Ho sposato un cinese di Midu

di

Fiori Picco


Fiori Picco - Ho sposato un cinese di Midu
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 166 - Euro 14,50
ISBN 978-88-6037-9733

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In copertina: «Le divinità protettrici del matrimonio» fotografia dell’autrice
All’interno: fotografie dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto la silloge è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2010


Questa la motivazione della Giuria:

«Un racconto autobiografico che recupera l’universo emozionale e lo scrigno memoriale delle vicende della propria vita: l’amorevole ricordo dell’incontro con l’uomo che diventerà suo marito, proprio davanti alla vecchia fontana della scuola dove lei insegnava lingue straniere; le tradizioni, le cerimonie e i rituali; il modo di vivere e le esperienze profonde di una ragazza italiana in Cina nonché i mutamenti intervenuti, nel giro di pochi anni, anche in quel mondo. Tutto è raccontato con grande passione e amore per la terra cinese senza dimenticare di conservare uno sguardo critico». Massimo Barile


Prefazione

“Ho sposato un cinese di Midu” di Fiori Picco è un racconto autobiografico che pone in primo piano l’universo emozionale dell’Autrice e recupera, dallo scrigno memoriale, le vicende della propria vita che diventano esperienze uniche ed irripetibili di un percorso che ha condotto al coronamento dei propri desideri e che, fin dall’inizio, ha visto un susseguirsi di “segni premonitori”, un sottile filo rosso che lega i giorni della vita fino all’avverarsi del sogno di vivere in Cina.
Come ben sottolinea Fiori Picco, dopo poche pagine del suo diario in terra di Cina, lentamente ma inesorabilmente, sembrava compiersi un “radioso” mandala, al contempo, molti episodi della sua vita assumevano un nuovo significato e “ogni cosa cominciava ad avere un senso”: la favola cinese del libro regalatole dal nonno che raccontava la storia d’amore di Fiore d’Estate, che era già il primo forte segno del destino; l’amore profondo per la cultura cinese e la passione per la letteratura; la scelta di studiare in una università del nord della Cina; gli incontri che segneranno le sue future scelte; e persino il suo nome, che cambierà in Xue Lian, Loto delle Nevi, fiore che cresce sulle vette dell’Himalaya, rarissimo e prezioso, fiore sacro ai monaci buddisti, simbolo di purezza e forza interiore, e poi, l’amore per il giovane Zhao Biao Zu che diventerà suo marito.
Tutto ha inizio con il viaggio in Cina, nei primi giorni di ottobre dell’anno 1999, per studiare lingua e letteratura cinesi all’università: il primo approccio avviene con un ambiente rurale, con immensi campi coltivati, con le vecchie case tradizionali e un mondo che rappresentava ancora un patrimonio di cerimonie e rituali nonché un meraviglioso legame con l’essenza segreta di quella Terra, un paese ricco di cultura, saggezza e spiritualità.
Fiori Picco racconta la sua storia con grande passione e coinvolgimento, illuminando le visioni che ha fissato per sempre nei suoi occhi: ecco allora che rivivono di luce infinita, il cielo azzurro che sembra “intagliato in una pietra turchese”, le immense distese di “erba verde brillante”, le tradizionali “bianche case rurali”, i colori della natura e i sapori della tavola, il dolce profumo dei fiori di champak e i preziosi batik delle etnie, il “vecchio e il nuovo” che si mescolano armoniosamente in un incastro impensabile di moschee, templi buddisti e santuari taoisti; pagode ingiallite di epoca Tang e grattacieli, ville di mandarini imperiali e sfarzosi centri commerciali, bazar dove “trovare qualunque cosa”, negozi di giade e mercati coloratissimi.
E poi, i ricordi dei suoi professori e la laurea su una scrittrice contemporanea cinese, Tie Ning; poi l’incontro con Dany, una ragazza “originale”, appassionata di astrologia cinese e pratiche esoteriche, che gestiva un negozio di antiquariato con il fidanzato; poi, l’amica Samuela, compagna di università che viveva nel sud ovest, a Kunming, nella provincia dello Yunnan; e ancora, ma non meno importante, l’incontro con il monaco Zhen Guang, Luce della Verità, che predirà il suo incontro con un giovane di Kunming.
Quando lei inizierà ad insegnare lingue straniere all’Università Normale di Kunming, tra gli studenti che frequenteranno le sue lezioni ci sarà proprio “quel giovane”, un ragazzo speciale, intelligente e dagli occhi color onice… e tra loro, come era già stato preconizzato, nascerà un amore profondo.
Nel continuo flusso memoriale scorrono le immagini e le emozioni, l’esperienza, “viva e pulsante”, di una donna, sempre accompagnate dalla profonda conoscenza dell’animo umano e della sua dimensione spirituale.
Come in un distillato del senso della vita si attua un continuo disvelamento delle percezioni più intime e un’attenzione alla riscoperta dell’essenza stessa del proprio vissuto, attraverso una sorta di diario di una “viaggiatrice viandante” nelle atmosfere del passato e, allo stesso tempo, di una donna che, nel presente, “vive”, incontra la felicità e l’amore.
Ecco allora che le “semplici presenze” e gli insegnamenti preziosi, le rappresentazioni letterarie ed il forte richiamo dell’animo, illuminano il cammino.
La vita si plasma con il mondo che osserva e “sente dentro di sé”: tra le famose lanterne rosse e i pranzi alla trattoria Panda con le seggiole tappezzate di stoffa con il disegno di una foresta di bambù; lo spuntino dal vecchietto all’angolo della strada che vende patate arrostite e le magiche e colorate visioni di luoghi pervasi di fascino; magari assaggiando, tang hulu, la frutta caramellata su bastoncini di bambù e cosparsa di semi di sesamo e, come sottofondo, sentire risuonare nelle strade le voci dei monaci che recitano le preghiere in lingua tibetana.
E poi si celebrerà il primo matrimonio misto in tutta la storia del distretto di Midu, l’unico figlio maschio della famiglia Zhao, sposerà una ragazza italiana, proprio lei, giovane insegnante di lingue straniere, “dai capelli d’oro e dagli occhi di giada”, con una festosa cerimonia nel tradizionale matrimonio cinese: vestita con il qipao1 di damasco vermiglio e, con sé, un talismano contro gli spiriti malvagi; mano nella mano con il suo sposo fino al cospetto dello sciamano indovino e poi il grande falò acceso dalla gente del paese che “doveva agilmente essere saltato perché ciò significava superare facilmente le difficoltà e vivere una vita di coppia animata dal fuoco della passione” e, infine, il banchetto nuziale a sigillo di una giornata di festa.
Fiori Picco, con una scrittura capace di affascinare, rende, appassionatamente e fedelmente, l’essenza del suo viaggio, l’intima forza che le ha permesso di vivere una storia meravigliosa; la capacità di osservare il modo di vivere di un popolo, le sue tradizioni e le cerimonie, di gustare i sapori, di inebriarsi dei profumi della Terra cinese e di confrontarsi con una cultura differente nonché di fissarne criticamente le contraddizioni ed i mutamenti intervenuti nel corso di pochi anni dal suo approdo in quella Terra.
La forza narrativa di Fiori Picco è magica e si apre come ampi “ventagli di bambù” che alimentano il desiderio di scrivere delle meraviglie osservate in luoghi lontani e tutto si miscela nelle parole come in un antico cerimoniale, in un rituale propiziatorio.
Ne emerge, in modo deciso e vigoroso, la profonda esperienza esistenziale di una ragazza che riesce a vivere il suo sogno e trova l’amore proprio in quel mondo che ha sempre sognato, come nella favola di quel libro che era già un chiaro segno del destino e come un monaco aveva predetto.
E tutto ciò si è avverato in una sera di fine settembre. Una sera speciale.

Massimo Barile


Ho sposato un cinese di Midu


Alla mia piccola Asia


I

Uno scalpitio di cavalli risuonò festoso per il distretto di Midu. Cinque puledri dal manto di seta trotterellarono in fila lungo la via Yan e i sonagli d’ottone appesi alle criniere brune trillarono nell’aria come un’allegra musica. Gruppi di persone si stavano dirigendo ad un matrimonio ed erano accalcate sui carri, sedute su cuscini di velluto policromo dai motivi di margherite e di girasoli. Chiacchieravano animatamente e discutevano del fatto che presto avrebbero partecipato alle nozze “speciali” dell’unico figlio maschio della famiglia Zhao.
Le case bianche dai tetti di pietra e i piccoli poderi erano inondati dal sole tropicale; alcune fattorie si nascondevano dai raggi cocenti trovando ombra tra una vegetazione rigogliosa di palme, felci e aloe che cresceva spontanea e selvaggia sul fianco della montagna. Sul ciglio della strada, vicino ad un ponte antico, i fabbricanti di lapidi funerarie scolpivano ininterrottamente grandi lastre di marmo cenerino ricavandone autentici capolavori d’artigianato locale. Il marmo arrivava dalla città di Dali ed era il più pregiato di tutta la Cina. Ad opera ultimata le facciate delle imponenti tombe familiari sembravano pagode elaborate, vere e proprie leggende in rilievo raffiguranti animali dello zodiaco, Laozi, Confucio e altri vecchi sapienti, divinità femminili, Buddha e santi. Nelle campagne intorno si estendevano campi di mais, frumento e zucche, disseminati di graziosi spaventapasseri e orti immensi irrigati con estrema cura e dedizione; più in là giacevano altri cottage ricoperti di gerani rossi e pervinca, frutteti di peri e melograni.
Una donna di circa quarant’anni con in testa un cappello paglierino dalla forma allungata stava lavorando nel giardino della sua casa colonica. In mezzo al cortile si ergeva per qualche metro una pianta di nespole dai cui frutti e foglie avrebbe ricavato infusi medicinali per tutto il villaggio, antico rimedio contro la tosse e la bronchite. Il clima torrido e secco di quel paesino dell’entrovalle e il vizio comune a tanti indigeni di fumare il narghilè non giovavano alla salute e costringevano spesso la gente a ricorrere a semplici e naturali ricette per placare fastidiosi problemi alle vie respiratorie.
Quel giorno, già di mattina presto, la forte calura aveva pervaso i vicoli del paese. Alcuni vecchietti stavano seduti davanti ai portoni di legno intarsiato delle loro case, sventolando ampi ventagli di bambù e sorseggiando una bevanda dolciastra sulla cui superficie galleggiavano chicchi di riso soffiato; altre persone, radunate nei cortili interni, giocavano a carte o a mah-jong e mangiucchiavano semi di papavero e di girasole, fagioli secchi e sottaceti dal gusto agro-piccante. Le contadine, accucciate sui talloni, spennavano polli e lavavano cavoli vicino ad un pozzo di pietra e i loro visi coloriti e rubizzi grondavano di sudore sotto i copricapo rustici di paglia, sotto i cappellini a tese larghe di garza lilla e crema.
La donna che coltivava nespole aveva zigomi sporgenti, occhi piccoli e neri come la pece e carnagione rossastra. A Midu svolgeva principalmente tre mansioni: preparare sciroppi e tisane, mungere il latte fresco da distribuire al vicinato in bottigliette di vetro e fare la sensale di matrimoni. In Cina la sensale, chiamata anche mezzana, era una figura di rilevante prestigio, infatti accompagnava gli sposi durante la cerimonia nuziale e compiva per loro antichi rituali propiziatori usando oggetti e cibarie dai precisi significati simbolici.
Guardò l’orologio appeso in salone, posò a terra gli attrezzi da lavoro e corse a cambiare la giacca di panno con una camicetta fresca di bucato. Gli invitati sarebbero arrivati presto a casa dello sposo e lei doveva ancora aiutare la famiglia a sbrigare alcune faccende domestiche. I preparativi erano a buon punto; bisognava solo andare a comperare altre anatre arrosto e un paio di sacchi di arachidi. Non capitava tutti i giorni di celebrare nozze così particolari! Il figlio della famiglia Zhao aveva scelto come sposa una ragazza italiana, una straniera dai “capelli d’oro e dagli occhi di giada”, il primo matrimonio misto in tutta la storia del distretto!
Intanto, in un piccolo albergo del centro di Midu, io stavo aspettando che mio marito venisse a prendermi per condurmi a casa. Quel giorno, in occasione del mio matrimonio tradizionale cinese, indossavo un qipao di damasco vermiglio; la foggia dell’abito era antica e richiamava la moda degli anni Venti, con tante sottili frange di tessuto applicate sul fondo della gonna. I miei lunghi capelli di un biondo fulvo erano stati raccolti dietro la nuca e incastonati con fiori di lamina dorata e perle rosse. Ai lobi delle orecchie portavo dei pendenti di ceramica dello stesso rosso acceso, mentre i piedi calzavano due scarpette a punta di seta ricamata. Circondata da una dozzina di parenti e amici italiani, appositamente arrivati dall’Italia per partecipare alle mie nozze, ero tuttavia intimorita. Pensavo che presto avrei dovuto affrontare una folla di persone incuriosite e attratte dal mio aspetto diverso e avrei dovuto anche rispettare una serie di riti cerimoniali che caratterizzavano i matrimoni del luogo e con cui, ovviamente, non avevo molta dimestichezza.
All’improvviso un frastuono assordante di petardi scoppiettanti disposti a grappoli sugli alberi di quella via antica annunciò l’arrivo del mio sposo. Venne accompagnato da un gruppo di amici e preceduto da un simpatico vecchietto che suonava una lunga tromba decorata con un fiocco rosso. Lo strumento produceva un suono acuto, chiassoso e ripetitivo, tipico dei matrimoni cinesi, che richiamava l’allegria e la festa. Il rumore era una componente fondamentale delle nozze; secondo antiche credenze popolari, infatti, petardi e musica servivano a spaventare i demoni. Zhao Biao Zu mi consegnò uno specchietto da tenere sempre nel palmo della mano. Aveva la forma circolare e la cornice rossa. Mi disse:
“È un talismano contro gli spiriti malvagi, perché riflette e respinge ogni sorta di malocchio.”
“Devo tenerlo sempre in mano?”
“Sì, non lo devi mai posare, perché porterebbe sfortuna!” Seguiti da una lunga processione di parenti e conoscenti, ci incamminammo felici verso la casa dei miei suoceri.
Quella mattina il cielo azzurro sembrava fosse intagliato in una pietra di turchese; le alte palme dalle foglie verdeggianti e le bianche casette rurali erano il nostro romantico palcoscenico. Percorrendo la via Yan si potevano ammirare le immense distese di erba verde brillante che scendevano dai fianchi delle colline; i mughetti, le margherite e i fiori di lavanda tingevano quel verde di macchie gialle e viola. In alcuni campi i docili bufali conducevano l’aratro con moto lento, affaticato, ripetitivo, e i loro dorsi neri, incurvati dallo sforzo, richiamavano il profilo delle montagne all’orizzonte. La gente del paese aveva disposto e acceso un bel falò fiammeggiante lungo il tragitto che conduceva al luogo del banchetto. Tutti ci dissero di saltarlo con destrezza e senza esitazione, perché racchiudeva in sé il significato di “superare facilmente le difficoltà” e di “vivere una vita di coppia animata dal fuoco della passione.” I vicini accorrevano curiosi e ci sorridevano, rallegrati da un matrimonio così insolito. Alcuni si soffermavano a guardarmi, a contemplare la sposa arrivata da un lontano occidente. Era una bella giornata di festa e le donne si erano agghindate per l’evento. Le bambine di sette o otto anni erano andate tutte dalla parrucchiera e avevano i capelli pieni di brillantini e di pailettes, cotonati e impiastricciati di uno spray colorante dalle sfumature verdi, blu e fucsia. Saltavano gioiose e, pettinate in tale modo, sembravano tanti colorati pappagallini. Alcune signore mature, prosperose e dalle gote rosse come pomodori, portavano ai polsi bracciali di giada cristallina e di argento cesellato. Le ragazze in età da marito tenevano i capelli lunghi sciolti dietro la schiena, lisci e lucenti come piume di fagiano nero e, sogghignando allegramente, lasciavano intravedere sorrisi di madreperla.
Zhao Biao Zu ed io percorremmo mano nella mano una via pervasa di quiete, in mezzo a case dall’architettura tradizionale che odoravano di antichità: mura di pietra, tetti spioventi, piccoli portoni di legno, misteriosi cortili interni da cui provenivano voci, rumori e versi di animali. Davanti alla casa di mio marito uno sciamano ci stava aspettando. Era molto anziano, aveva la pelle scura piena di grinze e i suoi denti parevano una pannocchia di mais abbrustolita. Dinnanzi a sé aveva disposto un altare con un pesante contenitore di legno, una specie di giara colma di granaglie, riso e monete d’argento. L’oggetto era un antico reperto, un tesoro da collezione della famiglia, simbolo di benessere e abbondanza. L’uomo incominciò a pregare, recitando lunghe litanie e borbottando orazioni in un dialetto sconosciuto. Non capivo cosa dicesse ma intuivo che ci stava benedicendo. Mio marito ed io, in piedi davanti a lui, eravamo raccolti in una posa di soggezione; nel palmo della mano stringevo quello specchietto magico che mi avrebbe protetta da ogni forza oscura e negativa. Poi l’uomo anziano, il santone-sacerdote, invocando il Cielo bruciò al vento alcuni fogli di carta colorata e incensi profumati. Era l’indovino del distretto; abitualmente prevedeva il futuro nel tempio del paese usando teschi di gallina e lunghi bastoncini di legno. Le persone lo invitavano ai matrimoni perché erano convinti che fosse un medium, che riuscisse a comunicare con gli dei e l’aldilà.
La casa di Zhao Biao Zu era una vecchia casa tradizionale come tutte le altre ed era stata interamente decorata con lunghe strisce di pergamena rossa dipinte a mano dai calligrafi. Su ogni striscia era scritta una poesia in tema allo sposalizio. Le porte, le finestre, le mura del giardino interno alla casa erano state vivacizzate da quei nastri rosso porpora che richiamavano il colore del sangue, dell’amore, della gioia. Le pennellate d’inchiostro nero delle Odi agli Sposi, decise e corpose, riportavano con la mente alla vecchia Cina dei mandarini e dei letterati. Alcune paragonavano gli sposi a coppie leggendarie di innamorati, come “la giovane tessitrice e il pastore”; altre mi descrivevano bellissima, come una riproduzione di Chang’ E, la fata immortale che viveva in un castello sulla luna. Tutte le pergamene esaltavano e celebravano il matrimonio libero, l’amore per scelta e per convinzione.
In giardino a chiacchierare e a gustare un piccolo rinfresco erano seduti tutti gli invitati; tra questi spiccava in primo piano la figura del nonno paterno, un uomo alto, fiero e dalle maniere signorili. Si distingueva tra la folla, con in testa il suo colbacco di folta pelliccia, la casacca in stile orientale bene abbottonata, le mani grandi e rugose che reggevano un bastone di tartaruga. I suoi occhi erano oscurati da una sottile patina vischiosa che gli impediva di mettere a fuoco le persone; tuttavia, mentre rosicchiava semi di girasole e gustava the verde amaro, sorrideva, e la sua espressione comunicava contentezza e approvazione per le nozze del nipote favorito.
Mentre agli invitati venivano offerte caramelle al mou e praline, la mezzana e lo sciamano ci fecero accomodare nella camera da letto nuziale, che era situata nel padiglione centrale della casa. La stanza era stata allestita per l’occasione ed era di una bellezza commovente. Quando la vidi mi emozionai perché sapevo che era stata arredata a nuovo per noi, e con quale gusto, con quale armonia di tinte! Il pavimento, cosparso di uno spesso strato di aghi di pino, simbolo di pace e di armonia familiare, emanava un fresco e intenso profumo di bosco. Il letto matrimoniale era corredato di una coperta di piumino d’oca imbottita di noci ai quattro lati e di un lenzuolo in raso ricamato a mano dalla madre del mio sposo, con motivi di farfalle multicolori, peonie e due anitre mandarino. Lo sciamano ripose l’antico contenitore di legno sul comodino accanto al letto e aiutò la mezzana a preparare alcune cibarie. La donna ci fece prima bere in due coppette di bronzo del vino dal sapore di fragola; quindi ci offrì del cibo: prima degli spaghetti dolci conditi con zucchero rosso di canna come augurio di lunga vita insieme e poi delle piccole prugne cotte e sciroppate a significare fertilità. Le due coppette di bronzo, lo specchietto anti-demoni e gli altri oggetti rituali furono infine appoggiati nella giara antica, insieme ai cereali, alle monetine e a due candele rosse, affinché vegliassero la camera da letto fino a tarda sera.
Dopodiché il vecchio sciamano annunciò a suon di tromba il banchetto nuziale, che si svolse in un grande giardino. Vi partecipò tutto il paese. Tanti tavolini e seggiole erano stati disposti per il pranzo, programmato per le quindici del pomeriggio, e su ognuno di essi erano già pronti per il consumo vassoi colmi di antipasti freddi: spaghetti di riso, noccioline, alghe e sottaceti. Le donne di Midu ebbero un gran daffare quel giorno, aiutandosi a preparare i piatti più importanti, deliziose vivande tipiche del luogo: lo zampone di maiale agli aromi, il salame cotto, l’anatra laccata, la zuppa di pollo nero ruspante, le radici di loto ripiene di salciccia, il prosciutto a bastoncini fritto in pastella, le costolette impanate al vapore, degli strani tuberi a forma di trottola saltati in padella, il pesce di lago in salsa di peperoncino, la polenta di farina di piselli, la torta fritta al sesamo e marmellata di soia e poi ancora tanti altri piatti, tante leccornie per l’appetito di così tanti invitati. Ma per loro non era faticoso, erano abituate, in quel paese la gente si aiutava nei momenti di bisogno e la propria dimora diventava la casa di tutti. I pentoloni di latta borbottavano, bollivano e stufavano i cotechini; gli wok di ferro nero friggevano le carpe e i vapori impregnati di aceto, spezie ed erbe aromatiche salivano al cielo blu, sorpassando le fattorie e i loro tetti spioventi. Mani rugose, mani grassocce, mani abbronzate, mani di nonne, di madri e di giovani spose sfornavano torte e focacce profumate, affettavano i salami e gli arrosti sui taglieri di legno, tagliuzzavano gli spicchi d’aglio, il prezzemolo fresco e i peperoncini e mescolavano gli ingredienti all’olio di sesamo e alla salsa di soia, preparando deliziosi intingoli con cui condire le carni e la polenta. Tutti brindavano a noi, ridevano e parlavano una lingua strana. In quel paese non si diceva mai “bevi un bicchiere di…” perché sarebbe stato sgarbato, infatti il verbo “bere” indicava dosi ridotte e consumate a piccoli sorsi. Le persone dicevano:
“Mangia una tazza di vino! Mangia questo buon vino rosso!” Il “mangiare” infatti si riferiva a grandi quantità! Alcune invitate esprimevano degli apprezzamenti sul mio aspetto, commentando:
“Com’è bianca questa sposa! Guarda la sua pelle!”
“E come porta bene il qipao! Ha uno stile nobile.”
Il banchetto terminò alle diciotto del pomeriggio, quando uno scialle di pizzo corallo coprì il cielo annunciando il tramonto del giorno. I miei ospiti italiani tornarono all’albergo del centro, mentre gli amici del luogo approfittarono di quella rara occasione di festa per giocare ancora una volta al domino cinese.
Seduta nella camera nuziale mi sciolsi davanti al mobile-specchiera la capigliatura elaborata, togliendo dai capelli le perle rosse e i fiori d’oro. Nella stanza si diffondeva una luce fioca proveniente dalle due candele accese nella giara sul comodino e si respirava il profumo acre dei rametti verdi di pino che, sul pavimento, formavano uno spesso tappeto. Guardai il lenzuolo di raso disposto sul letto e mi sembrò un quadro ad olio, con quei ricami di peonie e farfalle variopinte, una tavolozza di tinte brillanti e sfavillanti. Notai le due anitre mandarino, che nella cultura tradizionale cinese erano il simbolo degli amanti, e poi il mio sguardo si posò sulla coperta di piumino d’oca adagiata accanto. Chiesi a mio marito:
“Perché i quattro lati del piumone sono imbottiti di noci?”
“La noce racchiude nel suo guscio un frutto… con questa coperta la famiglia dello sposo spera che la coppia possa al più presto dare alla luce un bambino.”
Sorrisi e pensai alla mia incredibile storia; diversi anni prima non avrei mai immaginato che un giorno sarei stata la protagonista di un matrimonio cinese! E non avrei mai pensato di trascorrere la prima notte di nozze in un remoto paese dello Yunnan dalle tradizioni antichissime! Ora mi trovavo in quel padiglione immerso in un paesaggio bucolico, nella tranquillità campestre di una sera di fine settembre; fuori il cielo sembrava una preziosa stoffa di velluto, punteggiata di tanti minuscoli diamanti; a farci compagnia solo il canto dei grilli e la luna d’avorio avvolta da una bruma di stelle…


II

Questa storia ha inizio in una città industriale della Cina del nord, una metropoli fredda, uggiosa, impregnata di nebbia e di smog. Era il millenovecentonovantanove e tutti si stavano preparando a festeggiare il nuovo millennio, che in Cina sarebbe caduto sotto il segno del drago, l’animale più potente dello zodiaco. Era la prima volta che mi recavo in Asia per studiare all’Università e anche la prima volta che avrei trascorso il Capodanno Lunare con gli indigeni. Sentivo nel profondo del cuore che quell’anno sarebbe stato propizio per delineare le basi del mio destino.
Avevo deciso di studiare lingua e letteratura cinesi in una città settentrionale, nella provincia a nord del fiume Giallo. Arrivai il primo di ottobre, giorno della festa nazionale, con un treno partito da Pechino gremito di gente che giocava a carte, mangiava rumorosamente spaghetti precotti in brodo e semi di girasole, di bambini particolarmente grassi che ingurgitavano gelatine di frutta, wurstel e patatine. Tre lunghe ore per arrivare a destinazione, interminabili ed estenuanti. Dal finestrino si vedeva la Cina rurale, fatta di case rustiche, campi, orti, contadine che trasportavano gerle e bilancieri. In quello scompartimento ero l’unica occidentale, stravolta e con gli occhi gonfi, reduce da una notte insonne trascorsa su di un volo intercontinentale. “Università Normale dello Hebei” era scritto sulla valigia in bella vista; avevo scelto quella destinazione perché era il posto ideale per apprendere la lingua; tutti mi avevano detto che al nord la gente parlava il mandarino puro2.
Giunta al campus mi sentii subito a mio agio e non perché il luogo in cui mi trovavo fosse particolarmente bello o accogliente, ma perché finalmente il sogno di vivere in Cina si stava avverando. L’inserviente del dormitorio, una ragazzona burbera con la faccia larga e quadrata punteggiata di acne giovanile, mi assegnò la camera; la stanza era la numero seicentosei, al sesto piano di uno spoglio e austero edificio adiacente la grande biblioteca. Non era nuova ed era anche molto spartana e per questo motivo mi piacque; non avevo assolutamente intenzione di cercare una sistemazione lussuosa! La ragazza, senza usare alcun detersivo, con uno scopettone intriso d’acqua diede una rapida passata al pavimento polveroso, poi estrasse dalla tasca dell’uniforme due bustine di tè verde che appoggiò sul comodino accanto al thermos dell’acqua potabile.

Quando uscì dalla camera osservai ogni particolare: le due tazze in stile Ming di porcellana bianca e blu in primo piano sul cassettone, il letto duro di legno con la testata dipinta di peonie, i pesanti tendaggi di velluto amaranto, il termosifone spento che si sarebbe acceso soltanto i primi di novembre. Presa da una forte emozione, non riposai subito e mi affiorò alla mente un ricordo dell’infanzia a me particolarmente caro, legato alla figura di mio nonno materno e anche a quel paese così lontano e misterioso che avevo sempre avuto nel sangue.
Una mattina stavo giocando in salotto con le bamboline, mentre nonno Vincenzo era indaffarato in cucina. Qualcuno improvvisamente suonò il campanello di casa. Lui si diresse verso l’entrata ed io rimasi a giocare nell’altra stanza. Quando tornò in salotto teneva tra le mani un libro e mi disse:
“Qualcuno mi ha dato questo per te!”
Afferrai quel dono incuriosita ed entusiasta. Era una fiaba ambientata in un antico villaggio cinese. Raccontava la storia d’amore tra Fiore D’Estate, una ragazza splendida vestita di sete sgargianti, dai lunghi capelli neri adorni di giade, topazi e rubini e Ah Tuan, un giovane acrobata che si esibiva in danze e spettacoli folcloristici durante le feste popolari. I due giovani si erano conosciuti nel palazzo del Re Drago. Le illustrazioni erano multicolori, i personaggi delicati e raffinati, le trame avvincenti. Leggendo quel libro venni per la prima volta a conoscenza della Cina, della gara dei battelli drago che si svolgeva ogni anno il quinto giorno del quinto mese lunare, dei costumi tradizionali degli imperatori. Quella favola mi affascinò talmente tanto che non riuscii più a levarmi dalla mente l’idea di vivere in estremo oriente e di studiare la cultura del “Paese di Mezzo.” Chi aveva consegnato nelle mani del nonno un libro per me che parlava dell’antico villaggio di Suzhou? Forse una fata immortale nelle vesti di un venditore di libri porta a porta? Quella favola era un segno divino, di predestinazione? Non seppi mai da lui la verità, perché da bambina non mi venne subito in mente di chiedergli chi fosse stato quel giorno a consegnargli il libro. Per me era naturale ricevere un regalo. Da adulta, quando incominciai a pormi questo quesito, purtroppo, il mio caro nonno mi aveva già lasciata.
In quel momento, seduta sul letto della camera cinese, per quanto affaticata fossi e per quanto mi facesse male la schiena, ripensai intensamente a quel singolare episodio della mia vita e riprovai la stessa emozione, lo stesso entusiasmo di allora. Fuori c’era la Cina che mi aspettava, quella che avevo sempre sognato e che il nostalgico clima autunnale risaltava maggiormente, conferendo una magia particolare ai palazzoni grigi, alle foglie tinte di zafferano che svolazzavano dagli alberi, all’odore di baozi3, zuppa e tagliolini che si confondeva nel clima umido e nella nebbia perenne, ai volti curiosi e pacifici della gente, alla moltitudine di biciclette e di corriere “parlanti4”. Avevo la sensazione che quel meraviglioso paese tanto ricco di saggezza, cultura e spiritualità mi avesse aspettata a lungo. Finalmente, mi sarei potuta gettare nel suo immenso abbraccio.
Mi ambientai per qualche giorno e poi appresi dal direttore della segreteria che i corsi sarebbero incominciati soltanto due settimane dopo. Approfittai dunque della stagione autunnale ancora mite e del clima abbastanza piacevole per tornare a Pechino. Com’era bella la città a quel tempo! Quando la visitai io, circa dieci anni fa, non aveva nulla dell’aspetto odierno, della metropoli olimpionica dai grattacieli spropositati. Era ancora la vecchia capitale asiatica, misteriosa e intrigante, coi negozi e i bazar dove si poteva trovare qualunque cosa, i ristoranti con le lanterne rosse appese all’ingresso, nelle viuzze l’odore del maiale in agro-dolce e dei tang hulu5, per la strada le pubblicità degli anni settanta in stile cartolina d’epoca, i giocolieri e gli ammaestratori di scimmie che intrattenevano i passanti nei vicoli, i venditori di grilli, le drogherie con esposte in vetrina le torte della luna6, le studentesse timide dalle lunghe trecce, i risciò, i bimbi di un anno o due che correvano felici con le piccole natiche scoperte7 lungo la Piazza Tian An Men.
Un pomeriggio presi un taxi e mi diressi a Liu Li Chang, la via antica degli artisti e degli antiquari. Lungo una strada brulicante di persone dai capelli d’inchiostro, tra centinaia di negozi che vendevano vasi di porcellana e cloisonné, mobili, lacche, statuette, giade e oggetti in tartaruga, incontrai una giovane pittrice originaria di Xian, che dipingeva delicati acquarelli raffiguranti concubine della corte imperiale. Entrai nel suo negozio, un bugigattolo stretto tappezzato di quadri, e acquistai due suoi dipinti: alcune dame di epoca Tang dalle guance rosa pesca come petali di fiore, disegnate con estrema precisione con un piccolo pennello dalla punta sottilissima. Mi disse:
“Sei qui per studi?”
“Sì, vivo all’Università dello Hebei.”
“L’ho immaginato. Ti fermerai molto?”
“Sei mesi.”
“Non puoi pensare di rimanere in Cina per così tanto tempo senza adottare un nome in lingua locale.”
“Lo so. E mi piacerebbe che fosse un’artista come te ad aiutarmi a sceglierlo. Intendo una persona dotata di estro, gusto e fantasia.”
“Va bene. Lasciami pensare… sei molto carina e gentile. Mi viene spontaneo chiamarti Fiore di loto. In Cina tante ragazze si chiamano così! I nomi di fiori esprimono leggiadria e bellezza.”
“Grazie! È un nome poetico. Tu invece ti chiami…?”
“Shi Rui”
“Ti lascio per ricordo un mio biglietto da visita.”
Era stata un’idea originale: prima di partire per la Cina avevo ordinato su misura un blocchetto di bigliettini da distribuire agli amici che avrei conosciuto. Su quei rettangoli di carta bianca lucida erano incisi il mio nome e cognome italiani e dipinti i due simboli che li rappresentavano, ovvero il picco di una montagna e un fiore che cresceva sulla cima, una composizione bucolica e decisamente naif, adatta ad uno dei suoi acquarelli. La pittrice nel guardarlo esultò:
“Aspetta! Bisogna cambiare il nome. Questo è il Loto delle Nevi, “Xue Lian”, il fiore che cresce sulle vette dell’Himalaya.” Mi spiegò che in Cina il mio nome era una pianta medicinale, un vegetale rarissimo e prezioso, sacro ai monaci buddisti.
“È simbolo di purezza e di forza interiore, proprio perché sbuca in mezzo ai ghiacciai perenni, in condizioni climatiche rigidissime.”
“Che straordinaria coincidenza! Mai avrei immaginato che il mio nome, così insolito in Italia e anche in tutta Europa, esistesse proprio dall’altro capo del mondo! Allora d’ora in poi mi chiamerò così!”
“Esattamente, Xue Lian! È ancora più bello del primo!”
Quando tornai all’università, fiera ed entusiasta di avere un nome cinese così importante e significativo, il campus si era tramutato in un quadro invernale dal cielo grigio-perla; dopo una quindicina di giorni la tela di quel dipinto cambiò nuovamente sfumature e diventò un bosco innevato; i cespugli erano ricoperti di trine e merletti impalpabili, i rami di fiori di pruno erano incastonati di fili argentati che emanavano una luce metallica particolare.
Frequentavo ogni giorno le lezioni di cinese che si svolgevano nelle vecchie aule del dipartimento di Lettere dai banchi di legno consunto, in cui si respirava ancora l’atmosfera di venti anni prima. Ai muri, tinteggiati di un verde spento, erano appesi i ritratti dei presidenti Mao e Deng e c’erano anche lunghi papiri di carta ingiallita dipinti dai calligrafi, massime e poesie di personaggi famosi della politica. I miei docenti di letteratura erano una coppia di anziani professori, marito e moglie, soprannominati dal gruppo della classe “gli gnomi”: bassi, paffutelli, con le gote rosse, sorridenti e gioviali, sembravano proprio quei bambolotti dipinti sulle lanterne di carta di riso che decorano le case cinesi durante la festa di primavera. Lui era così simpatico e spiritoso; spesso ci raccontava alcuni divertenti aneddoti riguardanti la cultura tradizionale in Cina. Per esempio una volta ci descrisse come si svolgevano le nozze nell’antichità. Ci disse:
“A quel tempo la sposa era velata; il suo capo era ricoperto da un drappo di seta rossa e lo sposo vedeva il suo viso solo una volta terminata la cerimonia, nella camera da letto nuziale. Con un ventaglio le sollevava il velo e in quel momento, poteva avere solo due reazioni: se la sposa era bella tirava un sospiro di sollievo e si compiaceva soddisfatto; se invece era brutta, sussultava dallo spavento e diceva “Oh mio Dio, ho sposato un dinosauro!” Il professore raccontava la scenetta immedesimandosi nel personaggio maschile, gesticolando, assumendo espressioni buffissime e ridendo a crepapelle. Durante il fine settimana mi invitava spesso a casa loro; faceva parte di un gruppo corale e ogni volta si esibiva davanti ai suoi ospiti con le più note canzoni patriottiche dell’Ex Unione Sovietica. La moglie invece era specializzata nel preparare i ravioli con il ripieno di trita di maiale e d’erba cipollina. L’appartamento era situato all’interno dell’Università ed era tutto rivestito in legno chiaro, proprio come la baita di due gnomi. Ogni volta il professore mi apriva la porta e diceva sempre la stessa frase:
“Mia moglie è in cucina che prepara i ravioli. Come li fa lei non li sa fare nessuno!”
Dopo alcuni minuti anche lei spuntava in salotto, spettinata e infarinata, e, con la sua voce stridula da cantante dell’Opera di Pechino, diceva:
“Che stanchezza, ho cucinato tutta una mattina per fare questi ravioli!” Ripeteva quella frase anche durante tutto il pranzo, mentre fissava gli ospiti con espressione fiera e orgogliosa, sperando che questi continuassero a farle complimenti e le dicessero:
“Che bontà, che squisitezza!”
“Vero che sono i ravioli più buoni che abbiate mai mangiato? Sì, però che faticaccia!”
Il professor Zhao, invece, insegnava grammatica: miope, dagli occhiali enormi formato televisore, aveva un cuore grande come un palazzo ed era sempre disposto ad aiutare i suoi studenti. Fu proprio lui un giorno a dirmi:
“Xue Lian, presto dovrai conseguire la laurea. Hai già in mente che tipo di tesi scrivere?” Gli dissi che nella libreria universitaria di Venezia8 avevo trovato una raccolta di novelle di una scrittrice contemporanea cinese.
“Credo sia di Pechino. Mi piacerebbe tradurre le sue opere.”
“Come si chiama?”
“Tie Ning. È abbastanza famosa in Cina, vero?”
“È una mia amica. Se vuoi te la presento!”
“Mi sta dicendo che vive qui in città?”
“Proprio così. Faccio un paio di telefonate e ti organizzo un incontro!”
Qualche pomeriggio dopo il professore venne a prendermi all’entrata della scuola con una vettura nera, alla guida l’agente personale di Tie Ning. Non avrei mai pensato di poter incontrare di persona una delle scrittrici più note e amate dai lettori cinesi! Raggiungemmo l’Associazione Culturale degli Scrittori di cui lei era Presidente e fummo fatti accomodare nella sala da tè. L’ambiente era di classe, c’erano disposti tante poltroncine e tavolini di vimini verde. Prendemmo un tè agli otto tesori aspettando il suo arrivo; al contatto con l’acqua bollente i crisantemi appassiti, i datteri rossi e i cubetti di menta si sciolsero lentamente esalando un soave profumo, talmente dolce e rinfrescante che l’agitazione che avevo provato fino a quell’istante scomparve del tutto e quando, dopo qualche minuto, lei apparve davanti ai miei occhi, mi rilassai completamente. Era sorridente e aveva un’espressione dolce, amabile. La sua pelle di porcellana era cosparsa di un velo di cipria, mentre il rossetto color garofano e l’ombretto ben studiati le risaltavano i lineamenti del viso tipicamente nordici.
Dopo le presentazioni incominciammo a discorrere dei suoi romanzi. Mi chiese quali libri avessi letto e quale preferissi tra le sue novelle. Mi venne subito in mente una delle sue prime opere e dissi:
“Ah, Neve Fragrante!”
“Perché? Ti piace il personaggio?”
“È una ragazza molto delicata e candida d’animo.”
“Sì, come quasi tutti i protagonisti dei miei racconti. Trovo che un po’ ti assomigli. Tu ti chiami Xue Lian; è un nome che ricorda il suo, perché nasce in mezzo alla neve fragrante! Anch’io amo particolarmente questa novella perché è il frutto del mio periodo di rieducazione culturale9.” L’autrice mi spiegò di aver vissuto per diverso tempo in mezzo alla gente semplice e genuina delle campagne del nord, proprio quella che avevo intravisto dal finestrino del treno al mio arrivo; osservando le giovani contadine, che ogni mattina partivano per andare alla stazione ferroviaria a vendere panieri d’uova, aveva scritto quel racconto. Mi disse anche che negli ultimi anni il suo stile narrativo era cambiato; da ragazza amava scrivere dei giovani perché era una di loro; con la maturità, invece, aveva incominciato a trattare le tematiche femminili e anche a parlare degli anziani.
“Potrei tradurre una delle sue opere per la tesi di laurea?”
“Certo. Mi farebbe molto piacere. Ti vorrei omaggiare del mio ultimo romanzo, si intitola Per sempre! E per quanto?” Mi donò il libro con la dedica; la copertina era come lei: raffinata, elegante, realizzata con una bella carta color rosa antico su cui era impressa la fotografia dell’autrice in bianco e nero.
Dopo quell’incontro incominciai a pensare a tutti gli avvenimenti bizzarri che mi erano capitati nella vita, ed ebbi la sensazione che nulla stesse avvenendo per caso. Tantissimi particolari sembravano piccoli tasselli di un mosaico iridescente. Era come se una divinità orientale stesse dipingendo nella cappa del cielo un radioso Mandala; tutte le storie raffigurate su quel dipinto erano gli episodi della mia vita. Ogni cosa incominciava ad avere un senso preciso: il mio nome di battesimo, la favola di Fiore d’Estate, Ah Tuan e il Re Drago, l’amore per la cultura cinese, la passione per la letteratura, la scelta di studiare in quell’università del nord. Il tempo, intanto, scorreva lentamente, scandito dai gesti quotidiani, le lezioni, i miei pasti tutti uguali al “Panda”, una piccola trattoria con le seggiole imbottite di una stoffa che rappresentava una foresta di bambù e tanti panda in miniatura, quasi sempre e ancora una volta una porzione di ravioli al vapore fumanti o di Chao Bing10, poiché era molto difficile ordinare un piatto di verdura!
“Xue Lian, oggi come li vuoi i ravioli? Al ripieno di maiale o di manzo?” Mi chiedevano le signorine del Panda con cui avevo fatto amicizia. Il locale, modesto e popolare, era tuttavia sempre molto pulito e accogliente. Fuori, lungo la strada, scorrevano velocemente le biciclette e le corriere cittadine, suonando campanellini e clacson e sollevando un grande polverone. C’era una lunga fila di ristoranti tipici e le cameriere, dalle giacche di seta imbottita con crisantemi e fiori di pruno damascati, invitavano le persone ad entrare per assaggiare le specialità, come il famoso pollo agli anacardi o le striscioline di carne in salsa pechinese. Avevano tutte mani screpolate e sanguinanti dal gelo. Nell’aria c’era sempre l’odore d’aceto, aglio e cipolline, ingredienti indispensabili delle zuppe e anche la fragranza del frumento con cui venivano preparati tagliatelle, frittelle e panini al vapore.
Ogni pomeriggio passeggiavo nella neve, lungo il viale alberato che circondava l’Università, e mi rifugiavo in qualche negozietto che vendeva romanzi classici o contemporanei, tuffandomi tra le pagine dei libri sgualciti e un po’ sporchi. A quale annata risaliva l’edizione di quel testo? Quanti studenti avevano sfogliato quelle pagine? Il Sogno della Camera Rossa, Il Padiglione delle Peonie, Lo Scimmiotto, I Briganti11… Poi comperavo sulle bancarelle qualche cartolina rossa di capodanno, con l’immagine del drago in rilievo: artigli di fuoco, squame lucenti, coda di pesce, bestia magica, fiera, aristocratica, emblema imperiale, era anche una divinità popolare, venerata dai contadini, protettrice dei fiumi, del raccolto e degli affari. Era emozionante toccare quei biglietti, riproduzioni d’arte, uno diverso dall’altro. All’interno c’era sempre una sottile carta di riso profumata. Mi piaceva collezionarli. Pensavo:
“L’anno del drago la prossima volta cadrà tra dodici anni e chissà dove sarò allora. Forse non avrò mai più l’occasione di stringere tra le mani questi oggetti così significativi per il popolo cinese.”
Facevo spesso uno spuntino dal vecchietto all’angolo della strada, che vendeva patate arrostite. L’uomo indossava un lungo cappotto verde militare, con il collo e il colbacco di pelo marrone. Fuori, a volte, incontravo gli amici del dipartimento di musica, ragazzi estroversi e fantasiosi, soprattutto cantanti lirici interessati allo studio dell’italiano e a tutto ciò che riguardava la cultura di “O Sole Mio.” Anche loro, con giaccone imbottito, guanti e berretto di lana, si scaldavano lo stomaco gustando una patata dolce, prima di iniziare la lezione della sera.
Le zone dell’università, solitamente animate da centinaia di studenti, il sabato e la domenica diventavano ampi spazi deserti e silenziosi. Quella era una città del nord, intorno all’area non c’erano altro che fabbriche, caserme militari e vecchi edifici. Ogni pomeriggio dopo le sedici, la nebbia colore beige per via dello smog, impregnata di fuliggine e densa come un budino, avvolgeva quelle costruzioni e sporgersi dal cancello principale della scuola per andare al Panda diventava un’impresa quasi impossibile. Qualcuno mi aveva detto: “A luglio il viale dell’università si riempie di fiori e di cespugli rigogliosi”; ma stentavo ad immaginare come sarebbe potuta cambiare l’immagine dell’istituto senza il manto di neve e le stalagmiti di brina che pendevano dal tetto di una pagoda in stile cinese che, solitaria e malinconica, guardava la cupa facciata della biblioteca.


NOTE

1 Abito tradizionale cinese, attillato, con spacchi laterali, bottoni a farfalla, solitamente di seta o damasco.

2 La lingua ufficiale in Cina.

3 Grossi panini ripieni al vapore.

4 Sulle corriere una voce registrata continua a parlare dando indicazioni stradali e comportamentali.

5 Frutta caramellata infilzata su stecche di bambù e cosparsa di semi di sesamo.

6 Dolci tipici della Festa della Luna, di forma tonda, ripieni di pasta di loto, frutta candita e pinoli.

7 I bambini cinesi non portano i pannolini e hanno i calzoncini aperti.

8 Università Ca’ Foscari di Venezia.

9 Durante la Rivoluzione Culturale i giovani intellettuali vennero “rieducati” e inviati a lavorare nei campi.

10 Striscioline di focaccia saltate in padella con uova e verza.

11 I classici della letteratura cinese.


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