La donna che sapeva volare

di

Francesca X. Tucci


Francesca X. Tucci - La donna che sapeva volare
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 164 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-1928

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In copertina: elaborazione grafica di Francesca Tucci


Due meteore cadute da cielo, due storie: il mago Rasputin, eminenza grigia degli zar – prete, politico, santo – e la Rivoluzione Bolscevica. Sulla scia di un ritrovamento misterioso e di un amore che affonda le radici in un passato esoterico, la potenza di lotta e resurrezione del Popolo Russo nelle due epoche più affascinanti della sua storia.


La donna che sapeva volare


A Vladimir,
ad Andrzej


Il meteorite

Irina si svegliò all’alba di un giorno feriale e trovò la casa talmente in disordine da pensare che ci fosse stata una festa, ma non riusciva a ricordare di che festa si fosse trattato. Poteva essere il suo compleanno, dato che era estate, o forse semplicemente qualche amica era di nuovo partita o era tornata da un viaggio, e si erano tutti fermati fino a tardi a vedere le diapositive proiettate sulla parete bianca del suo salotto.
Insomma, si trattava di alzarsi dal letto, e lo fece, seppure con un certo sforzo.
Irina aveva trent’anni e le rughe del sorriso vicino agli occhi. Non era mai stata sposata, aveva affetti numerosi e particolari, e lunghe gambe, che infilava volentieri in anfibi neri. La sua compagna di stanza aveva da poco lasciato l’appartamento dopo aver ottenuto una borsa di studio in Olanda, riconoscimento che le spettava dopo una tesi molto apprezzata, e che doveva supportare un dottorato riguardante un pittore fiammingo quasi sconosciuto, ma molto prolifico di tele.
Irina era insofferente verso le coabitanti. L’appartamento era piccolo e le ragazze tutte disperatamente disordinate. Quello che succedeva di mattina in bagno era in genere assolutamente indecoroso, e dato che tutte uscivano presto, la vasca, la doccia e i servizi restavano esattamente come erano stati lasciati fino al pomeriggio, provocando la nausea e lo sgomento di quella che rientrava per prima. “Le donne dimenticano il delitto compiuto.” dice il proverbio.
Irina tentava in ogni modo di rammentare alle proprie affittuarie i loro misfatti: lasciando post-it incollati agli specchi, disponendo lavagnette magnetiche di minacce in cucina, scribacchiando messaggi incisivi e crudeli sul notes accanto al telefono. Tutti questi accorgimenti erano inutili. Le ragazze continuavano ad abbandonare assorbenti igienici sotto il lavandino, o peggio a gettarli nel water. Lasciavano asciugamani intrisi di rossetto, mutande sporche infilate nella cesta dei panni puliti e abiti smessi in giro per tutta la stanza. Irina ne aveva mandate via due o tre, rendendo gli annunci più perentori: “Cercasi ragazza ordinata non fumatrice amante della quiete”. Non poteva scriverci che non si truccassero, non ascoltassero musica a volume alto e non invitassero uomini. Queste erano cose che diceva di persona, quando la candidata si presentava a vedere la stanza. Aveva avuto una rassegna di facce delle più complete: giovani studentesse dalle unghie rose, lavoratrici quarantenni dai corti capelli tinti, impiegate eleganti e nevrotiche, ragazze scappate di casa dopo un fallito tentativo di matrimonio, esuli dei paesi dell’est e della ex Unione Sovietica, che parlavano distratte e fumando. E tutte, – dico tutte – le garantivano il rispetto di quelle regole. I problemi cominciavano a manifestarsi dopo le prime due settimane.
Irina abitava nella camera spaziosa in fondo al corridoio, e aveva fatto della cucina un piccolo gioiello. I mobili erano bianchi, le sedie azzurre, il lavello di acciaio e il tavolo era il suo regno pomeridiano: ci si ammassavano fogli, tazze piene a mezzo di latte e di thè, riviste femminili, libri ripiegati sulla costa in assetto di battaglia.
Irina si dedicava da anni al design, ma arrotondava con un lavoro di cameriera in un locale cinese. Era l’unica cameriera occidentale, ma la sua carnagione scura e i suoi occhi di taglio vagamente orientale mettevano i clienti a loro agio senza far notare troppo il gap con le altre ragazze. All’inizio era stata una assidua cliente del locale. Erano i tempi in cui usufruiva ancora di un assegno da parte di una vecchia zia rimasta vedova, con la quale abitava di tanto in tanto. Non aveva molti soldi, ma sufficienti a permettersi due cene alla settimana nel locale “Settimo dragone”, che si era specializzato in palline di fagioli di soia al sesamo e pollo fritto alla cantonese. Quando la zia era morta e il suo piccolo vitalizio era scomparso, Irina aveva proposto alla proprietaria del locale, una donna di Taiwan dai capelli tinti di rosso, di essere assunta come inserviente. La riposta era stata subito negativa: “Un ristorante cinese deve avere camerieri cinesi. La gente penserebbe che anche la cucina non è originale.” In favore di Irina era intervenuta una delle ragazze, sostenendo che Irina, vestita in modo adatto e con un lieve trucco a matita che avrebbe reso gli occhi allungati, poteva passare per cinese davanti a chiunque, e che la faccenda avrebbe dato pubblicità al locale negli ambienti più in, con il sussistere del dubbio: “La cameriera è o non è cinese?”. Irina ottenne il posto a condizione di non rivelarlo mai e di servire in silenzio, eccetto per le espressioni “sì”, “no,” e “subito”.
Irina lavorava al ristorante cinque sere alla settimana. Facevano eccezione il martedì ed il giovedì, quando aveva la sua sessione di studio al museo. Gli studi al museo erano uno dei segreti della vita di Irina. Era difficile vederla entrare, dato che arrivava sempre quando era già buio e passava dall’ingresso del personale amministrativo. Raramente qualcuno degli impiegati o degli antropologi era ancora in ufficio. Se lo era, non prestava troppa attenzione, per stanchezza e per la fretta di andarsene, ad un’ombra che scivolava nei corridoi. In un museo di antropologia e storia naturale si può rubare poco.
Quando Irina arrivava, le luci erano tutte spente, tranne quelle del guardiano di notte, che alloggiava in una stanzetta al piano terra, dove in genere dormiva su di una branda, salvo effettuare le proprie ispezioni notturne ogni tanto. Le grandi sale vuote rimandavano una eco sinistra. L’unico suono che si udiva a mezzanotte nel museo era il ronfare sommesso del custode, che per contratto professionale lasciava la porta aperta e la luce accesa. Irina a quell’ora si trovava nella “Sala delle grandi foreste”, dove enormi sezioni di tronco di sequoie intendevano dare ai visitatori un’idea dell’età millenaria degli alberi. Si spostava a “Geologia” verso l’una, sicura che tutto il quartiere dormisse di un sonno profondo. Per illuminare i propri passi adoperava una comune torcia elettrica, e di solito si portava dal ristorante cinese uno spuntino a base di pollo fritto e dolcetti al cocco, alimenti che non trasudavano molto olio e non sporcavano lo zaino col quale faceva il suo ingresso nell’ala dedicata ai meteoriti. Nelle loro bacheche, i meteoriti erano per la maggior parte sassi opachi, ma ce n’erano alcuni che somigliavano a pirite, e mandavano dal loro interno bagliori argentei alla luce delle finestre notturne. L’illuminazione stradale nel centro storico era forte, le tende pesanti del museo non riuscivano a schermarla. La luce fiottava silenziosamente sugli oggetti esposti. Alcuni erano talmente antichi da essere stati sulla terra prima della comparsa dell’uomo. Quando arrivava nella sala meteoriti, Irina si metteva a mangiare. A quell’ora il suo stomaco brontolava, in previsione della nottata che avrebbe trascorso fra quelle pareti fino all’alba. Aveva studiato a lungo il meteorite: proveniva da un’area desertica della Siberia, e risultava sceso dal cielo come una cometa nel 1917. Esploratori si erano recati immediatamente a verificare l’entità e le dimensioni del corpo celeste: il cratere era ampio e fumante, il meteorite aveva probabilmente perso volume nell’attrito con l’atmosfera, ma era ugualmente molto grande, se paragonato alle dimensioni medie delle pietre che raggiungono la terra dallo spazio.
L’oggetto del suo interesse si trovava in una teca di vetro, al centro di una sala al secondo piano. Le scolaresche ci passavano davanti naso all’aria, dato che la pietra era sopraelevata su braccia di alluminio e bloccata al suo posto da piccoli morsi di metallo. Di notte, emanava una luminescenza verdastra. Irina aveva speso gli ultimi due mesi a raccogliere notizie sulle circostanze del suo ritrovamento e sul genere di analisi chimiche e batteriologiche che ne erano state fatte. Aveva raccolto tutte le sue conoscenze su di un quadernetto che si portava appresso anche al ristorante cinese.
La maggior parte delle meteoriti precipitano nel pomeriggio. Questo era un dato curioso ma vero, che non dipendeva da una strana attitudine di quei corpi celesti – il cui nome significa “che appare dal cielo” – ma da un insieme di forze gravitazionali che rendono la terra più attraente da ora di pranzo fino a mezzanotte.
Irina aveva avuto esperienza di lunghe nottate passate in veglia, di periodi di insonnia e di terremoti emotivi, ma mai era stata desta per un vero interesse come quello per il meteorite. Il fatto era che quella pietra aveva su di lei un influsso particolare. La scoperta era stata del tutto casuale: Irina era andata al museo di scienze naturali con l’influenza. Nella sala meteoriti era entrata con i brividi e una leggerissima febbre, quando ne era uscita era inspiegabilmente guarita. Non solo, ma si sentiva decisamente bene. Non aveva collegato i fatti, ma quella sensazione di benessere era perdurata per tutta la sera, e quando era andata a lavorare al ristorante, era leggermente abbronzata.
Quella tinta le conferiva un fascino da orientale. Sembrava che al contempo la pelle si fosse allisciata e spianata dove c’erano rughe e imperfezioni. Quando Irina accompagnò al museo il figlio di un’amica, il fenomeno si ripeté, e questa volta la carnagione era talmente più luminosa da far pensare che avesse trascorso un week end al mare o in montagna.
“Sei stata fuori città, Irina?” le chiese la proprietaria del ristorante.
Irina ricapitolò gli eventi, fu certa di non aver usato creme o fondo tinta particolari, di non aver cambiato sapone, di non aver fatto sesso – dicono che migliori le condizioni dell’epidermide – e tornò la sera stessa al Museo di Storia Naturale.
Il meteorite era inarrivabile negli orari di visita: c’erano costantemente ragazzini, professori di chimica e di geologia, folle di turisti e curiosi che gironzolavano per la sala. Irina era decisa a verificare le proprietà della pietra da sola e senza testimoni, e per farlo decise di accattivarsi l’amicizia di un custode che se ne stava per la maggior parte del tempo seduto su di una seggioletta in un angolo, a sbadigliare e a leggicchiare il giornale. Per conquistarsi la sua simpatia sbirciò il titolo della testata che leggeva, e ritornò il giorno seguente con il giornale della sera e un pacchetto di caramelle. L’uomo la guardò intontito e sonnacchioso.
“Lavoro noioso, eh?”
Il vecchio annuì malinconicamente.
“E sta sempre in questa sala?”
“Ruotiamo ogni tanto. Ma queste bacheche sono tutte uguali. Sassi, animali disseccati e selci intagliate. Quelli che stanno peggio sono quelli della sala antropologica: quei manichini di cera, te li sogni la notte. Specialmente quell’indiano che pesca vicino al tepee.”
“E non Le capita mai qualcosa di interessante?”
“Gli unici a fare un po’ di chiasso in questo museo sono i ragazzini, ma abbiamo ordine di tenerli lontani dagli oggetti, e poi ci detestano.”
“E che mi sa dire di quel meteorite?”
“Quello? Secondo me è un sasso e basta. Qualcuno ha visto la luce in cielo, sono andati lì e hanno rimediato un pietrone.”
“Sa, io mi sono interessata molto di geologia.” disse Irina, e parzialmente era vero. Aveva da poco finito di scrivere un breve articolo per una rivista di design sui giardini di roccia. E le pietre erano una componente fondamentale dell’insieme. “E mi piacerebbe dargli un’occhiata al buio.” soggiunse.
“Potrebbe passare un attimo all’orario di chiusura, quando spengo le luci.”
Irina studiò il meteorite per qualche istante nella sala buia, ma la presenza dei custodi, la luce in altre sale, l’urgenza di lasciare il museo, le diedero agio soltanto di capire che la pietra emanava una debole fosforescenza.
Trovò però il modo di farsi dare le chiavi dell’entrata secondaria, dopo lunghe trattative e un’estenuante spiegazione col vicedirettore del museo, che era entomologo, e assorbì le peregrinazioni geologiche apprese da Irina sull’Enciclopedia per Tutti con amichevole sopportazione. Ottenne il permesso per tutto il mese, e lo interpretò come una licenza rinnovabile.
Aveva raccolto, intanto, una serie di informazioni sorprendenti.
I meteoriti sono in gran parte frutto della collisione degli asteroidi nella fascia fra Marte e Giove. Quelli di materiale esterno al sistema solare derivano invece dalle comete. Il materiale proveniente da questi ultimi è particolarmente interessante, dato che si tratta di frammenti utili per approfondire la storia dello spazio profondo, di sistemi esterni e lontani.
Il meteorite trovato in Siberia aveva lasciato a terra un cratere largo circa un chilometro, con una spessa ricaduta di polveri. La profondità dell’impatto si aggirava sui settanta metri nel suolo. Irina aveva visto le foto delle rilevazioni effettuate durante la rivoluzione russa da geologi intenti e baffuti, vestiti di cappotti lunghi fino alle caviglie. Le fotografie, che erano state scattate d’inverno, presentavano un paesaggio dilavato di grigio e di neve, che diventava nero nel punto del cratere. Quelle estive erano talmente uniformi nella resa del suolo arido, da rendere difficile persino capire quale fosse il sotto e quale il sopra. Il meteorite era precipitato in gennaio, in condizioni climatiche talmente proibitive da rendere impossibile, per qualche settimana, persino i rilevamenti. L’avvistamento era stato stupefacente: l’ufficio delle previsioni meteorologiche e il vicino osservatorio di Novosibirsk avevano ricevuto centinaia di segnalazioni, la maggior parte delle quali annunciava qualche sorta di fine del mondo. La lucentezza della meteora, la sua scia iridescente, il fumo provocato dall’attrito con l’atmosfera, erano stati fenomeni talmente eclatanti da diffondere il terrore fra i pochi abitanti della zona.
“Una cometa.” avevano detto.
“Un pezzo della luna si è staccato, lo abbiamo visto!” (il bolide era caduto in una notte di luna piena).
“Un’astronave aliena è discesa in Russia!” avevano proclamato i più eccentrici.
E queste erano soltanto alcune delle bizzarre interpretazioni che erano state date del fatto.
Un comitato di geologi, astrofisici, astronomi e chimici era stato inviato sul posto una ventina di giorni dopo, quando la tormenta di neve che infuriava da due settimane aveva accennato a placarsi. Ciononostante, la temperatura si manteneva sui cinquanta sotto lo zero. La più vicina località abitata contava una fattoria abbandonata e trasformata in magazzino di carbone, una stazione meteorologica e la casa di uno stravagante attore di teatro che si era ritirato dal mondo.
Il comitato aveva stabilito una sorta di quartier generale nel magazzino della fattoria, ingombro di sacchi di carbone, aveva appurato che nei dintorni c’era un consistente bacino di uranio sulle mappe geologiche e aveva tirato un sospiro di sollievo quando si era riscontrato che la miniera non era lontana dal luogo dell’impatto. All’inizio non si era fatto molto: le condizioni meteorologiche proibitive avevano scoraggiato dal piantare tende e picchetti sul posto. Ma gli uomini avevano subito capito dalle dimensioni del cratere che si trattava di un evento eccezionale e che quello che avrebbe pubblicato per primo un articolo sarebbe diventato lo scienziato dell’anno. Per questo il geologo, dopo appena poche ore, aveva fatto capire che aveva qualcosa di molto urgente da fare a Novosibirsk, e aveva piantato gli altri col naso al gelo per procurarsi un contatto immediato con una telescrivente o un telefono. Il meteorite era precipitato di sera, fra le ventuno e le ventuno e trenta. La rotazione terrestre l’aveva attratto.
Il peso considerevole dell’oggetto aveva poi fatto ritenere che si trattasse di una siderite, cioè di un meteorite metallico. Ma, dato che sul posto non esistevano gli strumenti necessari ad esami accurati, l’astrofisico non aveva voluto sbilanciarsi e aveva detto “condrite”, cioè un corpo pietroso che includesse granuli metallici. Di sicuro si poteva dire qualcosa soltanto prelevando dei campioni per il laboratorio geologico. Quando il geologo tornò, gli altri non lo accolsero con entusiasmo. Ma, il giorno dopo, un giornale moscovita pubblicò in prima pagina un articolo intitolato “Luce dal cielo” e vendette un notevole numero di copie in più del solito. La notizia rimbalzò per qualche giorno sulla stampa e in giro per le città, la voce si diffuse, un circo famoso inventò un numero speciale di trapezio e salto dalla fune intitolato “Stella cadente” e molte bambine nate durante il mese di gennaio furono chiamate “Zvezda”. Poi l’entusiasmo collettivo scemò, e restarono sporadiche allusioni, finché la fascinazione di quel fenomeno si spense.
Irina stava rinnovando ora quegli antichi fasti, e considerava notte dopo notte che la fosforescenza prodotta dalla pietra non poteva essere passata inosservata neanche nel 1917, per quanto allora i russi fossero certamente distratti da altre faccende. La spiegazione poteva consistere nel fatto che qualcuno avesse voluto tenere nascosta la proprietà guaritrice del meteorite, per motivi facilmente comprensibili. I medesimi che inducevano Irina a non dire nulla quanto ai miglioramenti della sua salute e del suo stato psicofisico quando entrava nella sala. Una rivelazione del genere avrebbe causato l’afflusso incredibile di folle che ogni evento miracoloso produce. L’altra possibilità era che la particolarità fosse stata osservata, ma ritenuta inspiegabile. Un fenomeno di carattere mistico mal si attagliava al materialismo storico che stava prendendo piede in Russia all’epoca.
Irina aveva deciso di documentarsi, per quanto possibile, sulla vita e sulle osservazioni delle persone che avevano costituito il primo gruppo di studio del meteorite, e di questi il più interessante e intraprendente le era parso il geologo, Sergiej Novotkin. Era lui che aveva pubblicato l’articolo sensazionale sull’argomento, ed era ancora lui che era stato protagonista di una affascinante avventura seguita al ritrovamento.


Sergiej Novotkin

Sergiej Novotkin aveva studiato geologia all’Istituto Minerario Nazionale. Suo padre era un semplice operaio, ma il figlio si era rivelato fin dai primi anni un allievo caparbio e brillante, e si era guadagnato due borse di studio e un posto importante all’Istituto di Studi Geologici. All’inizio non aveva fatto altro che cercare giacimenti di metalli utili a dare propulsione alle industrie del paese e a sviluppare fonti energetiche sicure. Aveva il tipo fisico del maratoneta: magro, scattante, nervoso, teneva i capelli lisci e biondi tirati all’indietro, pettinandoli con abbondante brillantina. Nel vestire era fantasioso e sciatto, ed era famoso per la patina di sudiciume che ricopriva le sue scarpe.
“Ricerche nella polvere.” si giustificava “Tutti i sassi lasciano in giro un sacco di scorie.”
Novotkin aveva una passione per le farfalle, passione che coltivava d’estate nei campi fertili ed erbosi intorno a Pietroburgo, ma il suo vero passatempo erano i gusci di noce, con i quali fabbricava ogni sorta di oggetti inutili. Aveva appreso quest’arte ascoltando Cˇaikovskij da bambino, quando sotto Natale una vecchia zia lo aveva portato al Bolscioj a vedere la compagnia di ballo che si esibiva nello Schiaccianoci. Le sue industriose manine si erano dedicate, durante le vacanze, a mantenere intatte le due metà delle noci consumate dai parenti, e dal suo fermo rifiuto a buttarle via era sorto il passatempo di trasformarle in qualcosa che potesse piacere a sua madre. Costruì un posacenere, un cestino per i fili del cucito e una scatola che si frantumò quasi subito a causa della cattiva qualità della colla.
Novotkin era una natura meditativa e testarda. Sarebbe riuscito ottimamente nel gioco degli scacchi, che richiedeva riflessività e lentezza, invece fu costretto a praticare la scherma e il pugilato, sport nei quali riusciva mediocremente e che gli procuravano acute crisi di asma. A vent’anni era il ritratto maschile di sua madre: un ragazzo contratto, ipersensibile, intelligente e freddo, al quale piaceva scherzare in modo blasfemo. Sembrava che la natura lo avesse plasmato in previsione della rivoluzione socialista. Novotkin si sposò presto con una ragazza dell’Istituto che catalogava i minerali vulcanici. Non era un grande amore, ma a lui piacevano l’ordine e l’analisi, e quella piccola Zvezda era ordinata e pedante come un professore di chimica (il professore di chimica era suo padre). Novotkin non voleva bambini, perciò i primi due anni di matrimonio furono noiosissimi, finché la moglie non restò incinta ugualmente, e gli diede due gemelle.
Novotkin non stava molto in casa. Si baloccava pochi minuti con le figlie, mangiava un boccone con un piede quasi sulla soglia di casa, e scappava infilandosi il cappotto. La moglie gli ripeteva imbronciata che le figlie pensavano fosse una sorta di zio impegnato all’estero.
L’ascesa della sua carriera era legata alla quantità di lavoro svolto, e Novotkin poteva lavorare come un cavallo da tiro. I suoi impegni e le sue ambizioni ruotavano intorno ad una scrivania coperta di carte e giornali che se ne stava acquattata in una stanza polverosa con un’unica finestra molto opaca, la cui vista su di un cortile interno era talmente accorata da essere un programma di futura malinconia. Novotkin non cercava di migliorare l’aspetto del suo ufficio: era consapevole che tutti i tentativi degli altri impiegati erano falliti nel confronto impari con la tetraggine dell’edificio. L’Istituto di Chimica e Geologia era stato costruito in epoca zarista come un vanto e un fiore all’occhiello degli studi universitari: doveva rappresentare la Russia Illuminata e le idee di Caterina sull’educazione scientifica. Era stato frequentato dall’élite della nobiltà russa, gran parte della quale voleva soltanto conquistarsi un foglio e mettersi a dirigere i latifondi paterni, con il vanto di saper trivellare pozzi d’acqua e poter riferire con competenza, quando si trovava un ostacolo, nei propri campi, che il blocco di roccia era scisto o granito. La pianta dell’Istituto somigliava a quella di un noioso e prevedibile labirinto, nel quale le porte dovessero restare tutte aperte. Il caposezione si affacciava ogni tanto a ridestare gli impiegati che sonnecchiavano o fumavano davanti ad una finestra. Il lavoro sul territorio era svolto dai giovani, che riempivano i magazzini dell’Istituto di pietre e campioni minerari chiusi in sacchetti etichettati e sigillati, i quali erano deposti in scaffali numerati ed esaminati con molta calma. Novotkin si avventurava di rado nel sotterraneo, dove l’odore del cinabro, dello zolfo, delle pietre calcaree, stagnava come sudore delle pareti, aderiva agli abiti, creava una sorta di sortilegio perenne nel quale si muoveva Dimitri, con il grembiule di nylon. Quando faceva delle visite là sotto, Novotkin si rendeva conto di poter distinguere il nichel, il ferro, lo stagno anche all’odore e che quel profumo di metalli cominciava a restargli sulla lingua e nelle narici.
“Non so come fai a startene sempre qua sotto.” diceva a Dimitri “Qui si soffoca.”
In effetti, nel laboratorio non c’erano finestre. Luci dallo stelo inclinabile illuminavano quel locale sotterraneo di colori glaciali. Un grande tavolo serviva per l’analisi chimica dei campioni inviati e decine di ciotole di latta contenevano polveri pestate e granuli. Spesso si irrora una pietra di acido per studiarne la composizione: gli acidi immaginabili, là sotto, c’erano tutti.
Dimitri si muoveva in mezzo ai residui minerali con la statica lentezza di una creatura fiabesca. Dagli altri impiegati e dai geologi era stato soprannominato “Lo Gnomo”, denominazione che si attagliava alla sua figura bassa e alla sua abitudine di radersi male. Il fatto che se ne stesse sottoterra per tutto il giorno, in quella specie di scantinato chiuso e silenzioso, faceva ribollire l’immaginazione di quelli dei piani alti, che lo trattavano con rispetto e con un certo timore. Il suo aspetto fisico era massiccio, la testa incassata nelle spalle, i piedi pesanti. Il suono dei suoi passi risuonava a causa del tipo di scarpe che prediligeva, tanto potentemente suolate che rialzavano la sua statura di qualche centimetro. Non c’era geologo che avesse mai contraddetto un referto mineralogico di Dimitri. I suoi verdetti erano rispettati, e del resto era naturale che lo fossero: analizzare pietre era il suo mestiere.
Fu da lui che Novotkin apprese la notizia del meteorite. Era arrivato al lavoro più tardi del solito e l’intero Istituto era in agitazione, ma finché non era sceso nel sotterraneo, non era riuscito a sapere quale fosse l’evento straordinario. Dimitri gli rivolse un sorriso consapevole e disse: “È arrivata la pietra dal cielo.”
Novotkin spalancò gli occhi. Per la prima volta in vita sua si accorse che gli si rizzavano i peli sulle braccia e che gli si dilatavano le pupille. Per istinto, aveva capito al volo il messaggio laconico, come avesse aspettato il momento per tutta la vita, e quello fosse finalmente arrivato. Era finita con le scartoffie, con i gomiti sulla scrivania, con le mosche che volavano contro il vetro opaco della stanza al terzo piano. Cominciava la sua nuova vita.
Novotkin si precipitò subito dal Direttore, e concluse un patto molto particolare per essere ammesso fra quelli che sarebbero partiti per la Siberia con la prima commissione scientifica. Tutti ritenevano che fosse un cinico ed uno spregiudicato, e non ci fu stupore quando lo si vide stringere la mano di Vasilêvic fuori della porta, ricevendo le congratulazioni. Gli altri furono scelti fra i più anziani ed esperti, gente che si era guadagnata la promozione ai più alti gradi dell’Istituto con anni di fatica e noioso lavoro. La maggior parte di loro aveva più di cinquant’anni, e fu a causa di questo che la missione venne rimandata a causa del freddo intenso e della neve. Alcuni di quegli anziani professori di geologia ci avrebbero lasciato senza dubbio la pelle e la salute, su quel brullo e gelato suolo siberiano.
Quando la commissione composta da sette persone partì, con l’attrezzatura scientifica fornita da Dimitri, erano già passate due settimane dall’impatto, le polveri alzate nel cratere si erano depositate e il luogo aveva l’aspetto inospitale e disastrato di un cratere lunare. La fattoria in cui si stanziarono aveva le finestre rotte ed era abbandonata da lungo tempo: dormire all’interno sarebbe stato come dormire all’addiaccio. Perciò sistemarono le tende da campo nella rimessa, dove era stivato il carbone, e accesero un fuoco che fu alimentato di combustibile di proprietà statale.
La fattoria era stata proprietà di una coppia di anziani coniugi georgiani che si erano trasferiti su quel suolo inospitale ritenendo di investire bene un piccolo capitale che non avrebbe fruttato in territori più ricercati.
Naturalmente la lotta col clima siberiano si era rivelata impari fin dagli esordi. La casa colonica era stata costruita bene, i pozzi per l’acqua non mancavano e il foraggio era trasportato da sud durante l’inverno, mentre d’estate i campi, per quanto avari, fornivano almeno il fieno necessario per gli animali. Ma le spese si erano rivelate dopo pochi anni superiori agli introiti, addirittura esorbitanti in confronto a quanto preventivato dalla coraggiosa coppia. I due avevano venduto la fattoria, ma prima erano ricorsi all’estremo rimedio di trasformarla in un magazzino per una vicina industria del carbone. Ora i sacchi giacevano dappertutto, ed era in mezzo a questi sacchi che la commissione scientifica aveva piantato le tende.
Aleksandr Kariatin, l’astrofisico, non era abituato a quel genere di trasferte. In genere lavorava all’osservatorio astronomico di Mosca. Di tutti era il più magro. Indossava abiti talmente larghi che non si riusciva ad indovinare in certi momenti dove fossero le articolazioni. I suoi occhialini dorati rilucevano malinconicamente alla luce delle grosse lampade che oscillavano sul tetto della rimessa. Era stato lui a montare le tende e a disporre i fornelli da campo. Camminava in giro come se si fosse perso. Ogni tanto, Novotkin gli dava una leggera pacca amichevole sulla spalla.
Kariatin era un astrofisico noto nell’ambiente, aveva scritto relazioni ed articoli, aveva tenuto conferenze: la sua specialità erano le comete. Non aveva potuto viaggiare molto, ma quello che si poteva vedere dai telescopi russi lo aveva visto. Pensare a quei bolidi di ghiaccio a spasso per l’universo che raggiungevano il sole sfiorandolo in una traiettoria ellittica, gli dava un brivido segreto che poteva condividere con pochi. In tutto il resto Kariatin era un uomo schivo e persino timido: era difficile scambiare con lui due frasi, si chiudeva in un silenzio ostinato che si trasformava presto in un muso lungo. A cena sembrava che i bocconi gli formassero una fastidiosa colla fra le mandibole e il suo viso ossuto esprimeva lo scontento e la malinconia, mai una vera allegria o un’emozione capace di scuoterlo. I capelli, biondi e lunghi, gli arrivavano alle spalle. Gli zigomi pronunciati erano sulla sua faccia una specie di punto di domanda. Aveva, però, una predilezione per Novotkin, che da ragazzo era stato un assiduo osservatore del cielo. Tutti e due espressero immediatamente delle perplessità sulla forma del cratere e sulle sue dimensioni: il meteorite che vi si trovava era evidentemente troppo piccolo per produrre un affondamento tanto vasto in un suolo ghiacciato e coriaceo come quello siberiano. Il dubbio era tuttavia tanto assurdo da provocare l’ilarità degli altri studiosi.
“Può essere dipeso dalla velocità spaventosa del meteorite al momento dell’impatto. Sappiamo che in questi casi si sollevano tonnellate di terriccio e di polveri, al punto da oscurare parzialmente la luce. In questo caso il fenomeno non si è notato, per il fatto che l’evento ha avuto luogo di notte.”
Novotkin continuava a scuotere il capo e a serrare le labbra, ma trovò un appoggio soltanto in Kariatin, che osservava criticamente la forma e la struttura della pietra muovendosi con accortezza sulle pareti scivolose del cratere, parzialmente incrostate di ghiaccio. Tutti e due si lanciavano sguardi interrogativi e segnali. Si ritrovarono in mezzo ai sacchi di carbone, mentre gli altri finivano la cena.
“Questo pesa troppo poco. Lo confermeranno le analisi, e daranno ragione a noi.”
“Che ne è stato di quello vero?”
“Sono trascorse due settimane.”
“Se tiriamo fuori l’idea che quello autentico sia stato portato via, diranno che siamo matti.”
“L’argomento della velocità d’impatto non è assurdo.” disse Kariatin, strofinandosi due dita sul mento “Però, guarda il cratere!”
“Lo so.”
“Ne ho visti parecchi, di meteoriti. E mai di tanto piccoli scavare una fossa tanto enorme.”
“La rotazione terrestre, un fenomeno magnetico? Potrebbe contenere una grossa quantità di metalli.”
“Aspettiamo.”
“Intanto, io scrivo un articolo entusiasta, ma avvelenato da sottili dubbi scientifici.” concluse Novotkin.
Quando Novotkin scomparve dalla scena dell’impatto per inviare il suo articolo da Novosibirsk, Kariatin fece qualcosa di vietato: si prese un campione personale della pietra, della grandezza di un bicchiere, prelevandolo dalla parte inferiore, quella che era quasi a contatto col suolo. Scalpellò il suo frammento verso l’alba, mentre gli altri ancora dormivano del sonno leggero che prelude alla veglia. Ben presto il meteorite sarebbe stato trasportato altrove, e un’audacia del genere sarebbe stata impossibile.
La stessa commissione che era stata nominata per le indagini sul posto e che aveva picchettato il luogo dell’impatto continuò gli studi nei laboratori di Mosca. L’Istituto Geologico fu lasciato da parte per la mancanza di attrezzature adeguate e tutti si trasferirono all’Accademia Nazionale, che si presentava come il luogo più adatto a proseguire le ricerche, e che vantava i più moderni ritrovati quanto a reagenti e apparecchi fotografici. Novotkin si sentì inizialmente trasportato nel Gotha, poi capì che si trattava dell’anticamera del Purgatorio.
Le relazioni sulle ricerche andavano notificate soltanto al direttore, Aleksej Fëdorovic, che era ingegnere – e nella sua vita aveva soltanto costruito solidi ponti – ma aveva il pregio di essere il genero di un Nobel per la matematica.
Gli articoli dovevano passare alla censura di uno speciale comitato, ed era imposto il silenzio totale su qualsivoglia scoperta riguardo alla quale fosse posto il veto.
“La Sua osservazione si dirà in seguito.” diceva Fëdorovic agli scienziati recalcitranti. Ma quando dovesse arrivare questo seguito, non si specificava. Nel frattempo gli studiosi si intralciavano, rimbeccandosi su quello che si dovesse o non dovesse dire, e, se questo irritava Novotkin, rendeva assolutamente idrofobo Kariatin.
Kariatin era abituato all’ambiente dell’Accademia. Lo si vedeva spesso nella biblioteca antica e polverosa il cui pavimento in parquet scricchiolava pericolosamente all’ingresso di ogni nuovo lettore. Tutto lì era fatto per ricordare che erano trascorsi secoli dal momento in cui la gloriosa istituzione era stata fondata e che il desiderio dei Direttori, i cui mezzobusti sorridevano nell’atrio, era stato quello di preservare intatta l’ambientazione originale. Novotkin, invece, pur cresciuto professionalmente fra le macchie dei reagenti del grande tavolo di Dimitri e nelle stanze opache dell’Istituto di Geologia, provava una certa reverenza per quelle anticaglie, che avevano l’effetto di togliergli leggermente il fiato quando saliva e scendeva le scale, e quando sedeva al tavolo delle riunioni in sedute inconcludenti e verbose.
Il lavoro su di un meteorite di solito dura poco tempo. Con la commissione che era stata nominata, tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni: furono Novotkin e Kariatin a costituire l’origine dello scandalo. Dopo le prime sedute, quando le relazioni erano state scritte e Fëdorovic si preparava a stilare un resoconto definitivo, Novotkin se ne uscì con l’idea che il meteorite fosse stato sostituito: il cratere era troppo grande e la pietra troppo piccola. Furono fatti gli opportuni confronti con casi analoghi di bolidi spaziali precipitati in altre parti del mondo: mediamente per un cratere di quella profondità ci sarebbe voluto un frammento di qualche quintale. La pietra che si era trovata sul posto non pesava che pochi chilogrammi.
“Si è frammentata!” urlò rabbioso Kariatin, aprendo la terrificante possibilità di ricerche sul suolo siberiano in un raggio di cento chilometri.
“Sta cercando di prendere tempo senza farmi passare per matto.” si disse sulle spine Novotkin, notando che Fëdorovic era diventato paonazzo.
“Non doveva esserci cratere affatto, se si fosse frammentata.” ribattè gelido il Direttore.
“Non si è frammentata tutta.” osservò Kariatin con un sorriso di belva.
Novotkin lo afferrò per il braccio, mentre il consesso si scioglieva fra mormorii e scuotimenti di capo.
“Tu trovala, e in fretta.” disse in un sibilo Kariatin al geologo “Trovala. È l’unico modo di dimostrarlo.”
“A spese di chi?”
“A spese tue. Questi vecchi barbogi discuteranno a vuoto per un’altra settimana, te lo garantisco. E intanto la relazione ufficiale è ferma. Ti sei eclissato una volta, eclissati di nuovo.”
Novotkin fece una faccia contrita. Ma percepiva un piacevole bruciore comunicarsi a tutte le membra: libertà, una ricerca segreta e non sovvenzionata, una scoperta forse eccezionale. Sua moglie, se glielo avesse detto, avrebbe probabilmente chiesto il divorzio.


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