L’ombra di Lucifero

di

Francesca X. Tucci


Francesca X. Tucci - L’ombra di Lucifero
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 174 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6037-7777

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__Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori. Opera Segnalata nel concorso letterario «J. Prévert» 2009


In copertina: «Michigan» di Francesca Tucci da «Preghiera» di Michel Basquiat


Hart lavora a Chicago in una rivendita di nautica. Si risveglia dopo un’anestesia in una stanza d’ospedale ed è immobilizzato. Inverno, freddo, e la mente quasi spoglia di ogni ricordo. L’infermiera comunica il decesso della moglie: Linda ha scritto le ultime frasi ed è morta dopo il coma a causa di uno scontro frontale. Hart era alla guida. Il sospetto lo assale però ancor prima che torni la memoria. Fugge dall’ospedale ed inizia l’affannosa ricerca di una donna che non crede persa. La verità è strana, ingannevole, ambigua, come un documento coperto da un codice crittografico: i numeri nascondono la verità di una casa sul lago che è la facciata imponente di traffici nascosti. Il lavoro di sua moglie non era affatto quello di avvocato: Linda conosceva dei segreti di stato, Linda era un genio matematico. Linda non è morta.


L’ombra di Lucifero

A Chris Hardisty
e a mia figlia Helena


1.

Non abbiamo potuto fare niente per Sua moglie.” disse la donna chinata su di lui “Ha lasciato qualche riga per Lei, quando era ancora in coma farmacologico. Abbiamo pensato di non svegliarLa.”
C’era vento, fuori. Si trattava probabilmente di una clinica, di un parco. Hart si sentiva il corpo fino al bacino. Il suo primo pensiero fu che gli avessero amputato le gambe.
“Che mi è successo?”
“Un incidente stradale. Sua moglie era accanto. In una galleria. Avete avuto uno scontro frontale con un’auto che procedeva in senso inverso. Cambiando corsia.”
“Stavo superando in una galleria?” Hart aveva memorizzato il letto vicino al suo, vuoto. Il tavolino lucido e la sedia, i fiori accanto al letto. Gli rimaneva ancora poco in mente il viso dell’infermiera. Era giovane, probabilmente scialba. E molto, molto snervante, con quegli occhi lucidi. Hart sollevò una mano. Fu un esercizio utile, che lo rincuorò, nonostante vedesse chiaramente la flebo infilata nell’avambraccio e, seguendo la cannula, il flacone che pendeva accanto al letto.
“VuoLe stare da solo?” disse la ragazza.
“Chi ha mandato i fiori?”
“Suo cognato. Quel signore elegante, con il cappotto nero.”
“Va bene.” disse Hart, passandosi una mano sugli occhi. Linda non aveva mai avuto un fratello, quindi era evidente che non poteva esserci alcun cognato. Voleva sbarazzarsi dell’infermiera per scendere dal letto. Quando fosse stato in bagno, davanti allo specchio, avrebbe rimesso insieme la storia, ne era certo. Tutta quanta, con un inizio e una fine.
Quando la ragazza ciabattò fuori, Hart sollevò le lenzuola: era fuori questione. Sembrava fosse ingessato a tutte e due le gambe. Si sporse dal bordo del letto per vedere il corridoio: c’erano quadri astratti. Sembrava una clinica di lusso e molto patinata. Calcolò mentalmente quanto la sua assicurazione avrebbe potuto coprire di quella degenza. Una settimana, dieci giorni. Poi lo soffocò il ricordo di Linda e dovette chiudere gli occhi per un momento. Non era possibile che fosse morta. E in modo tanto assurdo da non potergli neanche dire un’ultima frase. Sul comodino c’era un foglio spiegazzato. Lo lesse. Diceva: “Non volermene. Ho pregato per te.” La grafia era irriconoscibile. Linda aveva trantaquattro anni. Hart non faticava ad immaginarsela in una stanza accanto con la medesima ingessatura che vedeva su se stesso, forse con un corsetto. Non riusciva a pensarla morta. Faticò per raggiungere con la mano l’interruttore che issava lo schienale. Lo trovò e cercò intorno al letto uno specchio. Voleva controllarsi almeno il viso. Contusioni, cose del genere. Ma percepiva chiaramente soltanto un’ecchimosi parietale. Riteneva necessario guardarsi negli occhi per affrontare la notizia della propria sopravvivenza ad uno scontro frontale. Senza la sua faccia nel repertorio delle immagini, poteva facilmente pensare che si trattasse di un equivoco sogno nel quale il suo subconscio assassinava la moglie. Ne aveva fatti, di incubi del genere, quando Linda aveva dichiarato con categorica certezza di non volere figli. Ma il dolore alle gambe costituiva una buona patente di veridicità. E quel vento di febbraio dal lago gli garantiva che si trattava di Illinois, in un clima quasi di neve. Se l’infermiera fosse tornata, sarebbe stato necessario chiedere uno specchio. Hart frugò nel cassetto del comodino. C’era un pacchetto di Marlboro fumato a metà. Senza accendino. Inoltre un pettine, quello che portava di solito nella tasca della giacca. E il suo portafogli con le carte di credito. Quell’eredità scarsa delle proprie ultime ore lo lasciò desolato a guardare il soffitto, poi subentrò la rabbia. Hart strinse i denti, avvertì tutto il peso di essere immobile e lasciò che l’immagine di Linda lo invadesse. Se era morta, lui ne era la causa. Alla guida di un’auto. Sorpasso in galleria.
La composizione di fiori oscillava leggermente nell’aria calda del termosifone, sotto la finestra. Erano iris, gigli bianchi e rose. Il genere di fiori che si regala ad una donna. Certamente il sedicente cognato aveva avuto altra mira che la sua stanza, acquistando quei fiori. Si concentrò sul dolore al bacino, e cominciò a padroneggiarsi: sospetti, paure, autocompatimento. Tutte emozioni che non gli servivano, adesso.
Pensava a Linda, ma teneva quel pensiero in un cassetto, al sicuro. Il suo istinto gli diceva che doveva andarsene di lì al più presto, e qualcosa lo rassicurava quanto alla moglie: non era morta. Gli pareva di udire la sua voce, distante da qualche parte.
“Hanno simulato un incidente d’auto. La cartella.”
Una cartella nera con dei documenti. Questo lo ricordava come in un lampo: gli effetti dei sedativi non avevano alterato la sua memoria. Stava portando con sé la borsa quando era successo. E che cosa esattamente fosse accaduto lo avrebbe scoperto a qualunque costo, non appena avesse lasciato la clinica. Si chinò a guardare sotto il letto, aprì l’anta dell’armadietto sotto il comodino, ed era esattamente come pensava: la cartella dei documenti non c’era. Ed era certo che le sue gambe fossero perfettamente a posto. Provò a colpire con il gesso il bordo di ferro del letto, per saggiare la propria resistenza al dolore, poi si gettò a terra e si trascinò a braccia fino al bagno. Doveva esserci qualcosa con cui disfare quell’impedimento che gli intrappolava le gambe. L’infermiera aveva lasciato la porta della stanza socchiusa, uscendo. Poteva intravedere i medici e i paramedici che camminavano in corridoio. Camici chiari, o abiti aderenti color verde scuro nei quali si spostavano velocemente dalla sala operatoria. Hart cercava un paio di forbici. E in quel momento avrebbe dato un terzo della propria vita per averne un paio di belle robuste. Il suo fisico palestrato reagiva bene allo sforzo, i muscoli delle braccia lo sostenevano e lo issarono sulla vasca. Ma la cassettina del pronto soccorso sulla parete del bagno era irraggiungibile senza appoggiarsi alle gambe. E le gambe, constatò, non lo reggevano. C’era però il vaso da fiori del suo raffinato bouquet. Chiuse la porta con la spalla e ruppe il vaso avvolgendolo in un asciugamano, cercando di non fare rumore. Il tonfo dovette risultare ben udibile nella camera accanto, se ce n’era una. Il vetro era talmente tagliente e le sue mani tanto nervose che si incise un pollice, ma si accorse subito che il margine era acuminato a sufficienza. Liberò una gamba dal gesso fino al ginocchio, coprendosi la schiena di sudore gelato. Non c’era frattura, gli parve. Soltanto, notò che erano state praticate delle iniezioni all’altezza della coscia. Se ne vedevano i lividi: dovevano essere state fatte in fretta, forse aveva opposto resistenza. Non ricordava. Ma cercò subito traccia dell’epidurale, per quanto gli costasse sforzo torcere il busto. Quanto volevano trattenerlo? Un’ora, due? Sapeva poco di quel genere di anestesia, ma aveva chiaro in mente il tempo medio della durata di un travaglio: poche ore. Con un risveglio e una ripresa di tono dei muscoli molto lenti. Ne dedusse che doveva sbrigarsi. E si sbrigò, ferendosi le mani al punto da insanguinare la vasca e il pavimento. Quando ebbe le gambe libere, si chiuse in bagno. Era evidente che qualcuno stava per fargli visita. Forse volevano indurlo a firmare un documento, qualche sorta di dichiarazione quanto all’incidente. E magari un certificato di morte di Linda. Eliminare due persone legalmente già morte crea meno problemi che disfarsene quando sono vive per l’anagrafe. Hart lavorava febbrilmente per liberarsi delle bende e del gesso, il pavimento piastrellato sembrava ormai un mattatoio. Gli pareva che l’effetto dell’epidurale stesse finendo. Del resto, il fatto che avesse provato un leggero dolore alle gambe al risveglio indicava che i tempi erano stati scelti con cura: volevano fargli credere di essere paralizzato e intendevano che fosse abbastanza lucido per esaminare delle carte. Con un gemito Hart cercò di tirarsi in piedi. Le gambe gli cedettero e fu di nuovo a terra. Ora aveva i minuti contati. Voleva che il suo corpo reagisse. Pensò alle tante volte in cui aveva sollevato pesi, inquadrò mentalmente il comando che dava ai nervi per imprimere ai polpacci l’ordine di tendersi. E sì, ottenne un risultato. Le gambe si mossero. Guardò l’orologio: aveva forse quattro o cinque minuti prima che entrassero. Ma forse molto di più. In fondo, lo avevano ingessato e dovevano ritenerlo immobile. Inspirò profondamente, fece forza con le braccia sui bordi della vasca e fu in un precario equilibrio, ma in posizione eretta. Si sforzava di udire voci che provenissero dal corridoio, ma i passi arrivavano ovattati dall’esterno. Era in piedi, indossava la camicia di degenza e aveva il fiato corto. Era stato un buon sollevatore, Hart. Nei momenti di massimo splendore aveva alzato sopra la testa più di cinquanta chili. Ora doveva soltanto muovere quel suo corpo testardo. Con le macchie che gli ballavano sulla retina, raggiunse la porta della stanza, in tempo per vedere uscire un gruppo di uomini in completo elegante da un ascensore. Si infilò dietro il carrello portavivande, scottandosi le mani col metallo bollente. Gli passarono davanti in una misurazione di secondi che sarebbe bastata a perderlo, se non fosse stato per il fatto che l’inserviente era in una delle camere ad ascoltare le rimostranze di una voce querula sulla minestra. Si infilò nella prima porta che trovò aperta e la chiuse dietro le proprie spalle. Quello che giaceva sul letto, cianotico e monitorato da un elegante strumento metallico alla parete, doveva essere un cardiopatico in fase terminale. Aveva buoni abiti di lana nell’armadio che non corrispondevano affatto alla taglia di Hart, ma che gli calzarono indosso senza sforzo.
Hart cancellò con un fazzoletto da naso la scia di sangue che aveva lasciato sul linoleum. Poi si infilò vacillando nell’ascensore. L’ingresso della clinica non era promettente quanto le stanze al suo interno: una reception formata da un banco rotondo era governata da due paramedici, e qualche specchiera occupava l’atrio, riflettendo stente piante ornamentali. Il tappeto logoro lasciava capire che qualcuno in amministrazione badava a spese, e i gradini dell’ingresso erano sovrastati dalla semplice scritta bianca “Benning Clinic” su fondo grigio, accompagnata dal simbolo della croce medica e dalla dicitura “State Welfare Co.”. L’andatura di Hart era malferma, ma era quello che ci si doveva aspettare da qualcuno che uscisse da un posto come quello. Ebbe la buona sorte di incappare in un taxi in arrivo, dal quale scese un uomo in elegante cappotto nero. Hart era troppo debole per studiare la fisionomia delle persone che incontrava in quel momento. Notò i capelli piuttosto lunghi, di un biondo platino quasi femminile, e soprattutto notò le banconote che il tassista stava intascando mentre lo sportello restava aperto: Hart non aveva un soldo. Né ricordava il proprio indirizzo. Ma sapeva che Chicago si trova in Illinois, e che a Chicago ci sono un sacco di locali caldi in centro.
“Mi porti al miglior ristorante che conosce. Ho una preferenza per il pesce.” disse con un gemito mentre trascinava a bordo la propria gamba sinistra.
“Un appetito formidabile eh? Appena guarito!”
“Il rancio della clinica è schifoso.”
E il parco tenebroso della casa di cura mostrò i suoi cedri, i propri acuminati sempreverdi e macchie grigiastre di neve che circondavano arbusti pieni di bacche squillanti. “Dobbiamo essere sotto Natale.” pensò con accorata rabbia Hart.
Le mura delle case erano grigie, i tetti erano grigi, le strade di un grigiastro opaco dovuto alla neve. Nei vestiti che lo soffocavano, Hart si diede agio di pensare, durante quel percorso che lo portava da un sito imprecisato fuori città fin nel cuore di Chicago. Il lago era completamente ghiacciato, grandi corvi saltellavano nella boscaglia rada lungo la statale. Sentiva la memoria tornargli a poco a poco. Doveva innnanzitutto cercare di trovare Linda.
Mentre il taxi entrava nei sobborghi, Hart ricapitolò rapidamente la situazione: non ricordava alcun incidente e probabilmente l’incidente non c’era stato. Al momento del rapimento aveva con sé dei documenti che gli erano stati sottratti. Sua moglie era scomparsa, forse rapita. Il biglietto che aveva letto era una goffa imitazione della grafia di lei. Doveva cercare tracce di Linda dove era più probabile che ne avesse lasciate, cioè nei luoghi noti soltanto a loro due. La loro abitazione era da escludersi, dato che era senz’altro lì che li avrebbero braccati.
Ricordò improvvisamente di aver lasciato il portafogli nell’armadietto della clinica.
Hart e Linda avevano molti posti segreti in cui si era consumato il loro brevissimo fidanzamento. Si può dire che Hart avesse chiesto la mano di sua moglie quasi dal primo giorno. Perciò il loro amore era stato una fiammata, che aveva lasciato attoniti amici, parenti e conoscenti. Si cercavano ininterrottamente, e per cercarsi trovavano i tempi e i luoghi in angoli appartati della città. Linda aveva già allora una passione smodata per i ristoranti etnici, di cui preferiva di gran lunga l’atmosfera elitaria e laccata al tipo di cibo preparato. Hart visualizzò il ristorante indiano in cui erano soliti incontrarsi di sera, quando le sfibranti giornate di avvocato di Linda e le proprie interminabili chiacchierate con i rappresentanti delle case produttrici di motori fuoriserie erano terminate. Aveva festeggiato con la moglie il varo di un tipo recente di fuoribordo da Ginger, e lì si fece accompagnare dal tassista, mentre cominciava a nevicare. A destinazione, chiese con espressione sofferente al guidatore di attendere un attimo.
Ginger era in cucina. Il suo ventre monumentale accompagnava la preparazione di un delicatissimo soffritto di cipolle e chutney di mango. Hart sollevò il pantalone destro. Non si poteva definire un taglio: era un calzino talmente intriso da poter ben rappresentare il concetto pittorico di “scarlatto”.
“Ging, pagami il tassista là fuori, vuoi?” disse, sedendosi accanto alle batterie da cucina.
Ging si mosse con l’agilità del suo quintale, una sorta di leggerezza ballerina che non contrastava con una mole da cuoco per un’altezza di circa un metro e sessantacinque. Teneva i piedi leggermente divaricati, ma, a prescindere da questo dettaglio, era persino elegante nell’incedere ed ispirava un certo rispetto. Si presentò al tassista con una banconota da cento e Hart era certo che gli avrebbe lasciato anche la mancia.
Hart era abituato alle affettuosità di Ginger. Accettò una fasciatura, un impacco freddo sugli occhi, una bevanda che lo rimise al mondo e di cui non aveva mai saputo la ricetta e si lasciò vestire all’indiana infilando una tunica comoda sopra un paio di pantaloni che erano stati messi graziosamente a disposizione dall’aiuto cuoco del ristorante. Ginger cambiò espressione una ventina di volte dal terrore alla costernazione quando seppe della clinica, e pianse alla notizia che non si sapeva nulla di Linda.
Hart considerò brevemente il fatto che non aveva provato né a telefonarle né a rintracciarla in alcun modo. Si era semplicemente basato sul suo istinto e aveva automaticamente esteso a Linda la situazione in cui si era trovato svegliandosi in un incubo. Poteva darsi che fosse sfuggita. Linda era un avvocato, aveva avuto a che fare in passato con figure pericolose del mondo del crimine, qualcuno le aveva anche promesso guai e non era escluso che la chiave del problema fosse proprio la professione di sua moglie. Hart non aveva neanche trascurato l’idea che la borsa di documenti che stava trasportando da qualche parte non fosse sua, ma di lei. Linda poteva facilmente aver avuto per le mani delle carte riservate di un cliente, o delle prove schiaccianti da presentare ad un’udienza. E se le avesse affidate ad Hart, Hart le avrebbe portate nell’unico posto sicuro che conosceva e che avevano utilizzato altre volte per il medesimo fine: la cassetta di sicurezza della loro banca. Qualcuno doveva aver saputo del suo itinerario, e averlo bloccato per strada. Hart scorse rapidamente i giornali del giorno precedente. Non sapeva per quanto tempo era rimasto in stato di incoscienza, ma era certo che l’aggressione doveva essersi verificata negli ultimi due o tre giorni e che qualcuno doveva esserne stato testimone. Si incanutì sui titoli e sulle news di internet finché Ging gli disse: “Stai cercando la tua versione dei fatti, te ne rendi conto? Potrebbe essere del tutto differente da come pensi, ancora ricordi poco.”
Hart gemeva sulla sedia accanto al soffritto. Cominciava a ritenere di poter dare libero sfogo alle proprie emozioni, ora che si sentiva al sicuro. E il dolore gli risvegliò la fame. Probabilmente non mangiava da almeno quarantotto ore. Ginger gli porse un piatto di agnello alla menta, che Hart ripulì aprendo un sorriso tirato: “Avrei bisogno del telefono.” disse. Nei successivi dieci minuti tutte le telefonate di Hart rimasero senza risposta. Aveva provato tutti i numeri possibili di Linda. La suocera fu l’unica con la quale scambiò due parole. E la conversazione fu breve e affettata, dato che la donna soffriva di cuore ed Hart si sforzava di ricavare da lei informazioni senza farle capire che non sapeva dove la moglie in effetti si trovasse. Gardenia era una buona suocera. Aveva l’abitudine di tenere gli occhiali a metà del naso quando leggeva, tendeva alla pinguedine e indossava abiti senza forma che avevano il pregio o il difetto di essere cari, ma aveva un cuore di burro e pretendeva che a casa sua tutti conservassero le abitudini personali senza riguardi per la sua presenza. Era per questo che Hart si radeva con la porta del bagno aperta, provocando risatine e commenti della moglie. Gardenia abitava dalle parti di Wells street, fra quei fatidici numeri 1200 e 1700 che delimitavano per tradizione dagli anni Sessanta il quartiere degli artisti di Chicago, la cosiddetta Old Town. Un appartamento in quei paraggi costava un patrimonio, ma Gardenia aveva ereditato tutto da un marito morto a cinquant’anni dopo una vita trascorsa nelle aule dei tribunali, ed era da lui che aveva appreso certi dettagli storici sul quartiere, come la vecchia storia che le origini dell’isolato fossero da ricercarsi in una colonia tedesca che si era stabilita intorno alla St. Michael’s Church. Hart si trascinava volentieri per le vie dalle case austere e decadenti che facevano da vicinato alla suocera. Aveva scovato ristorantini e pub a buon prezzo ed era arrivato a piedi fino al Lincoln Park camminando per il Lake Shore Drive, con le mani in tasca e facendo spallucce agli ambulanti. Quei tempi gli sembravano ora lontani mille anni luce.

[continua]

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