Opere di

Federico Cabianca


Dal capitolo: IL VICINO ORIENTE

Un giorno, quando ancora non era stato investito della missione della ricerca degli archè, nelle mani di Adanoo si era materializzata la pagina di una importante gazzetta in cui compariva la riproduzione dell’affresco delle sette caverne in una casa di ben ottomila anni addietro, a Çatal Huyuk, e tale rappresentazione veniva proposta a corredo di un importante articolo che sosteneva la continuità simbolica tra detto affresco e i tappeti Kilim, nonostante la grande frattura temporale che era intercorsa tra i due eventi.
Lo colpirono particolarmente di quell’antichissima testimonianza di civiltà la leggerezza grafica, la lievità strutturale e compositiva, i valori simbolici, il senso profondo del sacro, del divino che le figure centrali suggerivano, la reiterazione ricercata della scena in sette riquadri, la ripetitività grafica delle decorazioni in verticale e la riproduzione speculare del tutto sulla parte inferiore della parete.
Tutto ciò gli appariva non casuale e non privo di significato. Osservò anche la riproduzione dei tappeti Kilim che l’autore accostava all’affresco per la simbologia, senza comprenderne lì per lì le connessioni, anche per la cattiva resa delle immagini. Si soffermò infine sui simboli riportati a fondo pagina, che gli parvero assolutamente interessanti e ognuno con un preciso significato, ovviamente da scoprire.
Si accinse pertanto a leggere il testo con viva curiosità: era bello, elegante, pertinente, con riferimenti chiari, precisi, convincenti. Anche le immagini di antiche divinità portate a confronto con le figure delle divinità femminili dell’antico affresco erano pertinenti. Ma alla fine lo trovò, come dire? Inadeguato. Inadeguato ad esprimere il mistero che in quegli affreschi intuiva vibrare e che quell’articolo, secondo lui, non coglieva nella sua essenza.
Le sorprese poi non erano finite. Come levò gli occhi dallo scritto, lo sguardo gli cadde su un vecchio tappeto caucasico che si stendeva proprio sotto i suoi piedi e che egli aveva acquistato da un rivenditore turco qualche anno addietro e vi riscontrò, seppur lievemente mutati, alcuni di quegli stessi simboli riportati per una maggiore chiarificazione di quanto esposto nell’articolo, naturalmente presenti sia nei tappeti Kilim sia negli affreschi di Çatal Huyuk.
Si immerse in silenziosa meditazione, con davanti il giornale e la sua cultura, alla ricerca di connessioni, di ipotesi plausibili e di risposte convincenti. Si soffermò innanzitutto sugli affreschi. Credette di poter interpretare il tutto come una Cosmofania, una manifestazione della Realtà cosmica, più precisamente una Teofania cosmologica e cosmogonica, una manifestazione del divino nella realtà cosmica. E questo in sette riquadri, al centro di ciascuno dei quali è la divinità femminile, la dea madre, ripetuta sette volte per esprimere i suoi diversi e mutevoli aspetti e attributi, considerata come centro e motore dell’universo: perciò una Teofania. Era questo che l’estensore dell’articolo, secondo lui, non riusciva a cogliere e che maggiormente lo disturbava. – Forse – si disse – esulava dalla logica e dall’intenzione dell’articolista.
Interessante gli parve anche la riproduzione speculare dell’affresco, sopra e sotto, come del resto nei tappeti Kilim. Si arrovellò a lungo su quel particolare, finché non gli balenò alla mente la soluzione del mistero: lo interpretò come il principio dualistico della realtà che si concretizza in ogni manifestazione della realtà stessa: sotto/sopra; dentro/fuori; maschio/femmina; ecc.. In sostanza, il mondo visto come una presenza dualistica, sempre in atto, ciò che è sopra è anche sotto, e viceversa, perciò la divinità si ripeteva identica, rivolta verso l’alto e verso il basso, come tutto il resto della rappresentazione attorno. A dividere queste due interfacce speculari era una piccola sbarra che ne costituiva il supporto e insieme lo spartiacque fisico, visibile.
Gli vennero in aiuto le letture sul mondo classico, con la sua concezione degli inferi e delle divinità ctonie; la psicologia della Gestalt con la sua famosa asserzione: ciò che è dentro è anche fuori. Questo enunciato gli sembrava valido su più piani: – Al centro del riquadro è la dea madre, riprodotta in modo speculare sotto e sopra, essa è anche al centro della realtà cosmica, dentro una nicchia cosmologica, ma non è solo il cosmo fisico quello, è la stessa realtà ontologica, fiammeggiante, che simboleggia la presenza del divino. All’origine della realtà cioè, e quindi nel suo ambito più recondito, c’è il sacro, il divino, simboleggiato dal sacro fuoco – e qui gli sovvenne anche il ricordo degli adoratori del fuoco incontrati in vari racconti dell’oriente, come nel Milione di Marco Polo – l’invisibile, in quanto racchiuso dentro, senza via di comunicazione, ma centro del mondo, motore dell’universo. Nella stessa mitologia greca l’Olimpo ctonio viene prima dell’Olimpo celeste, come retaggio di culture precedenti.
– Ma com’era, com’è questa divinità? – si chiedeva.
– E’ una divinità femminile, perciò, per questi antichissimi popoli, il principio primo è femminile ed il mondo esterno è coerentemente organizzato e strutturato. La società, quindi, è una società matriarcale.
Riguardò attentamente l’illustrazione, dal centro allargando piano piano lo sguardo verso la periferia e lentamente una convinzione si fece strada in lui.
– Quello che è attorno alla nicchia – si disse – è la riproduzione simbolica, ma gerarchicamente strutturata, del mondo esterno quale noi lo conosciamo ed è l’esterno dell’ignoto, del sacro, del divino, e i principi organizzativi su cui si basa e che ne regolano e ne giustificano l’esistenza sono gli stessi, perché sono un’irradiazione di quelli divini. L’esocosmo vive sotto l’influenza dell’endocosmo. Sotto e sopra, nelle due riproduzioni speculari della parte esterna della piramide vi sono due divinità terrestri femminili, due regine, ai cui piedi sfilano tutte le creature sopra la terra, uomo compreso. La dea regina regna sul conosciuto mondo e a lei tutto è sottomesso. Di questo regno il maschio ne costituisce il fregio, il limite.
– In questa prospettiva – osservò – si capisce anche la corrispondenza antinomica dentro/fuori: ciò che è dentro è anche fuori, proprio come asserisce la psicologia della Gestalt: il principio del divino femminile all’interno diventa il principio della femmina dominante all’esterno.
Interessante gli sembrò poi come questo concetto si ripetesse per tre volte, se riferito alle stilizzazioni femminili, per ben cinque volte se riferito alle maschili.
– Qual è il suo significato? – si chiese – se ci deve essere un significato…
E si sforzò di penetrare il segreto di quella asimmetria. Puntò lo sguardo verso l’alto e poi verso il basso.
– Ma – si chiese – dove finisce questo affresco? Cosa c’è al di sopra e al di sotto?
Si avvide allora che l’affresco corrispondeva all’altezza della parete, sopra c’era il soffitto, sotto il pavimento.
– Ciò significa – osservò – che l’affresco non poteva espandersi ulteriormente per limiti strutturali esterni; se non ci fossero stati quei limiti, come sarebbe stato veramente?
E allora cominciò a pensare che il dipinto potenzialmente si estendesse ben al di là, in una ripetitività che andasse idealmente all’infinito. In realtà all’artista non interessava tanto il numero di volte in cui si riproponeva la sequenza, quanto comunicare l’idea del suo reiterarsi, del suo riproporsi continuo, con lievi sfumature di diversità: in questo contesto, sembrava voler suggerire l’opera riportata alla luce, è sempre e comunque la donna a dominare. – E’ una ripetizione perciò che va all’infinito. E infatti – si convinse – le sequenze si ripetono in continuazione e non sono portate a compimento solo perché è la cornice ad impedirlo, la contingenza cioè dei limiti posti dalla parete, altrimenti si espanderebbe senza fine.
Si chiese quale fosse il significato profondo che dietro questa simbologia si celava e gli sembrò di poter giungere a questa conclusione: – Il significato probabilmente sta nel ripetersi infinito del reale, l’eterno ritorno, qui inteso in senso sincronico più che diacronico – ma non se la sentì di escludere neanche questo significato – è il reale che si manifesta in forme sempre diverse, all’infinito, ma in ogni suo stadio la costante è data dalla supremazia del principio femminile, l’eterno femminino.
C’era però anche un altro aspetto da approfondire alla luce di queste ultime considerazioni: il dualismo maschio/femmina. – La femmina – constatò – costituisce il punto d’arrivo, il vertice, proprio perché punto d’origine, altra presunta antinomia, mentre il maschio ne costituisce il margine, il limite: d’altronde è il ruolo ad esso riservato dalla vita nella stessa procreazione; a questa simbologia, evidentemente, la rappresentazione è legata, realizza la sublimazione del principio fondante femminile partendo proprio dalla constatazione del diverso ruolo dell’uomo e della donna nell’atto procreativo che è l’atto principe, l’atto fondante della vita.
Altre cose interessantissime avrebbe voluto considerare nella contemplazione di quella splendida testimonianza dell’antichità mediorientale, soffermandosi ad esempio sul significato delle sette riproduzioni del dio femmina. – Anche qui – si convinse – giocano probabilmente il valore, già allora evidentemente ritenuto sacro, del numero sette, e i diversi attributi che di volta in volta si volevano assegnare alla divinità –. Ma non volle andare oltre perché riteneva che alcune considerazioni fossero fin troppo ovvie, altre, al contrario, richiedevano una conoscenza troppo specifica, con il rischio poi di cadere in osservazioni eccessivamente soggettive. Perciò si fermò lì. Preferì volgere la propria attenzione ai Kilim riprodotti a fondo pagina, di cui aveva notato le sorprendenti somiglianze compositive con l’affresco in questione: l’impianto generale sembrava lo stesso ed anche l’evidenza di alcuni simboli. Ne rimase avvinto, ma anche un tantino perplesso, stordito: – Fino a dove – si chiedeva – possiamo spingerci nel rilevare e nel valutare tale somiglianza?
Più di un dubbio attraversava la sua mente, soprattutto per quanto atteneva all’impianto generale, anche per ciò che riportava l’articolo: troppo tempo era trascorso tra l’esecuzione di quegli affreschi e la produzione dei tappeti Kilim per potervi leggere senza esitazione un filo di continuità. – Eppure – brontolava – troppo evidenti sono le analogie. Come spiegarlo?
Provò a ripercorrere filoni culturali in qualche modo a lui noti, per riscontrarvi delle tracce che permettessero di fare apprezzare delle continuità, o almeno delle possibili trasposizioni. Ma, per quanto si sforzasse, non ci riusciva. Eppure i simboli presenti negli affreschi e nel tappeto erano proprio gli stessi e gli sembrava di poter giungere con relativa facilità alla loro interpretazione. Li osservò a lungo, attentamente, li mise in relazione con mille intuizioni insorgenti, archetipi psichici, modelli culturali in lui in quel momento affioranti e alla fine gli parve di poter trarre delle conclusioni. A suo parere il primo ed il secondo simbolo rappresentavano il principio fondante femminile, il terzo quello maschile o bimaschile, come del resto il secondo era bifemminile – d’altronde la sodomia aveva assunto fin da principio un valore sacrale – mentre il quarto doveva costituire, secondo lui – ma qui era colto da più di un dubbio – il simbolo dell’unione uomo donna, il principio fondante della vita.
– Se si osserva attentamente – si diceva – si può costatare come metà del terzo si incastri perfettamente nel primo e in metà del secondo (ovviamente seguendo l’ordine in cui erano esposti sul giornale); se mettiamo uno accanto all’altro questi simboli risulta una sequenza così ritmata: uomo donna – donna uomo – uomo donna, e così di seguito. E’ precisamente ciò che troviamo nei tappeti orientali: un segno che è chiusura di un altro diventa origine di un terzo nel quale confluisce la prima metà di un quarto, e così di seguito. Qui, giocano pure le intercambiabilità disegno/sfondo, contenente/contenuto, chiaro/scuro, positivo/negativo che spesso si ritrovano nella struttura compositiva dei tappeti orientali.
Osservò anche che il quarto simbolo si ritrovava al centro della prima figura in cui gli sembrava di poter riconoscere la stilizzazione del maschio – sopra – e quella della femmina – sotto –, e si soffermava a constatare la diversità della rappresentazione delle teste e delle braccia e, al centro, proprio quel simbolo che riproduceva il tutto in modo estremamente stilizzato: le due teste speculari, idem per il busto, le gambe completamente divaricate e fuse, la destra dell’uno con la sinistra dell’altra e viceversa. Lo ritenne pertanto un simbolo, il simbolo appunto dell’unione, ancora una volta il simbolo fondante della vita.
Il simbolo, secondo lui, voleva significare che la realtà esiste in quanto compenetrazione di due spinte vitali diverse e complementari: il principio fondante maschile e il principio fondante femminile – e la stilizzazione riprodotta ne costituisce la rappresentazione simbolica che, stilizzando ulteriormente, – si trovò a considerare – diventa una croce. Forse – aggiunse – il simbolo della croce contiene un significato più ampio – ma non andò oltre.
Si soffermò quindi ad osservare la terza figura che pure attirava la sua attenzione: era una donna la cui testa era costituita e sostituita dal simbolo del principio fondante femminile, fonte di vita per l’uomo stesso che, non a caso, era posto sotto di lei.
Mentre era preso a svolgere simili considerazioni, ogni tanto l’occhio si posava sul tappeto caucasico steso ai suoi piedi e di tanto in tanto qualche sfuggente pulsione lo faceva vibrare per il non sopito desiderio di ritrovare anche lì delle analogie, dei richiami a quel bellissimo affresco: in fondo proveniva dalle stesse regioni. Ora il momento, che egli viveva come il momento di verità, era giunto. Si alzò in piedi lentamente e volse lo sguardo verso il tappeto. Gli balzarono subito agli occhi alcuni disegni la cui somiglianza con quelli dei Kilim e di Çatal Huiuk era di una evidenza solare.
Fu preso da inquietudine manifesta; cominciò una febbrile analisi di tutto il tappeto, prima nella composizione complessiva, poi punto per punto nella singole parti. Notò la ripartizione dell’impianto compositivo in tre sottocampi, con la ripetitività del soggetto riprodotto, cosa che lo accostava alquanto alla struttura dell’affresco, almeno come organizzazione architettonica complessiva. Più lo osservava e più le analogie gli sembravano notevoli: molti simboli erano del tutto simili, se non proprio gli stessi; l’idea ispiratrice della suddivisione compositiva nei sottocampi sembrava la stessa, anche se diversa risultava la forma geometrica di riferimento: qui il rettangolo, là il rombo. Meditò a lungo su questo, confrontando anche mentalmente i due lavori.
– Come potevano – si chiedeva – due prodotti così lontani per ambientazione storica e culturale presentare simili evidenti analogie? Sono vere analogie o solo suggestive parvenze?
Provò ad analizzare i diversi periodi cui l’affresco e il tappeto potevano riferirsi. Piano piano un’idea si fece strada nella sua mente, dapprima piuttosto confusa e sfumata, poi sempre più chiara e precisa. Diversa era la realtà che nei due casi si voleva rappresentare: mentre là era una Teofania cosmologica, una manifestazione della realtà fisica, metafisica, ontologica, qui era una riproduzione stilizzata della realtà geofisica concreta, naturalmente sui parametri di conoscenza e di rappresentazione cui il tappeto faceva riferimento come modello storico culturale. Ciò naturalmente avveniva attraverso simbolizzazioni come è proprio dei tappeti. – Ogni sottocampo – si trovò a considerare – è un rettangolo ai cui lati stanno, nei due fronti opposti, i simboli femminili: una stilizzazione della donna con il tipico simbolo del principio fondante femminile, a parte il sottocampo centrale che al posto del simbolo in questione presenta una stella su sfondo esagono-ogivale che egli si permise di interpretare come il frutto dell’avvenuta fecondazione.
Qui insorgevano altri interrogativi, che però preferì lasciar cadere per mancanza di materiale di confronto.
Negli altri due lati la stilizzazione di tre teste cornute di toro fuse, un tricefalo bovino o, forse, un bucefalo esacorne, simbolo del principio fondante maschile dominava la scena. Le quattro figure sottendevano un campo che è la stilizzazione del mondo come ancora forse da quelle parti lo si concepisce, retaggio di una tradizione che affonda le sue radici nella notte dei tempi: le cosiddette quattro parti del mondo che si trovavano già alle origini della civiltà mediorientale. Provò a dare una sistemazione interpretativa a tutto ciò che codificò in questo modo: la realtà esiste in quanto posta in atto da due principi fondanti antinomici, il maschile e il femminile, senza i quali non può esistere nessuna cosa.
E allora si trovò a riconsiderare ancora una volta ciò che già aveva considerato quando i suoi pensieri erano folgorati dalla fascinazione dell’affresco e ne generalizzò la portata: – Probabilmente il principio antinomico, in ogni campo, è per quella cultura il fondamento, la trama che fa sì che la realtà, ogni realtà, possa esistere proprio come prodotto di due antinomici principi senza i quali non potrebbe attualizzarsi.
Agli angoli dei rettangoli rilevò la presenza di quattro stilizzazioni particolari di cui non seppe darsi una spiegazione convincente, ma che immaginò potersi riferire a simbolizzazioni di animali custodi del territorio.
Si avvide a quel punto che sull’affresco e sul tappeto campeggiavano qua e là delle croci, delle croci che si allargavano all’intersecazione dei bracci in losanghe, con qualche raffigurazione all’interno. Gli parve di individuare in esse la stilizzazione estrema della rappresentazione del mondo, il simbolo supremo della realtà. In ultima analisi ancora la stilizzazione dell’unione maschio femmina, ormai quasi irriconoscibile, che dà vita ad un reale estremamente rarefatto, stilizzato, ridotto appunto a simbolo.
– Ecco da dove viene il simbolo della croce – si disse (e davanti gli passavano mille e mille croci di tutte le forme e di tutte le misure, da quelle lignee popolari, a quelle vescovili tempestate di gemme, a quelle greche, alla croce di Malta, alla Lorena, alla Tau…), dalla stilizzazione portata all’estremo dell’incontro dei due principi fondanti maschile e femminile in coppie contrapposte che danno origine alle quattro parti del mondo; nel caso del tappeto poi, attorno alle croci c’è anche la simbolizzazione del cielo cosmo.
Certamente, quando l’aveva acquistato non si immaginava neppure lontanamente che un semplice tappeto, seppur vecchio di qualche decennio e, come diceva il rivenditore, importante, potesse nascondere una realtà culturale di tale spessore, e che quei segni che fino ad allora aveva considerato soltanto come tali potessero celare dei valori simbolici così carichi di significati. Fino a quel momento lo aveva considerato soltanto un tessuto da stendere al suolo, al massimo come abbellimento, macchia di colore sul pavimento di casa. Invece, a ben guardare, esso esprimeva una vera e propria Weltanschauung, una visione del mondo, come certe pitture del Rinascimento, soltanto che lì i simboli si allacciavano ad una realtà ben più primordiale, e pertanto finivano per costituire dei veri e propri archetipi, la ragione stessa dell’esistenza di quell’arte la cui origine (come del resto il loro significato), andava ad allacciarsi là dove avevano origine la cultura e la civiltà dell’uomo.


Dal capitolo: NEL CUORE DELL’ASIA

Alle porte settentrionali del celeste impero una galassia di genti e popolazioni nomadi e seminomadi si muoveva sulle terre delle steppe creando alleanze o confliggendo rovinosamente. Erano i Mongoli dalle mille etnie…Signori del vento sui loro cavalli erano riusciti a togliersi di dosso il giogo turco e su vallate vastissime a imporre la propria supremazia. Adoravano il cielo, la terra, il sole, la luna, le stelle; veneravano il fuoco e il vento, i punti cardinali, e mille altri fenomeni naturali. Un particolare culto riservavano agli antenati. Onoravano gli ospiti, i capifamiglia, i capi militari, i capiclan e temevano le autorità. Si cibavano di carni, grassi, latte e dei loro derivati. Vestivano di pelli e di grossi tessuti. Vivevano all’aperto, a contatto con la natura e gli animali, riparando in tende rotonde spesso montate su grandi carri trainati da robusti cavalli o da buoi. Si aggregavano in clan per lo più costituiti da consanguinei. Molti clan insieme formavano l’ordo che rappresentava l’orizzonte della nazione quando un’idea unificatrice non li spingeva verso una visione più ampia, comprendente le diverse componenti del complesso mondo dei mongoli; allora un sovrano, un gran khan fatto eleggere in consigli speciali, si imponeva sopra gli altri e ne rappresentava il punto di sintesi, il capo supremo.
Intanto un giovane non di prima categoria reale, ma della dinastia regnante su un sottoclan, si era fatto largo nella confusa e disomogenea realtà mongola, ereditando un’idea che già era stata di suo padre, ma che questi non era riuscito a realizzare. Temucin era il suo nome, della tribù dei Kiyat, dal grande ascendente e dalle sconfinate ambizioni. Suo inconfessato sogno era quello di unificare le diverse etnie frazionate in un’unica vera nazione per farne un grande popolo capace di dominare la terra. Si sentiva l’inviato del cielo cui nessuno doveva resistere. Un giorno però successe qualcosa di curioso e di insolito.
– Ferma! – gridò Temucin, al secolo non ancora Genghis Khan, tirando le briglie del suo cavallo e alzando il braccio perché tutti potessero vedere il suo ordine – domani o dopodomani la carovana degli stranieri provenienti da occidente sarà qui e noi saremo pronti a riceverla.
Dopo un paio di giorni, infatti, la carovana guidata da Adanoo aveva raggiunto la sommità del passo che si trova tra i Grandi Altai e i Monti Tienshan e si apprestava a scendere nella vallata che conduce al deserto del Gobi.
Portava alcuni doni per i potenti che avrebbe potuto incontrare sulla sua strada e delle merci da barattare. Aveva seguito un itinerario inusuale: raggiunto il Mar Caspio per la tradizionale via, invece di puntare sul Pamir attraverso la valle dell’Amu Darija e la città di Samarcanda, per poi dirigersi sulla Cina Settentrionale seguendo le pendici dell’Altun Shan e la valle dell’Huangho, aveva attraversato la zona che dal Mar Caspio porta al lago d’Aral, al Balchas, per salire sui rilievi situati tra gli Altai e i Tien Shan e di lì scendere in Zungaria.
Qui lo attendeva Temucin, capo di una tribù mongola che si preparava a conquistare il mondo con le sue truppe. Attraverso canali segreti era stato avvertito di quell’arrivo. Di Temucin molti conoscono la forza, la durezza, la crudeltà di alcune sue gesta, ma pochi la curiosità per i fatti del mondo.
C’erano in Asia alcuni misteri di cui Temucin aveva sentito parlare, ma che non conosceva nella essenza profonda. Ora riteneva giunto il momento per farlo, date le favorevoli circostanze.
D’altronde, gliel’aveva pronosticato anche suo padre sul letto di morte: – Figlio, diventerai un grande condottiero e un trascinatore per il tuo popolo – aveva detto – ma prima devi conoscere i segreti dell’Asia: il segreto del Veglio della montagna; il segreto degli adoratori del fuoco; il segreto della seta; il segreto del comando del popolo mongolo –. A quest’ultimo ci stava pensando da solo.
In quanto agli altri… ebbene, si trovava in difficoltà, non sapeva come venirne a capo. Ora gli sembrava che la situazione gli fosse propizia: c’era chi poteva farlo per lui, quello straniero giunto da tanto lontano che tutti descrivevano come saggio e di profondo sapere.
Inoltre, egli aveva altre cose ben più importanti cui dedicarsi, prima di tutto il suo popolo così frammentato e diviso, che egli intendeva elevare a ben più alte condizioni e considerazione. Per questo era tempo di mettersi all’opera.
Non appena la carovana raggiunse il fondovalle, Genghis Khan le si parò dinanzi e le intimò di fermarsi. Vista l’inesistenza di alternative, Adanoo fece arrestare il gruppo e si presentò con fierezza davanti a chi gli sbarrava il passo.
– Chi siete? – chiese aiutandosi con i gesti.
– Saluto gli amici che giungono da lontano – esordì Temucin facendo ricorso all’interprete che aveva con sé – sono Genghis Khan, capo dei mongoli. Spero che il lungo viaggio che avete compiuto fin qui non vi abbia procurato noie o fastidi.
– Nulla di rilevante – rispose piuttosto innervosito lo straniero.
Su invito del capo mongolo, si avviarono al luogo dove Genghis Khan aveva fatto accampare il suo drappello.
Giunti colà furono loro assegnate delle tende e furono fatti accomodare. Fu loro permesso di rinfrescarsi e di stendersi, dopo di che furono cortesemente invitati nella grande tenda rotonda di Temucin dove furono serviti di tutto ciò che potevano desiderare.
Terminata la colazione, la conversazione entrò nel vivo.
– Nel vostro viaggio – prese a dire Temucin – avete attraversato luoghi arcani, misteriosi, che conservano segreti di cui non conosciamo l’origine e il fondamento.
– Beh, l’esistenza di qualche realtà non del tutto chiara, in alcuni casi, ci è pervenuta all’orecchio, ma non vi abbiamo fatto particolarmente caso.
– Mi riferisco alla leggenda del Veglio della montagna e a quella degli adoratori del fuoco. Che sapete dirmi in proposito?
– Poco o nulla, signore, ne abbiamo certo sentito parlare, ma in modo piuttosto confuso e, per quanto riguarda il Veglio, con venature di paura. Almeno così ci è parso. D’altronde, abbiamo cercato di evitare quei luoghi.
– Ebbene, invece io desidero che vi torniate e che ne comprendiate a fondo i segreti per poi venirmene a riferire in modo dettagliato. Sono alcuni dei segreti dell’Asia che io debbo assolutamente conoscere.
– Ma, signore – tentò di schermirsi Adanoo – noi siamo qui per …
– Non accetto scuse. Questo è il mio desiderio, e il mio desiderio per voi è un ordine. Andate e tornate per riferirmi. E non tentate di cambiare strada o direzione: verrei a cercarvi in capo al mondo. Al vostro ritorno dovrò affidarvi un altro incarico: svelare il segreto della seta. Ma ne parleremo quando sarete di nuovo qui. Ora andate a riposare e tra due giorni ripartirete.
Non ci fu nulla da fare. Nonostante i tentativi di dissuaderlo, Temucin fu irremovibile. Così gli stranieri dovettero riprendere cavalli, viveri, carte geografiche e ogni altra cosa che potesse essere di utilità e ripartire verso terre lontane che già avevano sfiorato nella loro marcia di avvicinamento.
Cavalcarono e camminarono per lunghe settimane e mesi, risalendo monti e ridiscendendo vallate, costeggiando fiumi e laghi, attraversando pianure, villaggi e città, con la fatica che ormai si faceva sempre più sentire e con l’incubo di come quell’avventura potesse andare a finire.
Erano ormai giunti nella prossimità del territorio dove gli uomini adorano il fuoco che arde nelle viscere della terra quando, aggirando una collinetta, all’improvviso si trovarono di fronte la città santa. Entrarono. Si guardarono attorno.
Non osservarono nulla di particolare. Per prima cosa comunque andarono alla ricerca di un albergo che trovarono non lontano dal centro.
Decisero di fermarsi, anche se l’atmosfera non era delle più rassicuranti.
Dopo qualche giorno di permanenza, cominciarono a chiedere informazioni. Ricevettero risposte vaghe, non sempre coerenti. Inoltre ebbero l’impressione che la gente preferisse non parlarne.
La spiegazione più ricorrente era quella dei Re Magi che, recatesi in visita a Gesù, ricevettero in dono un cesto con dentro una pietra. Non sapendo che farsene di quella pietra, una volta aperto il cesto, la gettarono in un pozzo. Dal cielo cadde un globo infuocato proprio dentro il pozzo e lo incendiò. Di lì prese avvio il culto del sacro fuoco praticato in quelle remote regioni.
I nostri, naturalmente, volevano approfondire il discorso per non tornare con risposte incerte da chi li aveva mandati, ma la cosa risultava piuttosto difficile.
Un giorno, per caso, vennero a contatto con una setta bene addentro ai misteri del culto del fuoco. Siccome però volevano giungere al cuore dell’organizzazione, per attingere notizie più approfondite e le più veritiere possibili, tramite costoro riuscirono a farsi presentare al gran cerimoniere del culto, che a sua volta li presentò al gran sacerdote, capo supremo dell’organizzazione e custode del sacro fuoco presso il tempio. Ad essi posero i loro quesiti.
– Un tempo in questa vallata c’erano delle fenditure da cui fuoriusciva un liquido nero, piuttosto denso – riferì il gran sacerdote. – Nessuno sapeva cosa fosse, né da dove provenisse, né da che cosa fosse formato.
Una notte una grande palla di fuoco attraversò tutto il cielo e andò a cadere in una di queste fenditure. Tutto il liquido prese ad ardere e le fiamme si levarono alte nel cielo. Poi il materiale superficiale si esaurì e il fuoco si restrinse alle fenditure dove ancora continua a bruciare con indomito furore –. Poi continuò visibilmente ispirato:
– Il fuoco venuto dal cielo è l’alito divino venuto tra di noi e, come tale, esso è rimasto in mezzo a noi nel fuoco perpetuo che ancora arde e s’innalza dalle viscere esposte della terra senza mai consumarsi. Per questo noi lo adoriamo e riconosciamo in esso una presenza divina non soltanto simbolica, ma viva, reale. I nostri atti di culto hanno lo scopo di metterci in diretta comunicazione con il dio – e li congedò.
Dopo aver ringraziato, gli stranieri uscirono. Giudicarono di aver ricevuto ormai sufficienti risposte ai loro quesiti per cui, a parer loro, udendo il resoconto del viaggio, anche chi li aveva inviati fin laggiù poteva ritenersi soddisfatto.
Ripartirono quindi alla ricerca del Veglio della montagna.
Una sera, arrivarono al tramonto del sole ad un villaggio, forse una cittadina posta al limite di una zona desertica e sassosa. Data l’ora tarda, decisero di sostare.
Dopo essere entrato in confidenza con il proprietario dell’albergo che li ospitava, Adanoo pensò di sondare il terreno per vedere cosa poteva ricavarne. Intavolò il discorso dicendo che aveva sentito parlare di un certo vecchio che tutti chiamavano il Veglio della montagna. Soltanto a sentirne riferire il nome, l’albergatore si irrigidì e non volle più avere rapporti con gli stranieri. Solo il dovere di ospitalità gli impedì di cacciarli dal suo albergo. Nei giorni seguenti tentarono ancora di chiedere informazioni. Tutto fu vano. Tutti reagivano allo stesso modo.
Erano ormai sfiduciati, delusi, quando un giorno, di primo mattino, li avvicinò un uomo sulla cinquantina che, con una certa circospezione, fece capire di essere a conoscenza di quello che volevano sapere.
Era costui un agente del Veglio della montagna che andava alla ricerca di eventuali aspiranti ad entrare nella setta. Lo doveva fare con molto tatto e circospezione perché la fama della stessa non era delle migliori. Comunque il contatto era avvenuto. Quel che ne seguì fu pieno di sorprese: una notte Adanoo fu rapito e si trovò in un castello dove un dignitario lo fece accomodare in una grande stanza, lo sottopose ad una specie di interrogatorio e alla fine lo fece condurre in una costruzione vicina, riservata agli iniziandi. Vi rimase qualche settimana, trascorrendo il tempo nella lettura, riposando, assistendo a lunghe e interminabili conversazioni sul Corano. Quindi fu inserito tra gli adepti di primo grado, quello inferiore (ne avrebbe dovuto passare altri due), ma anche in quella posizione poteva avere contatti con tutti.
Fin dal primo momento tenne gli occhi bene aperti, per cogliere ogni minimo movimento che potesse accadere. Ogni tanto si avvedeva che qualcuno spariva per qualche tempo, per poi ricomparire in uno stato pietoso, ma non sapeva come ciò avvenisse.
Muovendosi con molta cautela per i corridoi scoprì l’entrata di un passaggio segreto: decise di seguirlo, e si rese subito conto che un ramo finiva all’esterno, ma l’uscita, naturalmente, era sbarrata da un grosso portone, mentre un altro ramo conduceva all’interno del castello.
Un giorno decise di seguire uno dei poveretti che di tanto in tanto sparivano. Così scoprì che il malcapitato, dapprima veniva portato al castello, dove gli era somministrata una bevanda che produceva degli strani effetti; in un secondo momento, gli si preparava un cavallo per mandarlo in un luogo preciso con un ordine tremendo: uccidere una persona che si voleva togliere di mezzo.
In una di queste ispezioni che andava compiendo per approfondire la conoscenza della setta, arrivò per caso una mattina al castello mentre era in corso una riunione nella sala grande, e dal cunicolo dove era rimasto nascosto poteva captare ogni parola che di là fosse proferita.
Stava parlando il vecchio:
– Noi siamo i depositari della vera dottrina di Maometto – stava dicendo – il suo e nostro Dio, Allah, vuole che tutti i suoi nemici siano annientati e per questo si serve della nostra azione. Dobbiamo essere grati per aver posto la sua attenzione su di noi. Siamo gli strumenti della sua volontà. Qui abbiamo creato un’oasi di pace che è l’anticamera del paradiso che Egli ci riserva… I giovani sono ardimentosi, ma ingenui. Dobbiamo sfruttare queste loro caratteristiche per raggiungere gli scopi che Allah ci affida… Non dobbiamo permettere che i nemici prevalgano… Qui stiamo sperimentando il mondo del futuro. Il nostro è un grande fiume che travolgerà colline e pianure e strariperà ovunque. Questo evento si realizzerà in più fasi; la prima è quella che stiamo conducendo. Delle altre ve ne parlerò un’altra volta.
Adanoo ritenne di aver udito abbastanza per giudicare estremamente pericolosa la setta. Perciò decise di andarsene di là senza indugio. Riuscì a raggiungere il cunicolo che portava all’esterno, lo percorse fino al limite estremo, ma qui si presentò il problema del portone: segni di serratura non ce n’erano, né chiavistelli. Come fare? Ritenne si trattasse di una porta messa in movimento da meccanismi segreti; così si mise a cercare in ogni angolo l’eventuale leva che potesse muovere il congegno. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare nulla. Ad un tratto posò la mano su un concio appena sporgente, all’altezza di una testa di cavallo. Come per incanto una pietra si abbassò e la grande porta girò su se stessa lasciando intravedere il mondo esterno. Lo straniero si lanciò fuori. Per sua fortuna il guardiano non era in quel momento al suo posto e così poté approfittarne per darsela a gambe.
Il cammino non fu certo facile né agevole, anche se per lunghi tratti la strada era in discesa.
Impiegò un giorno intero per raggiungere la cittadina da cui era partito, senza mai potersi fermare per mangiare o bere. Arrivò sfinito dai suoi che l’attendevano con ansia e che, dopo averlo fatto riposare e dopo averlo rifocillato, si fecero raccontare che cosa gli era successo e che cosa aveva potuto scoprire. Adanoo raccontò tutto ciò che aveva osservato e ascoltato prima di lasciare quel posto. Perciò li supplicò di preparare in fretta i bagagli e di ripartire verso luoghi più sicuri, prima che quelli della setta potessero accorgersi della sua assenza e sguinzagliassero i loro agenti per trovarlo.
Gli altri non si fecero pregare. In breve i bagagli furono pronti, i cavalli sellati e fu chiuso il conto dell’albergo. Ripartirono.
Percorsero ancora una volta la via dei laghi, risalirono le catene montuose, attraversarono i passi, ridiscesero le vallate, giunsero nel deserto di Taklimakan. Proseguirono costeggiando i monti Altun Shan fino nelle vicinanze del lago Lop Nor e alle porte della città di Yumen. Prima che entrassero in città, Temucin si rifece vivo con la sua truppa. Dopo averli fatti riposare e rifocillare, li condusse nella sua tenda e intavolò la conversazione.
– Dunque. Voi avete svolto per me una importante missione e per questo vi sono grato. Sono ansioso di sapere ciò che avete potuto apprendere.
Adanoo prese la parola e iniziò a esporre quanto avevano potuto osservare e sentire presso gli adoratori del fuoco; poi raccontò le avventure vissute presso il Veglio della montagna.
Genghis Khan di tanto in tanto interveniva, poneva delle domande, chiedeva chiarimenti. Alla fine parve soddisfatto.
– Per voi non è ancora finita – aggiunse – ora dovete dirigere la vostra attenzione alla Cina. Lì c’è un segreto che, per quanto in molti abbiano tentato di svelare, ancor adesso resiste. Riguarda quella meravigliosa tela che è oggetto di proficui commerci in tutto il mondo: la seta, il tessuto degli dei. Questo è il compito che io vi affido: svelarne il segreto. Andate e non cercate di ingannarmi, altrimenti per voi sarebbe la fine –. E per la seconda volta li congedò.
Diressero a Sud – Est attraverso le città di Lanzou, Baoji, Xi’an e si trovarono nella regione nevralgica della Cina. Tentarono a più riprese, con molta circospezione, di chiedere informazioni sulla seta, sul modo di produrla, ma per quanto si impegnassero, non trovarono nessuno, proprio nessuno, disposto ad aprire bocca: sembravano diventati tutti muti. Per un po’ proseguirono nel loro tentativo, ma poi, vedendo vano ogni sforzo, ci ripensarono. Il problema a quel punto era: cosa riferire a Genghis Khan. Ne discussero a lungo animatamente. Alla fine si risolsero che cambiare direzione era forse il modo meno rischioso per uscire da quella situazione.
Così, invece di prendere verso Nord – Ovest, diressero a Sud – Ovest, attraversarono tutta la regione meridionale della Cina e puntarono a raggiungere l’India. Di qui si sarebbero imbarcati per altri lidi dove, a parer loro, il capo mongolo non avrebbe potuto raggiungerli.
Intanto il tempo scorreva, e per la testa di Genghis Khan cominciava ad affacciarsi l’idea di essere stato ingannato. Cosa che a lui non garbava, e, se ciò fosse accaduto, prima o poi si sarebbe vendicato. Oramai aveva sistemato a suo modo i problemi del popolo mongolo, unificando sotto il suo potere le diverse anime e le diverse etnie, e perciò cominciava ad accarezzare il pensiero di inseguire quei traditori e di punirli.
Soprattutto nella sua mente si era fatta strada l’idea di rappresentare sulla terra la determinazione del volere del cielo e perciò si apprestava a conquistare il mondo, ora che tra le sue genti le cose sembravano pacificate e che egli aveva fatto di un crogiuolo di molte realtà, spesso divise e in belligeranza tra di loro, una sola volontà capace di imporre la propria forza.
Inviò i suoi figli, i nipoti, i generali ai quattro punti cardinali ad eseguire il suo piano di conquiste. Gioci, il maggiore dei figli spedì ad occidente per sottomettere varie popolazioni. Egli stesso diresse a sud, nei deserti dell’Ordos e del Kanso, dove sostavano i nomadi Tanguti provenienti dal Tibet che vi avevano eretto un regno, e li sottomise. Puntò ad ovest, tra la Zungaria, le valli del Tarim e la Transoxiana dove regnava un ramo della dinastia Liao, un tempo dominatrice in Cina e ottenne la sottomissione anche di quelle genti, alcune di origine turca. Assicuratesi così le spalle, intraprese la lunga campagna della Cina assieme a quasi tutti i principi della sua corte, da Chotagai Gioci, a Ogodai, a Gebe, a Maqali ed altri, e la condusse avanti tra alterne vicende e reiterate richieste da una parte o dall’altra di scendere a patti, ma la capitale Chung-tu sembrava resistere ad ogni tentativo di assedio. Soltanto la morsa della fame alla fine, dopo che Genghis Khan aveva ripreso le ostilità contro l’imperatore da poco insediato che, per una mossa avventata, pareva avesse contravvenuto ai patti a cui il condottiero mongolo lo aveva in qualche modo sottoposto (o almeno questo era stato il pretesto), la costrinse alla resa.
Nuovamente il Mongolo era risucchiato da un’altra grave situazione che si era determinata ai confini della Mongolia che sentiva minacciata direttamente, riuscendo, in una controffensiva con Gebe, ad estendere i suoi domini fino al Pamir, al Syr Darya e alla Corasmia. Genghis Khan giunse anche oltre, fino alle città di Buchara e di Samarcanda e, con guarnigioni staccate dal grosso del suo esercito, al di là di Amu Darya, fino al mar Caspio, per ripiegare poi sul Punjab, attraverso regioni abitate da un miscuglio di popoli turchi, arabi e di molte altre razze e costellate da innumerevoli città, molte delle quali furono sottomesse e costrette a pagare un tributo.
Ormai signore di mezza Asia, egli sognava il ritorno in patria, ma, colto da grave malattia mentre ancora una volta stava dirigendo contro i Tanguti, andò incontro alla morte: nel corso delle sua esistenza aveva costruito un impero immenso, molto più vasto e popoloso di quello di Alessandro Magno, ma che i suoi successori, come già era successo con gli eredi del grande condottiero macedone, i cosiddetti diadochi, non seppero gestire con quell’unità di intenti, con quella perizia politica e con quella intelligenza che erano necessari per mantenerlo unito e compatto. Così, nel volgere di qualche generazione questo si smembrò in un arcipelago di Khanati e di principati in contesa anche tra di loro perché privi di quell’impulso unificatore che il grande condottiero mongolo aveva tentato invano di infondere in essi.
Anche se le vicende in Cina continuavano contro i Chin che si erano attestati più a sud; anche se per qualche decennio alcuni principi e alcuni generali si spinsero ancora in terre molto lontane, fino all’India, alla Russia, all’Europa, giungendo a minacciare direttamente o indirettamente il mondo mussulmano e quello cristiano, l’ordo mongolo non mostrava ormai più quella spinta vitale profonda che lo aveva portato con la sua forza, con la sua determinazione, con la sua astuzia, con la sua prorompente vitalità e, a volte con la sua brutalità, a dominare buona parte delle terre conosciute.
Quella che ancora fu degna di entrare nel novero delle imprese mongole fu la conquista della Cina da parte di Qubilay che si insediò in modo definitivo sul trono del celeste impero dando vita alla dinastia Yuan, avventura però che determinò anche la definitiva sedentarizzazione dei mongoli che vi avevano preso parte e la fine di quello spirito nomade che ne aveva costituito il tratto saliente e la spina dorsale. In Cina il mongolo si incivilì inserendosi nel panorama culturale di quel paese, mantenendo però sempre i caratteri del conquistatore e guardando con un certo distacco gli autoctoni. Sua capitale fu Chung-tu, la Khambelik di Marco Polo che vi fu ospite, divenuta poi l’attuale Pechino.
Dalla sponda tartara dei Barlas, già sottomessa all’impero mongolo, rispose più tardi un altro condottiero altrettanto leggendario, Timur Lenk, il Tamerlano, con una avventura egualmente straordinaria, lui che di Genghis Khan si era dichiarato erede. Partendo dalla città di Samarcanda, pose sotto il suo dominio la Corasmia, il Mogholistan, la Persia, l’India, per volgersi poi contro l’Armenia, la Georgia, l’Anatolia, la Mesopotamia, la Siria, mettendo in apprensione l’intero occidente. Il sultano Bayazid, che tentò di sbarrargli la strada, fu fatto prigioniero dopo che aveva perso una battaglia decisiva presso Ancira, l’odierna Ankara, e messo a morte. La vastità dell’impero del tartaro poteva ben competere con la memoria di quello mongolo ma, ancora insoddisfatto, Timur Lenk volle emulare il suo modello anche sul fronte orientale tentando la conquista della Cina, la qual cosa non solo non gli riuscì, ma durante quel tentativo perse anche la vita.
Un’altra avventura degna della matrice mongola fu quella dei Moghul che con Baber, discendente di Timur Lenk, conquistarono l’India, unificandola nel nome dell’Islam e prosperando per lungo tempo sopra uno zoccolo induista per nulla rassegnato.



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