Io abito il tempo

di

Filippo Inferrera


Filippo Inferrera - Io abito il tempo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 68 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-7982

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In copertina: “Foglie adagiate nel tempo” di Maurizio Cavallucci


Pubblicazione realizzata con il contributo de “Il Club degli autori” in seguito al conseguimento del 1° posto nel concorso letterario Il Club dei Poeti 2015


Prefazione

Nella silloge di Filippo Inferrera, “Io abito il tempo”, la funzione lirica assume toni di sapiente narrazione e, nella propensione riflessiva del discorso poetico, prevale la maturità della sua voce recitante che sa fondere canto e recupero memoriale in uno spessore unico dal carattere lirico ed evocativo.
Il giacimento delle evidenze esistenziali emergerà compiutamente e diventerà l’atto salvifico del sistema poetico completamente dominato dall’animus del poeta creatore che sta compiendo il percorso di scoperta.
Il pregio di Filippo Inferrera è di mostrare una coscienza lucida sulle origini della sua poesia: egli possiede il dono di far coincidere, in un continuo processo che plasma e reinventa, il suo profondo impegno stilistico con l’essenza della sua poesia e il tempo storico con la testimonianza personale, generando una coscienza acuta, capace di pervenire ad una maturazione stilistica, padrona d’un linguaggio recitante e d’una dimensione rivelatrice: i segni poetici, la magia delle immagini, la presenza del paesaggio natio, la capacità di volgere anche a visioni astratte, il ricorso alla presenza di figure ispiratrici, sempre definiscono poeticamente la situazione umana caratterizzata dal corale dramma esistenziale.
La sua propensione a proiettare su un fondo cosmico i “bagliori” poetici significanti e a plasmarli ed inglobarli in un ampio tessuto lirico, innalza la sua coscienza poetica alla dimensione del romanzo della propria vita: il poeta diventa, infine, il testimone maturo e lo storico della realtà che ha attraversato.
La stessa poesia, “Io abito il tempo”, che apre la silloge e regala il titolo alla raccolta, rappresenta il simbolico tempo della memoria, dove il poeta “danza dentro il fuoco della sua bellezza”, diventa ossatura stessa del senso del tempo, “goccia di cielo” e impenetrabile contemplativo silenzio, umano impulso al desiderio di sognare “solo con la nuda parola”.
È la limpida Parola lirica di Filippo Inferrera che si espande in un intenso dialogo/colloquio negli spazi della sua umanità per recuperare ogni emozione, per trattenere i ricordi, esaltare il piacere, contemplare il muto dolore, superare la paura e rivelare segnali d’amore, quel sentimento d’amore che possa “proteggere”.
I suoi versi sono “vergati a sangue” mentre il poeta si muove lungo i sentieri della vita dove si ricompongono le “memorie più tenere”, dove si raccolgono i “frutti dal sapore asprigno”, dove la “cara terra” amata risveglia sensazioni dell’“indimenticabile infanzia”, densa di colori e vasti orizzonti, dove, infine, la luce del ricordo diventa “debito di fede”.
L’estrema facilità nel poetare, prerogativa assoluta e dominante di Filippo Inferrera, conduce il poeta ad offrire un verso che fluisce limpido, genuino e spontaneo, substantia inderogabile del suo lirismo raffinato, ricercato e calibrato.
Il desiderio del poeta è che le sue liriche si “narrino piano” come a gustarle con pazienza, per assaporarne il senso profondo, i silenzi della solitudine, la velata malinconia, il carattere “schivo e distante” d’un uomo, per viverne i mutevoli giorni ed il senso della vita stessa.
Il suo cuore è “ricco di ricordi” e la sua poesia è “storia di parole”, tra la visione del poeta e “l’inseminata vecchiaia”: testimonianza infaticabile d’un uomo che ne riconosce il “fuoco sacro”, costantemente affamato d’emozioni, fino a confessare “ancora oggi mi emoziono quando parlo d’amore”.
Ecco allora che, nella trama del suo “diario d’amore”, “l’amica poesia” trova posto “dentro una corona di stelle”, con la sua forza capace di generare alchimie, con i suoi “percorsi di parole e silenzi”, “tra sacrifici e magiche aurore” che hanno costellato il cammino, invadendo ogni spazio della memoria.
Le stagioni dell’anima diventano la necessità vitale di rimembrare quella memoria “in un carosello di luci ed ombre”: il tempo della fantasia e della speranza, l’impeto lirico a “resistere”.
Nella filigrana del Tempo Filippo Inferrera ricerca il prodigio, perché lui “non ha mai perso l’incanto”, sempre alimentando il suo universo d’emozioni e profonde riflessioni dentro le pagine di un diario che incarna la vibrante prosa lirica dove fluiscono i ricordi, tra “scenari di solitudine” e la ricerca costante del “senso da dare alle parole”: ecco la vita vissuta sulla “pelle da naufrago”, il seme vitale che s’innalza a preghiera per “cogliere il soffio eterno della poesia”.

Massimo Barile


Io abito il tempo


Io abito il tempo

Io abito il tempo
dentro il mio scheletro da fiero cavallo
io abito il tempo
il tempo delle pietre e delle farfalle
dei crateri dei vulcani delle terre disabitate
l’amore sarà tutto camminerò senza soste
con dita di sale con occhi di chitarra
io abito il tempo
il tempo delle mie memorie della mia infanzia
anche della mia vecchiaia che non mi fa paura
il tempo senza porte ma con sconfinati oceani
aiutami madre del mio sangue a galoppare
sopra i fiumi scavalcando il suolo delle foreste
con le scarpe affamate dell’avventuriero
che sempre ritorna lungo il suo camino affumicato
io abito il tempo
da mille anni da quando tu dormi nella mia amaca
da quando mi accarezzi i capelli umidi di pioggia
da quando sei l’amante generosa della mia solitudine
da quando le nostre mani sfidano l’infinito
come è lungo e breve questo tempo dei conventi
dei bicchieri di vino sopra il tavolo dei pescatori di perle
dei migranti che affogano dentro il mare ingordo
io abito il tempo
mi fermo ad orecchiare lungo la strada a baciare la polvere
sono una piccola mela sono una goccia di cielo che nasce
sono vivo e la mia vita danza dentro il fuoco della sua bellezza
a te l’affido mattino dei miei anni voglio sognare senza occhiali
senza regole senza protocolli solo con la mia nuda calligrafia
con l’orgoglio della mia parola e dei miei silenzi.


Acqua passata

Supinamente mi riavvolgo nel silenzio
in quel colore bianco della tua assenza
che m’inghiotte in un pugno di muschio
un’altra musica interpreta tutti i miei gesti
è l’innocenza è un inganno da mercato
d’accordo quando avevo estranee paure
le paure descrivevano importanti geometrie
di segnali d’amore che erano corpo di vita
in questa terra asprigna seminata di ricordi
ti amo sempre innamorato del melograno
e vorrei rivedere la tua casa di sassi e sale
ridere tra le feritoie di una finestra chiusa
vorrei sentirti ancora un male necessario
in me irrisolto con tutta la potenza del fiore
acqua passata invece dentro un calco da re
dalle spalle ricurve sopra un carro di gitani
dove per terre avare l’antica pena ho espiato
dove ho imparato che la gente non è amica
dove resisto con la mia maschera riverniciata
come un assuefatto paziente che si sorprende
del troppo e del niente di tutto della sua malattia
e più tardi di una lucida indifferenza che graffia
la pelle e rende ostaggio l’ultima luce della notte.


Altrimenti

Altrimenti non ha senso dire
come fiorisce il melo
perchè dura la pupilla impazzita
nel ricordo
qui ritaglio questa neve per passatempo
e tutto questo non mi appartiene
è il gioco della razza
l’ineludibile mutazione di pelle
altrimenti
sarebbe giusto affondare le spade
ritornare in preghiera nello stesso luogo
dove s’impongono la luna e la saggezza
tra voci espropriate a primavera
nel diverticolo dei brusii
nella tua mano erotica nel volo d’aquila
altrimenti
è la grande voragine che si dispiega
la parola che trama vergognosamente
dal sapore asprigno
enigma di amoreodio densità di fede
e tutto questo non mi appartiene
è scrivere messaggi vergati a sangue
avere accenti clandestini
abusati in certi bar del porto
o cuore di cristallo
avevamo lo stesso Dio in fondo
un pelo duro che scacciava l’ignobile
e scriveva feroci dolcezze
dentro fotogrammi di ghirigori di sabbia
ora divorami le vene calda sera
altrimenti
una coda lunga d’insetti
un rischioso gioco d’azzardo
un falso riquadro d’autore
sarà la nostra vita.


Ammiro l’amore

Ammiro l’amore e i frutti che lascia
della rosa il profumo della strada la vita
ammiro ammirato lo stupore dei vecchi
il sorriso di un bambino e nel buio della notte
lo sfarfallìo delle stelle il sereno pulsare del cuore.
Non sconfessarmi padrone dell’ignoranza
cecchino vigliacco nella carne e nella mente
che usi i fantasmi del crepuscolo per deflagrare i sogni
non rendere salato il pianto non inquinare il sangue
non spegnere l’orgasmo di una passione vergine
non dilaniare il sole.
Un tempo custodivo il nostro silenzio nella gerla
come un pane caldo di lavoro un sasso di fiume
una perla rubata dalle profondità dell’oceano
un tempo danzavo sopra le tue fresche impronte
mi pascevo di erbaluce in ogni spazio della mia umanità
solo e schivo distante e diverso primo e ultimo.
Madre mi spoglierei della paura se solo avessi coraggio
per recuperare ogni traccia di tolleranza ogni pura emozione
la purezza delle preghiere l’intaglio della fede il candore.
Madre ammiro l’amore dalla mia finestra quello antico
ma so di viaggiare con la littorina del tempo in folle corsa
verso traguardi prezzolati in un mondo di funamboli corrotti
e cerco in me sempre l’amore per proteggermi e sognare
dentro un cielo oramai morente senza arcobaleni
che mi tarpa le ali e ruba gli ultimi lapilli alla vita.


Autodromo

Il suo nome già crepitava nella giostra dei pensieri
danzavano gli uccelli tra le pieghe delle nuvole
un cavallo alato saltò le scale e ruppe i drappeggi del vento
una fanciulla operosa lavorava nei turni della notte
il granoturco esplodeva dilavato dalle acque impure
la madre dondolava il bimbo docilmente abbandonato.
Per sopravvivere usavamo giochi di morte annunciata
in quartieri sfilacciati colpevoli di memorie e di vita
la musica prendeva il cuore tracimando dai canali gonfi
anche i ragazzi erano pesciolini gioiosi dentro il fiume
e i giorni erano solo il tempo della miseria e del dolore.
La giovane guida aiutava i turisti a volare alto sui merli
di castelli nelle stanze di ville di regnanti saturi di storia
nelle zone di metropoli infarcite di velluto e di desolazione
dove le scarpe non s’infangavano dove esisteva il mercato
e la libertà provvisoria dove l’aria era limpida e suadente.
Bella notte vestita di ermellino quando tutto sembra normale
una goccia di sangue sul selciato un barcone di povera gente
che s’inabissa sotto la tempesta una nuova giovane vita
che nasce e la torre che s’illumina al passaggio dei gitani
uniti nelle loro balalaiche dall’aria eroica e malinconica.
In questo autodromo di corposa umanità tanto variegata
curvò con nonchalance nell’ultimo gomitolo di asfalto
tra maschere e Santi in processione lungo il Corso maggiore
una grande luna di cristallo che si librò leggera e poi svanì
dentro la galassia di un cielo distratto invaso d’inquietudine.


Canterò tutta notte

Canterò tutta notte sopra la città dormiente
e me ne andrò solo quando verrà la pioggia
insieme all’innocenza
dammi la tua piccola mano e saltiamo e saliamo
dove i mattini misteriosamente nascono universo
dove lo spazio non è più dolore
giorno vestito di vento e di naufragi naviga nel cielo
e poi galoppa con la tua coda azzurra verso il fuoco
posa sul mio capo la tua giovinezza
il mio amore lo amo con i suoi magici occhi argentati
amo le sue mani leggere le sue filastrocche armoniose
e ogni aggraziata preghiera sotto la luna
ho lasciato scritto sul foglio il mio capolavoro di vita
ogni piacere indescrivibile ogni muto dolore d’infinito
e di nuovo la sera mi parla traboccante
miriadi di stelle belle nell’apparire si dileguano alla luce
trattengo limpidi i miei ricordi che sciamano come gondole
desidero essere senza peso né destino
vorrei entrare a piedi nudi come un ragazzo che conquista
la gioia ovunque esista la gioia finché regna la gioia e poi
guardarti come si guarda chi si vuole benedire
ora nel salutarti sciogli le tue bionde trecce risvegliami
fino a stancarmi donami senza timore sorella Morte
il colore in bianco e nero dell’ignoto.


Chitarre al plenilunio

Suonano doloranti strepiti d’amore chitarre al plenilunio
sopra barconi di cartapesta dondolano corpi infreddoliti
una brezza di ponente scivola tra le fessure delle braccia
aggrappati a sguardi di paura e di sgomento senza luce
silenzi scoppiano come bolle di sapone private di musica.
L’ultima erba di cielo inseguono in un mondo più umano
un mondo senza trincee né genocidi né stupri di massa
tra le falsità delle promesse cercano nuovi campi di grano
e destini senza angoscia e nuvole d’acqua per purificarsi
tra le labbra serrate cieli di aquiloni raggianti di esistere
esistere tra le mura di città vive in mezzo a gente amica.
I rintocchi del vecchio campanile segnano la disperazione
di tante vite comprate e rivendute di tanti bambini orfani
la terra futura è il vento sferzante di un grido di speranza
i nostri passi rischiano di ferire le montagne e fare rumore
e a poco a poco tutt’intorno si accendono le stelle noi siamo
comparse querce sradicate pellegrini di un grande deserto
merce e carne da baratto migranti di marmo senza calendari
qualcuno spalanchi le rocce e faccia entrare gli angeli veri
forse la terra non sarà più morta se avrà l’odore della rugiada
il sapore delle stelle il tepore di un domani sempre ccogliente
forse è questa la nostra terra dove attraccano i ceri della notte
dove sotto il manto di un’aria sonnolenta danzano nei viottoli
di sere stellate antichi scugnizzi innamorati.


Dal nulla futuribile

Mordono i suoni questo terreno argilloso
e segni d’infanzia rigano i sentieri della vita
dove si ricompongono le memorie più tenere
dove il sangue si rinnova regalando meraviglie.
Sconosciuto è il percorso dello spazio che divide
e un caro segreto feconda nelle scorie del passato
ma non mi perderò tra i fiori delle mie menzogne
né lungo le incrinature spesse delle mie impotenze
musica amica che ho già sentito che ho già suonato
un filtro sano alle mie ossa un becco al mio sapere
febbre di sole materia che non ha finzioni di stelle.
Ora dal nulla futuribile lascio arpionare il silenzio
ora tranne le gentili occasioni delle tue belle mani
mi basta raccogliere i frutti dal sapore asprigno
dando senso alla mia civile appartenenza d’uomo.
Ho un debito di fede e voglia di ali che mi facciano
planare dove non ci sarà più un bagliore che uccide
resteremo sospesi sopra un filo temuta solitudine
io e te senza testimoni con il cuore in un fagotto
e un sasso lanceremo all’eco moribonda del giorno
perché si faccia strada il destriero della speranza
perché la nebbia non giunga all’improvviso e resti il gelo.


Destini

Ci portarono via i nostri casolari e le anime
con tanto disprezzo e brutale vigliaccheria
con sguardi che mai furono umani e sinceri
ci portarono via i ricordi e tutte le speranze
depredando le nostre poche uniche masserizie
con tracotanza beffarda di biechi dominatori
ci portarono via i genitori i bambini le mogli
senza usare modi di ragione e di discrezione
con astuzia e malizia costruendoci passaporti
fasulli verso territori senza patria dove morire
ci portarono via anche la nostra stessa esistenza
mortificando il patrimonio di origine e di razza
profanando la fede la cultura la dignità il decoro
e con la violenza ci impedirono di sottoscrivere
le nostre iniziali sopra le cortecce degli alberi
perché la nostra storia di vita nobile e millenaria
fosse meno trasparente bruciarono i nostri nomi
profanando luoghi di culto case biblioteche scuole
e diventammo un numero dalle fattezze di pietra
girovagando con i nostri fardelli in paesi stranieri
dove ci accolsero con diffidenza e ci emarginarono
con falsi sorrisi spogliandoci delle nostre identità
mettendo in atto ogni perversa democrazia di Stato
disponendoci in fila davanti ad una palizzata illegale
riservandoci diversi destini che non ci appartengono
abbandonati in un crocevia di vite che non hanno più
né stagioni né canzoni né un giaciglio per invecchiare
né una tomba in qualche Cimitero del mondo per pregare.


Diario senza ali

Con le mani la testa il viso il corpo
l’ultimo anelito mi concederai
e poi accenderai la luce del ricordo
per guardarmi negli occhi intensamente
e dirmi pensieri.
Mentre si allagava il sogno ci lasciammo
la pelle amorosa languiva nel contatto
mentre la mia pena incupiva i tramonti
e l’anima era in riserva.
Sei stato il profondo biancore delle vette
il coraggioso volo del gabbiano ma anche
il coriandolo di pianura che non ha saputo volare
prima di sfiorare l’erba molle del prato.
Apro le pagine vergini di un diario senza ali
e vuol dire soffrire un giorno senza sera
e non ritrovare più l’abbraccio la fratellanza
soltanto il rancore è un capriolo ferito nel recinto
che zoppica nel filo d’aria di una montagna indifesa.
Siamo stati particelle di un grande clamore
assenso dissenso che accendevano il mare
fino all’indifferenza di una nebbia mattutina
fino al silenzio della parola per implorare
quali fossero i giorni del nostro tempo finito
quando le raccontavo le inquietudini e i desideri
e lei ascoltava tacendo sospesa nel sereno dei colori.
Ora lei ha una finestra chiusa e un odore smarrito
di terra posata sul suo corpo senza peso né futuro
e io la veglio coniugando tempo e spazio in vile fuga.


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