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Fernando Pessoa

Articolo di Massimo Barile – rivista Il Club degli autori 151-152 Luglio 2005


Fernando Pessoa: La frantumazione dell’Io in una sola moltitudine “Tra finzione inquietudine e mistificazione”

Alcuni intendono l’uso della parola come un incessante e ossessionante “inseguire le cose”, un lento e inesorabile avvicinarsi non alla loro sostanza ma all’infinita loro varietà, l’inebriante sfiorare la loro “multiforme inesauribile superficie”. Poi vi sono altri che credono fermamente che ciò che è nascosto non può interessare in alcun modo o che “la parola conosce solo se stessa” e può essere solo una debole fiamma che regala un po’ di luce nell’ambito ristretto della tenebrosa stanza nella quale sopravvivono.
In ogni caso tutti noi siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di imprevedibile, di potenziale o ipotetico, e con la nostra personalissima lente cerchiamo di scovare le tracce affioranti sul terreno della vita, di fermare con un calco di gesso i segni d’un passaggio che ha cambiato la nostra vita o addirittura la stessa storia universale.
E tutto trabocca fuori dal bicchiere come liquido alla ricerca di qualcosa di vitale, o si spande come fumo nella stanza del poeta offuscando le certezze, a volte illumina come bagliore le emozioni, esalta la percezione d’una redenzione, alimenta le immagini mentali o può far sprofondare nella vertigine immane.
Lo sguardo può essere amaro e scettico, assonnato o estatico, mentre il ghigno beffardo evapora dalle labbra e si cerca sempre una nuova dimensione, la libertà oltre il confine, la via d’uscita dalla porta principale.

***

Nel panorama della poesia del Novecento Fernando Pessoa è certamente una delle figure più inquietanti.
Fernando Pessoa fa venire il sospetto che non sia mai esistito, anch’egli invenzione o sogno di un altro scrittore, personaggio che è finzione e inganno: anonimo impiegato come traduttore di lettere commerciali in ditte lisbonesi di import-export, trent’anni della più esemplare routine d’un impiegato di concetto. “Nelle ore libere, poeta”.
Unico lascito, tranne alcuni scritti sulle riviste dell’avanguardia portoghese e la pubblicazione del poemetto Mensagem nel 1934, un baule dove tutto viene archiviato, giorno dopo giorno, ben impacchettato in fascicoli tenuti con lo spago, e per tutta la sua vita si accumulano i manoscritti con le firme dei vari eteronimi. Un poeta totalmente postumo.
Scapolo, trascurato nel vivere e nel vestire, alloggia in camere ammobiliate, pranza in taverne, fuma molto e beve ancor di più, passa molto tempo in biblioteca e legge di tutto, eppure è una personalità letteraria stupefacente con un tesoro nascosto, un uomo riservato, antiretorico, quasi imperturbabile e capace di un’analisi lucida e impietosa, di una gelida e scettica ironia.
È in quel baule, nel quale aveva stipato più di ventisettemila testi autografi, la continua scoperta e riscoperta di un Pessoa diarista, critico letterario, giallista, redattore di autoanalisi di tipo psicoanalitico, e poi le provocatorie interviste dell’eteronimo Alvaro de Campos, le dispute, le lodi e le critiche fra gli eteronimi, le visioni astrali, le poesie esoteriche, e dulcis in fundo, le annotazioni dei poteri radioscopici della sua vista. Tutto pare rendere ancora più complessa e indecifrabile la sua figura e contraddire quell’aspetto di impiegato dimesso e prevedibile: il solito cappello di feltro, lo stesso vestito scuro che pare non conoscere la tintoria, occhiali e baffi sottili, l’immancabile sigaretta sempre accesa, le camere in affitto in modeste pensioni, le rituali soste al caffè per le solite chiacchiere, ed è inutile sottolineare che il caffè è sempre lo stesso. Eppure quest’uomo è capace di un tremendo viaggio dentro se stesso, di scendere nelle viscere fino a scovarne ogni movimento, sognare una molteplicità di anime diverse, vivere l’assurdo e la solitudine, misteriosamente e magicamente.
La genialità latente, si può dire che circola sotto la pelle, nella puntigliosità con la quale i personaggi inventati vengono dotati di anagrafe, caratteristiche fisiche, difetti, personalità differenti per ognuno di loro: nella creazione di questi personaggi inesistenti tutto è razionalizzato e, alla fine, i poeti diventano autentici, autosufficienti e nient’altro importa. Non c‘è più l’altro ma l’alter ego, l’eteronimo.
E la solitudine dell’uomo, la monotona vita da impiegato, diventano metafora di una solitudine esistenziale segnata dall’orario d’ufficio e dal tragitto alla sua camera d’affitto: alla sera annota appunti d’ogni genere e in un diario, che è così neutro da sembrare una cartella clinica, scrive il resoconto delle sue giornate che trasudano di solitudine.
E poi una sera di marzo del 1914 nasce il primo eteronimo a cui seguiranno gli altri, con tanto di minuziosa scheda anagrafica che vedrà la nascita dei famosi Caeiro, Campos e Reis. La sua vita privata assai riservata vedrà poi l’unica amicizia sentimentale della sua vita con Ophélia Soares Queiroz, una signorina di buona famiglia, anche lei impiegata in una delle ditte dove aveva lavorato Pessoa, ma sarà una sorta di gioco morboso con lettere geniali, ciniche e strazianti il cui epilogo è già conosciuto.
Ma la cosa straordinaria è che l’impiegato Pessoa, dopo essere tornato a casa, sembra trasformarsi: affronta grandi temi come la solitudine, la coscienza, le suggestioni culturali e le avanguardie della poesia, il male di vivere, l’accettazione di un mondo immutabile. Eppure continuerà a fare quel lavoro per tutta la vita quasi per “non voler farsi notare, per mascherare il vero Pessoa, nella solita mistificazione”.

Di sicuro Fernando Pessoa non fece suo il pensiero «Ottimo è ciò che massimamente è Uno» infatti egli fu uomo con personalità plurima, tutti e nessuno: le molteplici facce di uno scrittore che lascia un baule pieno di scritti dopo aver vissuto in un mondo di specchi infiniti, dopo aver ricercato l’anima “altrove” e aver indossato tutte le maschere possibili delle nostre angosce ed inquietudini.
Si ha la percezione o la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un genio in una stanza piena di gente e al contempo desolatamente vuota: un equivoco, una finzione continua, autentico “caso poetico” dove l’Io si traveste a seconda delle occasioni e soggiace a quella necessità di fingersi altri fino a diventare un bugiardo allo specchio con la sua personale tragedia e le sue molteplici reincarnazioni letterarie. O forse Pessoa fu “ignoto a se stesso” e quelle vite parallele non furono altro che un modo per non scoprire le “segrete cose”, per rimanere l’uomo mascherato, misterioso e fingitore fino all’ultimo.

Poeta della finzione, sciamano spaesato, maestro del nulla, mistificatore e nichilista, poeta delle maschere, uomo solitario che “fumava la vita”, adoratore delle sciarade e ingegnere dell’anima: decadente, anarchico, teosofo, esoterico, irriverente e politicamente scorretto. Pessoa fu quasi tutto e tutti.
Il Mago di Lisbona, con il corpo a Lisbona e l’anima altrove come scriverà Manlio Cancogni su Il Giornale nel luglio del 1987, con una vita vissuta nell’anonimato, con il suo arcano testamento dopo aver contratto un patto con il diavolo apponendo una firma falsa.
Fu il poeta che inventò se stesso: uno, nessuno infiniti Pessoa.

Il grande poeta portoghese si mostrò dietro molti pseudonimi a ognuno dei quali costruì una storia e una poetica: ecco allora che in una sorta di delirio tutto viene stravolto, tra vita e finzione, tra schiavitù dell’apparenza e innamoramento del nulla.
La puntigliosa mistificazione e quel continuo nascondersi con i suoi travestimenti letterari sembra comunque rimandare ad un gioco e alla capacità di vivere l’essenza di un gioco e come scrive Antonio Tabucchi (uno dei maggiori studiosi di Pessoa e a lui si deve la valorizzazione del poeta) «non ad una finzione ma ad una metafisica della finzione, o ad un occultismo della finzione, forse addirittura ad una teosofia della finzione» e il poeta dai mille volti, il più misterioso del Novecento, diventa il centro occulto di tale processo.
«Il gioco di Pessoa è giocare il gioco, risolverlo nel non porlo» come sottolinea Antonio Tabucchi.
«Quando scrivere è scoprire l’interminabile, lo scrittore che entra in questa regione non supera se stesso verso l’universale. Non va verso un mondo più certo, migliore, meglio giustificato, dove tutto si ordini secondo la chiarezza di una luce giusta. Non scopre il bel linguaggio che parla con decoro per tutti. A parlare in lui è il fatto che, in una maniera o nell’altra, egli non è più se stesso, non è già più nessuno»: così scrive Blanchot a proposito della “regione” nella quale avviene la finzione metafisica dello scrittore, la sua spersonalizzazione.

Un uomo schivo e solitario, riservato e contemplativo, con un’esistenza lontana dal fracasso, dai clamori e dalle dispute, ineguagliabile geloso custode della sua vita privata e formidabile occultatore anche di fatti quotidiani e semplici gesti d’amore che prima o poi appartengono anche alla vita più monotona. Pessoa lascia senza parole, annienta anche la più debole intenzione di disvelare l’umano vivere, la parola esplode all’interno dei ritratti che fanno parte di una personale galleria. Come sperduti viandanti siamo condotti a spasso all’interno di ogni quadro e, tenendoci per mano, Pessoa, con aria distratta, ci informa che è inutile cercare il punto d’orientamento con la bussola della vita perchè in realtà non ci troviamo mai all’interno del quadro, ma “oltre”, “ al di là”, e allora tutto va in frantumi, come se la stessa vita fosse stata pensata da un altro, e non esistesse quadro, paesaggio o ritratto, né cornice da infrangere per liberare la ricchezza d’un gesto artistico: una vita da latitante di se stesso, in un altrove dove pensa e scrive, l’esistenza sembra un pensiero che esiste ma non ha un luogo. Un’assenza conturbante che, con le sembianze e le parole di Alvaro de Campos, invita Ophélia a buttare nella fogna “l’immagine mentale” di Pessoa: ecco allora che entrambi, Pessoa e l’eteronimo, diventano in ultima analisi un’invenzione, un’idea di qualcuno che non è nessuno dei due.
Pessoa «teme tutte le filantropie, non ama le carità teoretiche, le utopie solenni e carismatiche, è una plurima, mostruosa cattiva coscienza di tutti noi. Pessoa è un grido di dolore e un belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del suo teorema. Pessoa è una concrezione, una di quelle creature che sembrano unte dal destino a sommare in sé pene che non appartengono loro. Pessoa ha capito che in ogni sì, c‘è un minuscolo no, un corpuscolo portatore di un segno contrario che gira in un’orbita oscura a creare proprio quel sì che prevale. E ha deciso di indagare l’orbita oscura, come un bizzarro scienziato che esplora il lato patologico della salute». ( così osserva Tabucchi in Un baule pieno di gente). Un “solenne investigatore delle cose futili” nel suo non volere assolutamente insegnare niente: non rimane che l’oscuro grumo del bambino Fernando che diventa il poeta Pessoa.
Una maschera magica, una figura misteriosa, una personalità stupefacente con un libro inedito nascosto, ambiguo e illuminante, enigmatico e sciamanico. I frammenti si ricompongono attraverso le parole dei molteplici volti di uno scrittore: una sorta di paradossale autenticità consegnata a noi da un insuperabile fingidor: a noi la scelta tra Pessoa Ortonimo, Alvaro de Campos, alto e elegante, ingegnere metafisico con monocolo, modernista e futurista, esuberante cantore del non senso e delle energie vitali; Ricardo Reis, l’esteta classicizzante, poeta ellenista e oraziano, demistificatore della morte; Alberto Caeiro, il “maestro” il cui verso sciolto rifiuta ogni sorta di trascendentalismo, o l’insonne Bernardo Soares, uomo dimesso, inquieto e umile impiegato come Pessoa, e poi ancora Alexander Search, Barao de Teive, Antonio Mora, Raphael Baldaya, Charles Robert Anon o l’investigatore filosofo antipositivista Abìlio Ferreira Quaresma.
Una galassia che non esiste, una utopia letteraria che rivela con “ferocia” il segreto della sua sola moltitudine: «Mi sono moltiplicato per sentire,/per sentirmi, ho dovuto sentire tutto,/sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi,/mi sono spogliato, mi sono dato,/e in ogni angolo della mia anima c‘è un altare a un dio differente». La non accettazione dell’unicità dell’essere, essendo quanti più altri uomini poteva essere, e contemporaneamente. Eppure Pessoa sa benissimo che «manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase, e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa». Il vuoto sentimentale e la mancanza di affetti lo condurranno all’alcolismo e il senso di abbandono e solitudine diventeranno insopportabili.
Pessoa scriverà «ogni uomo che meriti di essere celebre sa che non ne vale la pena».
«Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi».

Per Pessoa scrivere significa perdersi, perchè tutto è perdita, lui non contempla la possibilità del ritorno «ho riempito le mie mani di sabbia, l’ho chiamata oro, e ho aperto le mani facendola scorrere via… la frase era stata l’unica verità... tutto era ormai fatto, il resto era la sabbia che era sempre stata».
Ha sempre rifiutato di essere compreso perchè essere compreso significa prostituirsi. «Ho preferito essere preso seriamente per quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza».
Ecco allora la considerazione ultima: «Siediti al sole. Abdica/e sii re di te stesso».
«La perversione di abdicare al reale per possedere l’essenza del reale» in una radicale rimozione che fa di Pessoa il poeta del rovescio, dell’assenza e del negativo di tutto il Novecento.
E a questa visione Pessoa è sempre rimasto fedele, con lucidità e coerenza, senza cercare un luogo dove manifestarsi o raccogliere consensi. Non un gesto di pentimento, impensabile una conversione.
Solo una Grande Opera rimasta nascosta e postuma.
«Se quando sarò morto vorrete scrivere la mia biografia/non c‘è niente di più semplice./Ci sono solo due date: quella della mia nascita e quella della mia morte./ Fra l’una e l’altra tutti i giorni sono miei». Sublime.

(Lisbona, 13 giugno 1888 – 30 novembre 1935)

Massimo Barile



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