L’acqua bruciata racconti in versi

di

Fabio Squeo


Fabio Squeo - L’acqua bruciata racconti in versi
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 58 - Euro 8,30
ISBN 978-88-6587-8347

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In copertina: «L’acqua bruciata» illustrazione di Ireneusz Andrzej Marciszuk


Prefazione
La dignità della lentezza. Per una lettura mediata

di Danilo Serra


«Rivendicate la lentezza: nel nostro mondo a tutto vapore, è un diritto delizioso di cui siamo stati privati»

Jean-Pierre Siméon

L’uomo e la sua esistenza, il soggetto e la sua vita. Una vita carica d’impressioni e significati. È un gioco incandescente l’esistere (ex-sistere), un esporsi ai rischi più assoluti, un porsi innanzi alle insidie emergenti, all’implacabile durezza dell’avvenire.
I racconti di Fabio Squeo colpiscono per intensità e carattere. È impossibile leggerli sommariamente, d’un fiato. I racconti reclamano lentezza, richiedono applicazione. Pacatamente vanno accolti e assaporati, verso dopo verso, sorso dopo sorso, come un fresco calice di vino bianco. Niente è più lento della lettura. Leggere, infatti, è uno sforzo continuo che attiva il lettore e lo induce a riflettere, quasi costringendolo, trasportandolo alla volta di una nuova e nobile dimensione. La lettura reprime la logica della fretta, chiama e raduna il tempo. La velocità – imprescindibile fattore del nostro tempo – non è qui tollerata; è anzi del tutto inefficiente e fuorviante. C’è un compito precipuo che appartiene all’uomo impegnato nella sacra arte della scrittura: creare interesse. Creare interesse vuole dire in senso proprio “stimolare”, “provocare”, “pungolare”, “destare” il lettore, suscitando in lui attenzione e coinvolgimento. È questa, in fondo, la grande responsabilità di chi scrive. Coinvolgere è nient’altro che attrarre a sé, abbracciare, stringere. Chi scrive, perciò, non è mai solo: è lui in irruente compagnia di chi stringe. Uno scrittore, indipendentemente dal freddo numero di copie vendute, compie in ogni parola scritta un sacrificio. Egli sacrifica sé, la propria individualità, il proprio «segreto», mettendo in comune aspetti intimi ed interiori con lo scopo di colpire l’altro (il lettore), dimorando in lui come il più autentico degli ospiti. In tal modo, tra i due si istaura una dialettica, una fitta relazione che ha successo soltanto se essi si comprendono. L’uno e l’altro, lo scrittore e il lettore, necessitano di tenersi per mano e dunque di prendersi per comprendersi. Nessuna fretta: per intendersi c’è bisogno di tempo – l’intendimento è proprio una forma di lentezza che incanta.
L’acqua bruciata è un’opera che, nella pluralità dei suoi singoli personaggi, pone in risalto un reale protagonista universale. Pur trattandosi di una variegata raccolta di narrazioni, in essa emerge un uomo radicato nel mondo – quello che l’autore ama definire «l’uomo dell’esistenza» – impegnato a vivere la commedia (la farsa) della vita. Una commedia intessuta di tribolazioni e paradossi «che stanca / nella serietà / nella comicità / nella passione / nella perversione». L’uomo dell’esistenza prova fatica per le incessanti pressioni della vita («l’accadere della vita») e per i naturali acciacchi che impressionano il proprio corpo. È l’uomo «stanco e sudato» sottoposto al «vociare insulso della gentaglia». Ma è sempre in questa drammatica pantomima che, dopotutto, si ha il coraggio di stare in piedi e di resistere ai colpi e al peso dell’esistere. L’uomo di Squeo è l’impavido viandante che sopravvive al chiacchiericcio della folla, è la tenace creatura che non s’arresta dinanzi a «lividi di gelo»; combatte e resiste, affidandosi talvolta alla solitudine, affondando nell’oscura e inafferrabile bellezza dei sogni. Le pagine sono pura esaltazione e, ancor di più, riflessioni che celebrano il prestigio della Poesia, insigne arte quasi obliata nella balorda età dello smartphone, l’epoca del nascondimento dello sguardo. Nondimeno – son sicuro! – verrà un tempo in cui la Poesia ritornerà a farci innamorare. In lontananza avvertiamo già gli struggenti richiami di Goethe e Rilke; l’incantevole eco delle Elegie duinesi rimbomba accomodante nelle nostre orecchie incuranti. Lontana e vicina, distante e prossima: la bellezza è dietro l’angolo, è già in cammino. Come l’uomo celebrato da Squeo, l’homo viator sempre in viaggio sulla terra e nella vita, spazi labili del suo destino dov’egli procede secondo le sue scelte ed intenzioni verso la vita o verso la morte. È il pellegrino per essenza e per vocazione che prega e supplica per la sua ineffabile sorte. L’uomo storico è il protagonista di queste pagine, l’individuo che Lucien Febvre – tra i fondatori della École des Annales – indica con la sentenza: «L’uomo, misura della storia, sua unica misura. Più ancora, la sua ragione di essere1».

«Gli uomini, soli oggetti della storia – di una storia che non s’interessa a non so quale uomo astratto, eterno, in fondo immutabile e in perpetuo identico a se stesso – gli uomini colti sempre nel quadro delle società di cui sono membri. Gli uomini membri di queste società in un’epoca ben determinata del loro sviluppo – gli uomini dotati di funzioni molteplici, di attività diverse, di preoccupazioni e attitudini varie, che tutte si mescolano fra loro, si urtano, si contraddicono, finendo per concludere una pace di compromesso, un modus vivendi che si chiama la Vita2».

I racconti lentamente scorrono davanti ai nostri occhi in tutta la loro inaudita potenza e profondità. Sono flussi esistenziali, limpide linfe che sgorgano da rocce e da terreni avvallati, profondi. Squeo è l’interprete che traduce in poesia «i lamenti, le rivelazioni e i drammi della vita». Egli scava con pazienza nel sottosuolo del linguaggio rintracciando le parole desiderate. I racconti sono così impreziositi da questo estenuante lavoro di scavo e sterramento. Le parole ricercate sono ben calibrate dacché hanno un senso straordinario capace di rendere l’intera lettura dignitosa e ricolma d’interesse. A patto che si rispetti una civile regola non scritta: la già citata legge della lentezza.


1 FEBVRE L., Combats pour l’histoire, Parigi 1953, p. 103.

2 Ivi, pp. 20-21.


Presentazione

Con queste brevi narrazioni sentivo di non aver più segreti; sentivo di aver rivelato al mondo una verità insuperabile della condizione umana.
L’acqua bruciata è una raccolta di brevi racconti in versi che, pur nella loro diversità, risultano accomunati dal tema della solitudine, della malinconia e della nostalgia. Sentimenti, questi, spesso travisati e mal interpretati. L’acqua brucia quando le interpretazioni si fanno linguaggi di verità, quando la stramberia prevale sul dramma, il riso beffardo sull’intelligenza. L’acqua bruciata è nel volto del Clown, emozionato prima delle sue lectio magistralis.
I racconti danno la sensazione di avere a che fare con un’esistenza ridotta a intuizione, a carattere gratuito e assurdo di tutti gli aspetti del reale. I racconti si possono intendere non solo come semplici monologhi autobiografici, ma come flussi esistenziali laddove è la vita a parlare attraverso il dramma interiore dei personaggi. I singoli personaggi dei singoli episodi dicono della vita come luogo bizzarro, attività circense e paradossale. La vita non è solo quella che tocchiamo, ma quella che sentiamo; quella vita che percepiamo come nostra quando invece non lo è mai stata. Il sorriso beffardo della vita brucia le acque del Pantha rei, e la vertigine interiore paralizza l’uomo della solitudine, del sentimento: l’uomo dell’esistenza. Questo accade perché la vita è solitudine, malinconia, perdita. Questi, sono aspetti della vita, aspetti esistenziali che implicano comunque la vita come vita altra e vita sempre nuova. Come sfuggire a questa vertigine? Occorre consacrarsi all’arte, alla parola, al pensiero; occorre raccontare prima che il mal di mare faccia di noi acqua gelida da bruciare.

L’autore


L’acqua bruciata racconti in versi


L’accadere della vita come un cadere per ricominciare

Non puoi mentire
sul letto di un fiume
che ti guarda mentre
sogni.
La vita scorre,
e scorrendo
travolge
i mantelli
i cappelli
e gli alamari.

I sole scolora
i blu jeans
e gli anni
si vedono arrivare.

Non c’è essere
alcuno che non si senta arrivare.

Non ci sono partenze
solo viaggi in luna di miele.
Eppure, non sai di essere nata:
di sopravvivere, sì.

Non sai di toccare
quelle acque dolciastre
vagabonde
inafferrabili
e fulgide;

Quelle acque
sono cristalli roventi
appoggiati
come suppellettili
sul dorso dei giornali
e dei predatori senza
fissa dimora.

Cristalli gentilizi
che si muovono
per forza di cose.
Ma il fine dell’uomo
è nel suo vedersi accadere,
trastullarsi
e predicarsi
nell’incessante
superamento delle azioni
di estrema misericordia.

Il suo fine è un perenne
tentativo
di lasciare ai posteri
il suo esaurimento:

tracce di una vita
consumata a ridosso
delle sue scarpe
incenerite.

Non puoi mentire
perché i genitori
ti han detto
di non apprender menzogne.

Ma tu dici di non mentire
e poi decidi di farlo,
menti agli altri,
menti a te stessa pur sapendo di mentire.

Questo perché sarai
– nella paura di una tormenta di neve –
valutata per ciò che
non hai realizzato.

Non hai realizzato palazzi
metropolitane
e purgatori.

Ma sarai giudicata
pei i trofei degli entusiasmi
e delle responsabilità:
trofei onorari
conseguiti nei brillanti dipartimenti
delle strade.

Ma non arrenderti,
sta’ tranquilla,

vi è pur sempre un fine nella vita
che non coincide
con la verità
con la realtà
con la fine
della agognata umanità.

Tu non hai preoccupazioni
perché sei convinta che non morirai.
La tua vita non solo si condensa
di eventi bizzarri
ma ti permette di imboccare
gli anziani ammalati,
raccogliere il bastone di chi
non può abbassarsi.

E quando morirai,
ricorda le mie parole
come se non fossero più verità.
La vita ti donerà il passato,
ma non il suo domani.

E se la stuzzichi,
neanche quello riceverai.

La nascita sarà così un evento
ormai lontano e finito,

mentre tu
comincerai a respirare.


L’indifferenza della vita al di là del sopraggiungere della sera

Le luci dei lampioni
non vedono l’ora
di sorriderti, Bernadette.

Così hai deciso
di cristallizzare
i tuoi giorni felici
sopra una nuvola di neve.

La montagna è la tua unica isola,
gli alberi
le stelle
e i fiordalisi
sono gli affabili angeli custodi.

Andare a spasso con gli usignoli
e scaldare le loro uova
è il primo pensiero alla mattina.

Ma la tua vita
è spensierata,
gioiosa
non conosce difficoltà.
Gli occhi azzurri non conoscono
dispiaceri:

piangono solo per la gioia.

Saltelli fra i covoni
urli a squarciagola
come se il mondo
non dovesse sentirti
e tu non volessi ascoltarlo.
La tua vita
vuole soltanto vivere,

esistere di presenti soleggiati
e di spiagge libere.

Ma la sera,
non tarda a sopraggiungere.
E mentre il sole annuncia
il suo addio oltre i monti
il paesaggio si tinge di colori
nottilucenti mozzafiato.

Bernadette è sola,

il buio della notte
le ha portato in dono
il tremore della malinconia.

I suoi occhi temono il buio.
Il luccichio delle stelle lontane
non domerà le sue inquietudini.

L’allegagione dei frutti
nella valle verde
è alle porte:

Bernadette
corre lungo i filari della vite;
stacca ogni tanto
qualche acino ben maturo.

Il frutto è invitante e dolce
e la dolcezza del frutto
la fortifica nelle scelte,
nella vitalità.

La vitalità non è della vita

ma per la vita.
Esistere è sperimentare,
toccare, gustare, vivere.
Siamo noi che ci diamo la vita
quando la vita ce la toglie.

Ma Bernadette
sa benissimo
che la vita
le è indifferente

e sa che prima o poi
un’altra sera scenderà,
un’altra notte sopraggiungerà.


[continua]


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