della buonanotte, spegneva la luce della sua cameretta, scopriva la sua lanterna meravigliosa (un bicchierino di plastica dove aveva catturato alcuni di quei luminosi insetti). Quella luce giallognola e pulsante che illuminava le pareti della stanza, allontanava così tutte le sue paure e si addormentava sereno.
Poi gli venne in mente di quella notte di luglio con Stefania; i loro corpi sdraiati sul fieno tagliato di fresco, profumato e ancora caldo.
Dei vecchi amici di Lucca erano venuti a far visita ai suoi genitori. Con loro anche la figlia tredicenne. Si chiacchierava sotto il portico, godendo della frescura della sera.
Suo padre aveva messo in tavola un grosso cocomero, tenuto in fresco dall’acqua corrente della fontanella, secondo l’uso contadino, e aveva stappato alcune bottiglie di un buon vino secco e frizzante.
Michele (aveva allora quattordici anni), mentre affondava con gusto la bocca nella polpa zuccherina e fresca del frutto, non distoglieva gli occhi dalla ragazzina.
Aveva uno sguardo mite e dolce, capelli biondi lisci e lunghi raccolti da un semplice elastico, occhi verdi, bellissimi. Neppure un filo di trucco. Dietro al semplice vestito a fiorellini, largo in vita, si indovinavano due seni ancora piccoli ma già prorompenti.
Anche allora le lucciole avevano invaso il campo dietro al frutteto e Stefania, fino allora silenziosa, aveva manifestato la sua meraviglia.
“Vuoi venire con me?” le aveva detto Michele “Io vado ad acchiappare le lucciole.” Senza aspettare una risposta, aveva preso la ragazza per mano e l’aveva accompagnata nel campo.
I due giovani correvano avanti e indietro cercando di catturare i luminosi insetti.
Ridevano eccitati dal gioco.
“Michele, guardami!” gli aveva detto Stefania, mentre le lucciole, liberate dalla presa della sua mano, le illuminavano il viso.
“Fammi vedere ancora una volta quanto sei bella!” e Michele aveva ripetuto il gioco.
Poi si erano sdraiati sul fieno caldo, solo le lucciole e le stelle sopra di loro.
“Lo sai che la loro luce è un richiamo d’amore?” gli aveva detto la ragazza.
Michele non le aveva risposto, ma col braccio l’aveva attirata dolcemente a sé.
Stefania aveva allora appoggiato il capo sulla sua spalla e così erano rimasti a lungo, in silenzio, assaporando l’eccitazione di quella dolce e per loro sconosciuta intimità.
Poi, mentre si alzavano per ritornare, richiamati dalle voci dei genitori, le loro bocche si erano sfiorate in un fuggevole bacio.
A quel ricordo Michele pensò tristemente che quella era stata la prima, ma anche l’unica volta che era stato veramente innamorato.
Che emozioni e che stravolgimenti del cuore in quella lontana estate!
Ma in seguito l’ambizione, la competizione, la conquista, il soddisfacimento dei piaceri e non più i sentimenti e le emozioni dell’anima avevano guidato il suo comportamento.
In quel momento Michele finalmente capì!
Senza più timore, si sdraiò fra l’erba alta e abbracciò la terra ancora calda sotto di lui.
Quella era la strada della rinascita: essere nuovamente capace di amare!
Amare una donna e i suoi figli, curarli e proteggerli.
Amare la natura e adeguarsi ai suoi tempi.
Avere fede nel futuro, sempre.
E non avere paura, mai!
Quanti anni ed energie aveva disperso!
Ma era ancora in tempo…
Domani per Michele sarebbe stato veramente un altro giorno!

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine