Comunque viva

di

Federica Roseano


Federica Roseano - Comunque viva
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 126 - Euro 10,00
ISBN 978-88-6037-7524

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Due donne come tante, che si perdono e poi ritrovano la via, che lottano contro la vita e per la vita stessa.
Rinasce dalle proprie ceneri Elisa, la protagonista; dopo tutto viva.
Preferisce morire Brigida, l’amica; in qualsiasi modo decida di vivere.


Oh fanciulla
che fai su quella porta
guardando da lontano a veder quella via?
Oh se sapeste!
Quando la fu morta
l’han portata di là
la mamma mia;
m’han detto
che di là deve ritornare
e son qui da quattr’anni ad aspettare.
Oh povera fanciulla!
Ma tu non sai
che i morti
al mondo
non ritornano mai?
Tornano al vaso i fiorellini miei,
tornano le stelle
…e tornerà anche lei.

(poesia popolare)


Comunque viva


1

Passeggio tra i carruggi.
Mi avvolgono muri di case, di sassi, d’un tempo. Sopra di me non il cielo ma ancora muri di case, di sassi, d’un tempo. Sotto a me sassi, di strade, d’un tempo.
La Liguria è fatta così; o meglio i suoi paeselli d’origine medievale sono fatti così. Anguste vie senza sole, alte case senza luce, emozionanti sottoportici color della notte. Esigua distanza dal mare: dalle terrazze più alte a volte lo vedi. Esigua distanza dal cielo: da lassù ti pare quasi di toccarlo.
Appoggio l’uno davanti all’altro i miei piedi stanchi che contano ogni ciottolo. Ai lati delle viuzze pietre di fiume, consumate dal peso delle anime e dalla corrente del vento. Al centro dei carruggi percorsi di mattoni rossi indicano la via, come sentieri nei sentieri. Mi sento Dorothy nel mondo di Oz ma sono sola; non ho compagni che proteggano il mio cammino, non uomini di latta, pavidi leoni o fragili spaventapasseri, né sogni da condividere. Il vento si insinua tra le vie; soffia e grida in quel mondo quasi sotterraneo, soffoca il vociare dei turisti ed il grido del mio dolore.
Dolcesale.
Sono scappata fin qui per dimenticare, come molte altre persone che fingono di vivere. Non conoscevo questi posti, se non per le rare cartoline che Gianni mi mandava. Eppure quando ho deciso di partire non ho avuto dubbi sulla meta del mio fuggire.
– Vieni quando vuoi – mi aveva sempre detto e scritto Gianni.
La Liguria mi è piaciuta subito, tanto che nelle prime due settimane di permanenza non ho fatto che ammirarne il paesaggio e respirarne il profumo, quasi dimentica del motivo per il quale avevo deciso di trasferirmi. La Liguria di Gianni è molto diversa dal mio Friuli: dai monti al mare solo pochi chilometri, dal cielo agli abissi basta uno sguardo. Le grandi città vivono di ciò che offre loro il blu del mare, mentre i piccoli centri medievali sopravvivono di ciò che offre la loro storia e dell’inventiva di quelle anime imprigionate tra i carruggi. Eppure a volte scopro trapiantati alcuni atteggiamenti: come ostriche verso i turisti, i liguri sembrano sempre indecisi tra il benedire la ricchezza che i forestieri portano e lo scansare coloro che minacciano a macchia d’olio le loro più antiche tradizioni. Portino pure i soldi ma si tengano la loro cultura! Sostino pure sul loro suolo, ma non abbastanza a lungo da contaminarlo! Penso ai centri più piccoli, a quei paesi che contano al massimo due migliaia di cuori, ai villaggi che sopravvivono a se stessi.
Anche il mio Nord Est è così: chiuso al resto del mondo, elitario rispetto a qualsiasi differenza. Non certo tutto il Nord Est, intendo il Nord Est che ho nel cuore, la mia provincia, il mio paese, le mie tradizioni. Il Nord est che ho nel sangue.
Ho nel sangue una più che sufficiente dose di buon senso, una discreta dose di spirito vivace e saggezza, alcuni densi decilitri di malinconia… qualche goccia di cinismo, un’ampolla rasa di equilibrio sempre pronta a strabordare, un’eccessiva componente di cioccolato, ma soprattutto ho nel sangue Villachiara.
Villachiara è il paese dove sono nata, dove i miei genitori si sono conosciuti, ritrovati e amati, il paese di nonna Alba, la più dolce anima che sia mai apparsa nei miei sogni. Solo un paese fatto d’aria, pensavo da adolescente, ma che ha inquinato i miei polmoni per la vita.
Villachiara è un paese che conta poco meno di quattrocento cuori al quale hanno tolto persino il sole da quando un centinaio di piloni di cemento ha il compito di sorreggere una strada provinciale che domina sul paese ma che nello stesso tempo ne scansa come la peste le case, i prati e persino i sorrisi.
Nel mio paese le persone si danno tutte del tu e la chiesa è stracolma quando viene a mancare qualcuno. Nel mio paese i giovani si contano sulle dita della mano e i vecchi nelle rughe dei monti.
Nel mio paese non c’è più nemmeno la scuola e c’è chi pensa persino di far chiudere la Posta. Nel mio paese ci sono due strade: la prima culmina con una galleria e si lascia alle spalle anni di guerre; l’altra corre in basso, quasi in soggezione… qui feste popolari, canti, processioni.
Il territorio è diviso in una ventina di frazioni dai nomi impronunciabili; ognuna un piccolo Rio Bo, minuscoli angoli di paradiso a volte raggiungibili solo dopo ore di camminata. Ogni frazione ha la sua piccola storia da tramandare: quella di Mariute, che fino ad ottant’anni ha percorso ogni giorno a piedi quel sentiero per raggiungere casa, in lotta perenne contro la vita e in cerca della solitudine come unico carburante vitale. O quella di Giuseppina, al secolo Suor Maria che, rifiutata da una madre troppo giovane per poterla amare, è stata cresciuta da zii tanto amorevoli quanto anziani. Lei e Tonio, amici d’infanzia, nei progetti delle rispettive famiglie avrebbero dovuto amarsi, ma uno scherzo del destino, o la cinica beffa di Colui che sa amare oltre tutto, li vede ora entrambi servi di Dio, parroco lui e suora francescana lei.
E ancora le cento storie dei canali più interni e isolati, dove ancora i figli danno del voi ai loro genitori, dove il sole batte per solo un mese all’anno ma con un’intensità tale da rendere aridi anche i cuori. Mondi così lontani dal centro della mia piccola Villachiara e così privi di esperienze mondane da diventare quasi paesi nei paesi, persino dialetti nei dialetti.
Nel mio paese si vive forse più di ricordi che di fatti e la storia degli avi sembra scolpita in quei ricordi più di quella dei nonni, quella dei nonni più di quella dei genitori, quella dei genitori più di quella dei figli.
Il mio paese è un posto che ho deciso di abbandonare ma che, paradossalmente, vive ogni giorno di più dentro di me, quinto elemento del mio DNA.
Dolcesale mi ricorda Villachiara. Perché non scappiamo mai fino in fondo; inconsciamente cerchiamo un luogo dove l’orizzonte non sia del tutto capovolto. Cerchiamo volti familiari, modi di vita coerenti con il modo in cui siamo cresciuti, scappiamo da noi stessi ma non sappiamo evitare di guardare con gli stessi occhi o di respirare con gli stessi polmoni.
– Non farti rapire dal primo che capita!
Mio padre è un tipo che non dice molto; pochi versi per trasmettere l’essenziale, lunghi silenzi come ermetici esempi di vita. Parla solo se interrogato e anche in questi casi le risposte risultano spesso laconiche. Spesso sembra non esserci, non partecipare; raramente un’opinione, mai un consiglio. Eppure, proprio quando ti ha abituato a non sentirlo, quando ti sei rassegnata all’inutilità di chiedere il suo parere, ecco che squarcia il suo silenzio e ti pugnala con dolorose sentenze che hanno almeno il merito di farti riflettere sul fatto che, in silenzio, ti ha ascoltato e che, non partecipe, ti ha vissuto.
– Non farti rapire dal primo che capita. – quando ho deciso di trasferirmi in Liguria mi ha detto questo.
– È una mia scelta papà.
– Se è una tua scelta vacci da sola.


2

– Ciao signorina. Ha trovato quello che cercava?
– Come?
– Ha trovato il Rossito?
– Grazie Brigida, era l’ultima bottiglia ma mi basta.
Questa sera, dopo tre anni, rivedo Mauro. Avrei giurato che non lo avrei mai più rivisto. Mauro è un intenditore di vini; gli piacerà assaporare un buon calice di Rossito.
La miglior cantina di Dolcesale è quasi in cima al paese, appena sotto al Castello dei Di Maria. Di solito è fornita come una bancarella di dolciumi in una fiera, ma oggi, di Rossito del 1982, ne è rimasto solo un litro.
Non gli sfuggirà, ne sono sicura. Mauro ha sempre amato i particolari, a volte persino a discapito dell’intero. Quando abbiamo comprato casa ha scelto l’attico in centro solo per il caminetto decorato in pietra lavica dell’Etna senza soffermarsi sul fatto che tutto il resto cadeva a pezzi, che avremmo dovuto rifare i pavimenti e gli infissi, che l’impianto elettrico non era a norma e che nella vasca da bagno c’era un visibile buco nella ceramica.
Come un microscopio Mauro è sempre riuscito a focalizzare l’attenzione su singole parti di me, raramente le migliori. Se avevo faticato ore per prepararmi ad un’uscita serale, lui mi guardava e mi diceva:
– Questa collana non calza con il resto.
Alla fine di una mattinata di pulizie notava l’unico angolo riuscito male e retoricamente mi interrogava:
– Non hai fatto la polvere sul tavolino del telefono, vero?
Registrava singole parole dei miei discorsi e si lamentava sempre degli stessi lati del mio carattere dimenticandosene altri a mio avviso più identificativi.
– Piangi solo quando sei nervosa.
Cattivo. Ho pianto spesso anche per profonde emozioni o per laceranti dolori.
– Fai la simpatica perché vuoi che gli altri ti credano migliore di me.
Stupido. Facevo la simpatica perché far ridere gli altri era il miglior modo per tenerli concentrati su quanto stava fuori di me piuttosto che su ciò che mi moriva dentro.
– Pensi solo al lavoro.
Bugiardo. Pensavo solo a lui.
Quando non riusciva ad ingrandire e ad osservare maniacalmente il particolare, rimpiccioliva il generale e trasformava ogni mio successo o gratificazione in insignificanti fatti trascurabili.
– Che novità! Prima o poi promuovono tutti in quell’azienda!
– Era persino riuscito a dire che i miei grandi occhi celesti, unico vanto della mia mediocre fisicità, non erano armoniosi con il resto di me.

Mauro mi ha telefonato due settimane fa chiedendomi un incontro. Stupita, fiera, sicura come gli sportivi quando chiedono una rivincita, ho accettato.
– Senza rancore?
– Senza rancore – mentii.
Dopo tre anni la ferita brucia ancora, perché mai completamente lavata dai microbi del ricordo. Ma sono più matura, forte, adulta e saprò affrontare il fantasma del suo amore con più serenità.

– È sicura di farcela?
Gli occhi di Brigida sono sfere magnetiche attraverso le quali lei riesce a vedere fino all’ultimo flusso del mio bollente sangue. In questi anni lei è diventata il mio consigliere, la mia maestra, il geyser che sa sputare fuori il mio ego. Conosce ormai quasi tutto di me; è un’ansiosa madre, una saggia nonna, una paziente amica.
Sì, credo di poter affrontare Mauro, ormai sono diventata adulta.
Diventi adulto quando ti rendi conto che, al ritorno dal lavoro, ti costa molta meno fatica riporre i vestiti in grucce e cassetti, piuttosto che accatastarli sulle sedie per poi essere costretta a perdere mezza giornata per riporli tutti o, peggio ancora, per ristirarli tutti.
Diventi adulto quando capisci che è inutile crescere in altezza; se sei alto tutti si aspettano di più da te: “Ma come, così grande e grosso e piangi?”
Diventi adulto quando sì, realizzi che non ci sei solo tu al modo, ma come ti piacerebbe fosse così!
Diventi adulto quando capisci che dare ti infonde lo stesso piacere che ricevere, che essere è tragicamente più faticoso che avere, anche se sei già nella fase in cui comprendi che quell’avere è direttamente proporzionale al tuo conto in banca e non più agli abbracci di tua madre.
Diventi adulto quando razionalizzi il fatto che non sei tu a costruire il tuo destino, che non sempre se fai capricci ti castigano e se non li fai ti premiano, che a volte può anche accadere che pur non studiando superi gli esami… che non è sempre vero che, se ti comporti con dignità e rispetto, sarai trattata con dignità e rispetto.
Diventi adulto quando l’altro con cui ti relazioni ogni giorno non sempre te lo sei scelto e capisci che non ti è più possibile scartarlo con un “Non sei più mio amico”. Quando dividi la merenda per obbligo e non per piacere, quando fai un giro in bicicletta per smaltire i chili di troppo e non per conoscere nuovi regni, quando ti senti cretina se vedi sette volte lo stesso film, quando ti vergogni se ti concedi un capriccio.
Diventi adulto quando subisci e ne sei cosciente, quando piangi e sai perché.
Ma soprattutto diventi adulto quando impari che è inutile rincorrere il tappo del dentifricio nelle curve del lavandino per evitare che cada nello scarico: ti basta coprire il buco con la mano ed aspettare che ci sbatta contro.
… un po’ come quando ti accanisci a cambiare il corso del destino ignaro del fatto che, subdola beffa, questo seguirà la sua strada!


3

Brigida non condivide le mie scelte. Crede che rivedere Mauro mi possa confondere e far rivivere le pene del passato. Durante questi tre anni Brigida è diventata il mio inseparabile guscio, la mia campana di vetro, il mio avvocato del diavolo, la rete di protezione contro i miei salti mortali senza trapezio.
Quando sono scappata da Mauro e da Villachiara avevo sperato di sapere erigere una porta taglia fuoco tra me e il mio passato ed ero pronta a cominciare a vivere vergine di qualsiasi legame, affettivo o territoriale che questo fosse. Quindi accettare l’invito di Gianni che mi offriva un soggiorno in Liguria come momentaneo rifugio in attesa di realizzare i miei propositi mi era sembrato il più naturale primo passo. Ma non basta calpestare un suolo straniero per diventare cittadini del mondo; nemmeno per un minuto ho smesso di pensare al mio arido Nord Est, alla mia Villachiara, culla tra i monti, evocativa di boccate d’aria salubre, di ricordi di un passato fatto di gente semplice e serena, spesso sinonimo di disoccupazione, alcolismo, anzianità e di vite intrappolate in passati difficili da cremare. Per quanto mi sforzi, per quanto capisca che è attraverso l’attingere alle proprie risorse interne che riusciamo a salvare la nostra anima, per quanto stia bene a Dolcesale, non sono mai riuscita a guarire dalla nostalgia dei miei monti e delle persone che li popolano.
Avere nel cuore Villachiara significa evocare, assieme a parenti ed amici, tutta una serie di personaggi che in un modo o nell’altro, nel cuore o solo nei sensi, sono rimasti imprigionati nella mia esistenza. Sono personaggi che hanno costruito il passato del mio piccolo paese o che ne stanno vivendo il presente; sono anime che ho realmente conosciuto ma anche ritratti di cui mi è stata tramandata solo la storia, o frammenti di essa.
Anna.
Madre di cinque figli di dubbia paternità, Anna aveva più o meno l’età dei miei genitori: qualche ruga in meno e qualche esperienza in più. Non so dire quali dei suoi figli fossero figli del marito o quali invece frutto di notti proibite: so che, in un modo o nell’altro, tutti erano legati a questa scomoda madre da una strana sottomissione, o fedeltà, o amore. Quando per qualunque motivo Anna decideva di riunire attorno a sé tutta la sua ciurma, come una chioccia si sistemava in mezzo alla via principale del paese e, mano sinistra alla vita, fischiava con l’aiuto delle dita della mano destra. Dovunque fossero, qualsiasi cosa stessero facendo, ad uno ad uno i suoi figli arrivavano, dal più adulto al più piccino, dal più terrorizzato al più innamorato. Anna è stata per molti anni il personaggio più discusso nel mio paese; sembrava che il vento di Villachiara avesse l’unico compito di varcare le finestre della sua casa per uscirne colmo di nuove storie da raccontare o da inventare. Storie fatte per metà di fatti reali e per metà sicuramente colorite da tutti i peccati di un paese per il quale era più semplice attribuire i disonori ad un’unica donna piuttosto che spartirli con democrazia. Credo che per mantenere una famiglia nata nel peccato e per di più così numerosa ci sia voluta una buona dose di coraggio e di incoscienza, di menefreghismo e di fatalismo. Credo anche che di peccatori sia pieno il mondo, ma che per un paese così piccolo sia fisiologico che qualcuno faccia da calamita e finisca per tatuarsi addosso ciò che ognuno di noi preferisce vedere solo negli altri. Nel cuore dei suoi figli Anna è stata una madre come tutte le altre.
Valentino è un altro personaggio dal quale la Villachiara attuale non può prescindere. Mutilato fin da giovane ad una gamba a causa di una bravata giovanile e costretto a muoversi solo con l’aiuto di stampelle negli anni sempre più robuste, ancora oggi Valentino grida a gran voce due verità: la sua infelicità sentimentale e la sua fede politica. Se lo si incontra, gerla in spalla e ai piedi scarpe ortopediche, racconta di un matrimonio finito ancor prima di nascere e di una moglie con la quale ha condiviso più scontri che incontri. Descrive con rammarico una vita vissuta senza amore, lontano dai figli, tre, e lontano soprattutto dal primogenito dei tre, invalido.
– La sogno ancora qualche volta, ma anche in sogno litighiamo.
Non importa che tu glielo stia chiedendo o che l’argomento principale abbia o meno a che vedere con l’amore: comunque sia Valentino ti parla della moglie. Ricordo di aver presenziato per caso alla veglia funebre di lei. Seduto in macchina perché già troppo stanco della vita, Valentino salutava chi gli faceva le condoglianze e ad ogni saluto esibiva un’aria interrogativa. Con pazienza allora i figli gli spiegavano quale tipo di legame univa quel saluto alla moglie con la quale non viveva più da molto tempo.
Eppure la grida ancora!
Come grida, sempre e comunque, di nuovo noncurante del fatto che tu glielo stia chiedendo, il suo credo politico:
– Ci sarà un motivo se Dio ci ha fatto il cuore a sinistra! Dalla destra scaturiscono solo guai. Con che piede usi l’acceleratore, o il freno? Con che mano firmi le cambiali?
…e poi c’è Mario. I miei ricordi di bambina dipingono Mario come un omone dalla voce squillante, alto, moro, accentratore di attenzioni. Ogni estate tornava dalla Francia dove si era definitivamente trasferito anni prima. Lo ricordo gioviale, chiacchierone, carismatico. Aveva un fratello che tutti mi raccontano essere stato più mite, umile, invisibile. Orfani di guerra, erano sopravvissuti negli anni Quaranta in una stanza che era appartenuta alla famiglia di mia madre. Poco cibo, poco spazio, molta miseria. Erano così poveri che ogni volta che loro zia li mandava allo spaccio a comperare il tonno all’etto, la loro principale occupazione era di farselo confezionare con abbondante olio: li avrebbe consolati intingere in quell’olio quel poco pane raffermo che era rimasto nella credenza. Il “privilegio” di essere orfano aveva procurato a Mario un posto in un collegio di serie B, dove tutto risultava di seconda categoria rispetto ai collegi di serie A destinati ai figli dei ricchi, vivi. Mario soffrì per anni il freddo di coperte meno calde e la fame di piatti più vuoti, finché emigrò in Francia. Da lì ogni estate ritorna e porta racconti di matrimoni falliti, di nipoti in fin di vita, di cultura sconosciuta. La figura che ho in mente ora non è più così austera come quella dei miei ricordi e la sua voce non tuona più come una volta. I suoi capelli sono bianchi e la sua altezza è sminuita da una schiena sempre più curva. Continua tuttavia a catturare l’attenzione di chi lo ascolta. Si esprime con un linguaggio molto corretto, parla lentamente e ti ascolta silenzioso. Se è impegnato in qualche faccenda domestica esegue il tutto attento che il rumore che provoca non copra le tue parole e non gli impedisca di ascoltarti. Se lo incontri lungo la via incrocia le braccia dietro la schiena e dall’alto ti osserva. A volte sembra non esserci, altre volte ti dice qualcosa ricordandoti che c’è. Sorride se ti sta contraddicendo, gesticola ampio quando si sta spiegando. Racconta dei suoi peccati e sviscera le sue sofferenze. Credo che, come molti emigranti, viva nel limbo tra un paese che lo ha visto bambino e un altro che gli ha dato il sostentamento economico, ma se penso che il primo è Villachiara e il secondo è la Francia, mi piace pensare che se qualcuno in quella terra straniera lo ha amato, ha amato anche un pezzo di Villachiara.
Prima di tutti loro ecco Brigida, che mi ha seguito fino a qui, che da tre anni fa da collante tra ciò che mi sono lasciata alle spalle e ciò che tento di ricostruire. Mi sento legata a questa donna come lo sguardo di un cane fisso negli occhi del padrone, come un cucciolo felino ai seni di mamma gatta, come un commesso viaggiatore in terra straniera quando sente l’annuncio nella sua lingua madre provenire dall’altoparlante di un aeroporto.
Non mi ha lasciato scappare Brigida, ha nascosto le forbici per il taglio del nastro al primo varo e non ha mai allentato le redini. Fortunatamente. Disgraziatamente. Perché dopo tutto questo tempo non sono ancora riuscita a dimenticare.

[continua]


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