Francesco Gambellini - Schegge
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15,5x21 - pp. 202 - Euro 14,50
ISBN 978-88-6587-9221

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In copertina: dipinto di Remo Petrucci


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2017


“Luna ti prego. – Trema il bambino. – Ho fatto per te un viaggio senza fine. Non mi lasciare solo. Vieni a giocare con me.”
Le sue parole gli ritornano infrante in mille echi dai nascondigli infernali dove s’acquattano i mostri.
“Madre! – Implora sgomento. – Ho paura.”
Ma ecco, quando già non spera più, ecco il miracolo della luna che sorge; ed è una luna straordinariamente grande e rasserenante.
Non ha gli occhi, né la bocca, né il sorriso di sempre; ma gli sembra di riconoscervi lassù, in un canto, proprio la sua casa, e la sua mamma, e il suo papà brontolone… Ed è così luminosa e bella come non l’ha vista mai.
“Grazie luna.” Piange infine il bambino.
E stranamente ora non la vuole più.
Vuole che resti nel cielo per tutti i bambini che hanno paura.
“Non te ne andare più, luna. Ti prego. Resta nel cielo perché nessuno, neppure il grillo del prato, neppure il pavido topo grigio abbiano mai più paura del buio non più buio della notte.”


Schegge


Come i fiumi sono figli di tutti gli ostacoli che incontrano, così noi di tutti quelli in cui ci imbattiamo ogni giorno: il paziente, l’intollerante, il gioviale, l’irritante, il malato, la piccola morte d’un passero, il guizzo d’una lucertola, l’aliare queto di una foglia. Schegge della vita che ci fanno infine quelli che siamo.


L’ULTIMO REGALO

Non era una cosa da niente.
Lo aveva capito subito dalle rassicurazioni esagerate dei famigliari e dai troppi sorrisi che avevano preso a blandirlo da ogni lato.
L’ennesimo luminare chiamato a consulto aveva fatto il suo mestiere con la faccia appunto del luminare liquidandolo alla fine con una scarica di capsule, sciroppi, compresse ed esami.
Ma aveva poi parlato fitto fitto coi suoi figli che gli erano tornati attorno troppo sorridenti ed eccessivi nelle premure.
Bisognava aspettare l’esito delle analisi, dicevano.
Ma lui sapeva già che non era una cosa da riderci.
Tuttavia male non ne sentiva e riusciva ancora a sorriderne.
“Una volta che si è morti si è franchi per l’avvenire.” Citava alla men peggio scavando da antiche letture.
E subito tutti gli erano addosso: “Lascia perdere la tua letteratura!” Lo rimproveravano racconsolati tuttavia dal fatto che se scherzava così, certo non sospettava niente di niente.
E invece egli sapeva.
Non l’ora e il giorno, ma, a giudicare dalle facce, al più una questione di mesi.
Il sorriso che spariva dalla faccia dei figli quando brevemente intrattenevano amici e conoscenti in visita per avere notizie, e l’umor ridanciano di quelli appena s’accostavano al letto. I dolcetti che prima gli proibivano e che ora erano pronti ad ogni sua richiesta. Il parlottio segreto che spesso sorprendeva con l’udito ancor buono.
“Che state a parlare? – Protestava – Venite di qua!”
Colti in flagrante: “Che vuoi che si dica? – Accorrevano subito – Si diceva della cugina Marianna che pare voglia venirci a trovare.”

La cugina Marianna?

Una fatica scavarla fuori da una dimenticata scatola della memoria… e se era quella che gli era parso di individuare, allora piuttosto che mesi, magari solo qualche settimana.
È solo allora che saltano fuori i parenti più incredibili.
Eppure il dolore non era granché: una stilettata ogni tanto, ma sostanzialmente tollerabile.
Quello che sopportava meno era invece la sofferenza dei figli che di là dai sorrisi erano visibilmente preoccupati, tanto che stavano attorno a proporgli ogni giorno nuove analisi.
“Ma quelle fatte?” Domandava.
“Ancora niente. – Gli rispondevano in fretta – Ma intanto è bene farne altre. Non ti pare?”
No! Non gli pareva, ma non diceva altro perché alla fine si convincessero che quello era il male. Punto e basta.
E invece non si rassegnavano e continuavano inconsapevolmente a torturarlo con una sequela infinita di medici d’ogni specie.
Non che gli dispiacesse quell’affannarsi di moglie e figli attorno al suo male, ma non capiva come non capissero ancora.
Lui invece sentiva con chiarezza d’essere alla fine: le forze che a poco a poco se n’andavano, il gusto del vivere sparito, nessun interesse più per quel che accadeva fuori.
Il suo mondo era oramai serrato in quella sua stanza da letto: il cassettone, l’armadio con lo specchio e il piccolo televisore sempre acceso che da tempo non ascoltava e non guardava più.
Ogni tanto gli volava attorno una mosca a spiare la sua morte.
“Non farai in tempo. – Le diceva – Tu muori prima, vedrai.”
Non sapeva il nome del male.
Sospettava sì un cancro, ma poteva essere qualche altra diavoleria che manco i medici sapevano.
La morte spesso gioca a nascondersi sotto maschere diverse. Lui però la sentiva respirare lì accanto. A volte gli sembrava anzi di poterla addirittura toccare; e allora erano fitte improvvise e feroci. Poi subito s’allontanava ed egli tornava a vedere il cassettone, lo specchio e la piccola mosca ostinata.
“Vedrai. – Le diceva – Prima tu.”

La cugina Marianna venne davvero, variante insolita alla teoria fastidiosa e stucchevole di medici e infermieri.
Quelli lo auscultavano, lo rovesciavano, lo bucavano da ogni parte, ed egli si lasciava maneggiare come una cosa, perso oramai ogni residuo di pudore.
Almeno questa le mani le teneva a posto.
Ma la lingua!
La lingua sì, era quella che ricordava: di quella ragazzina rossa e lentigginosa che chiamavano Nina Mitraglia per via di quelle sue raffiche di parole sparate senza freni in ogni direzione.
Per il resto irriconoscibile: monumento di lardo ballonzolante che si sfaceva in rivoli di sudore acreolente insilato in una tunica non capace di tanto.
S’era piazzata accanto al letto e gli fiatava addosso sequele chilometriche di parole: e quante volte s’era ripromessa di far visita al cugino suo prediletto, ma (si sa come vanno queste cose) ora un impiccio ora l’altro e proprio non c’era stato verso, negli ultimi anni poi la malattia di Cenzino l’aveva costretta in casa e adesso che poteva uscire non più un vestito che le andasse bene; l’unico quello che era riuscita a infilarsi, e sì che ce n’aveva due armadi pieni…
Così, a mitraglia appunto. Mentre lui, senza una ragione scoperta, pensava agli avvoltoi che sentono odor di cadavere e accorrono alla veglia.
…due armadi pieni perché il povero Cenzino buonanima ogni volta che la cornificava le regalava però a compenso un abito nuovo, mai indossati naturalmente, e ora che Cenzino buonanima se n’è andato non c’è più modo.
“Si sono ristretti.” Tentò d’interromperla sicuro dell’inutilità dell’ironia.
“E già.” Disse infatti la balorda senza raccogliere. E continuava a parlare a parlare a parlare assediandolo senza scampo col catalogo infinito dei suoi malanni.
Provò allora a tenere gli occhi chiusi, ma non ci fu verso.
“Apritemi la finestra! – Gridò infine lui giunto allo stremo – Aria, aria!” E strabuzzava gli occhi fingendo di non respirare.
Accorsero tutti, e la Mitraglia schizzò su spaventata, sospinta all’uscio da più mani.
Fu un affannarsi precipitoso: telefono dottore ossigeno… “Ti sentirai meglio, vedrai.” Lo rincuoravano intanto.
Il dottore sentenziò una difficoltà respiratoria dovuta all’enfiagione ascellare che cominciava a premere sui polmoni; lodò l’iniziativa dei figli per il ricorso all’ossigeno e se ne andò salutando troppo giovialmente “Forza vecchio mio! Ne sortiremo presto, vedrai.”
In effetti lui ne sortì quasi subito: uscendo sulla strada fu preso in pieno da un’auto in corsa e fece l’ultimo viaggio in ambulanza verso l’inutile ospedale.
Egli sentì lo schianto e fu messo al corrente dai figli subito corsi alla finestra.
Rifletteva che inconsapevolmente ognuno si porta dietro la sua morte, e che il dottore, con tutta la sua scienza, non aveva mai pensato che la sua propria dovesse dipendere dalla logorrea fonica di Nina Mitraglia.
Buffa cosa la vita. Anche se, a dire il vero, il dottore per sua fortuna ne era uscito senza manco accorgersi.
Lui invece se ne accorgeva, eccome! Il gonfiore sempre più pesante da reggere, e moglie e figli senza tregua attorno con le inutili medicine.
Se avevano capito certo non si rassegnavano, si ribellavano anzi alla sua morte.
E si capiva; fino a un mese prima era un signore di una certa età, innamorato della vita e della famiglia, del tutto autonomo e pronto anzi a mettersi a disposizione dei figli in qualsiasi momento ne avessero avuto bisogno.
Sempre allegro e pieno di energie pareva ora impossibile che… E i figli, lo vedeva, ne soffrivano.
Come avrebbero retto alla sua morte? E che ne sarebbe stato di Ciccina, la più cucciola?
Questo soprattutto lo angosciava: non il morire che con l’aggravarsi del male cominciava a sentire come una liberazione, ma il pensiero di dover lasciare i figli e la moglie, povera donna, che gli parevano del tutto scoperti ora che non potevano contare più su di lui.
Era insomma, o per lo meno fino a qualche settimana prima, troppo vivo, e lucido, e saggio, perché tutti quelli che lo amavano non se ne dovessero sentire immedicabilmente deserti.
Come avrebbero affrontato i giorni senza di lui, da sempre per tutti scudo e sostegno nei piccoli e grandi mali del vivere?
Ciccina poi, la più piccola e indifesa?
Non sapeva come, ma sentiva che in qualche modo doveva ancora aiutarli.
“Ci hai messo una gran paura.” Lo sgridavano intanto sorridendogli.
Egli d’istinto l’avrebbe buttata in ridere. “Era per togliermi dalle scatole la cugina Marianna.” Avrebbe detto; e tutti avrebbero riso con lui.
Ma gli venne invece di fingere ancora il male: “Non riuscivo più a respirare.” Disse con un fil di voce.
E nessuno rise.
Ecco! Quella era la via!
Non nascondere più il dolore, mostrarlo invece, esagerarlo perfino, perché alla fine la sua morte fosse intesa da tutti non come una sciagura, ma come una liberazione.
Questo il meglio che ancora poteva fare per i suoi figli: la morte in regalo.
Certo non era facile fingere un dolore che non c’era, o almeno fingerlo feroce come non era, ma l’idea che quella era l’unica via praticabile per dar requie ai suoi cari, lo determinava.
Se fosse morto pieno ancora d’amore per la vita, cervello intatto, e la saggezza degli anni a far da contrappeso a una decadenza fisica per altro ancora perfettamente gestibile, avrebbe certo lasciato un vuoto nero e senza rassegnazione.
Ma se invece…
Che sentissero dunque giorno dopo giorno, ora dopo ora, il passo della morte che veniva.
“Mi pare che si sia gonfiato, e mi fa un male mica da ridere.” Cominciò a dire a quanti gli domandavano.
E se per un poco lo lasciavano solo, con un urlo li richiamava accanto farfugliando una fitta improvvisa e insopportabile.
Di notte s’agitava di continuo con un lagno strozzato, e la moglie, poveretta, senza sonno e senza rimedi, finiva col chiamare i figli per almeno qualche conforto.
“Senti dolore?” Domandavano ansiosi sperando di sentirlo reagire negando al modo di sempre.
Ma lui rispondeva di sì con un moto penoso del capo; e faceva il respiro grosso perché a tutti fosse chiara la ferocia del male.
Del resto da qualche giorno il dolore era tale che egli non aveva più bisogno di fingerlo.
“Devi cercare di dormire. – Lo pregavano non sapendo che altro – Anche per la mamma, che altrimenti non regge.”
“Potessi.” Si lamentava allora.
“Cerca almeno di non muoverti, o dovremo mandare la mamma a dormire altrove.”
Questa volta reagì con la prontezza di sempre.
“Ci si sposa – disse – per condividere tutto, nella buona e nella cattiva sorte.” E come vide d’averli annientati: “Voglio vedere Paolo! – Aggiunse – Voglio vederlo subito. Chiamatelo!”
Paolo era il figlio maggiore. Sposato da tempo s’era trasferito altrove e viveva con un lavoro che lo impegnava ogni giorno dell’anno fatti salvi i festivi e le ferie per altro mai godute.
“È mezzanotte – gli dicevano – e non si può costringere Paolo a fare inutilmente trecento chilometri. Domani mattina ha il suo lavoro. È venuto ieri l’altro, e non ti può fare niente.”
“Voglio vederlo subito. – Ripeteva ostinato – Domani non si sa.”
Niente da fare.
Intanto era accorsa l’altra figlia, sposata essa pure e con due bambine da badare.
Gli fu accanto con una carezza, e dolcemente gli parlava: “Pa’, sono qui. Tu stai male, lo so, ma anche noi, che credi? La mamma poveretta è sfinita. Bisogna avere pazienza, solo tanta pazienza.” Lui ascoltava, tenendo tuttavia gli occhi, a difesa, ostinatamente chiusi.
“Ne uscirai, sta certo. Ne usciremo tutti. Ma adesso dobbiamo essere bravi e dormire. Vuoi? So che m’ascolti, padre, anche se fingi di dormire. Tu lo sai, mi chiami perfino mentre sto facendo lezione, e io lascio tutto e vengo da te; ho pacchi e pacchi di compiti da correggere … e non riesco pa’, non riesco più. Eppure sono qui ogni volta. Ma Paolo no. Di notte così, con la macchina. Non dobbiamo essere egoisti.”
“Se tu sapessi – pensava lui – quanto poco mi preoccupo per me.”
Ma non disse niente.
E non ci fu verso.

Quando Paolo arrivò, nel lucore scialbato di prima mattina, egli s’era finalmente chetato in un sonno tranquillo.
Allora, senza parlare, i fratelli si guardarono, gli occhi lucidi di stanchezza e di pianto, e si abbracciarono. Poi videro la madre che, accanto al letto, tremava senza più forze.

A mezza mattina vennero a fargli visita le pie donne di San Vincenzo che gli assicurarono la protezione del santo, e dopo rituali parole di conforto presero a cantilenare il birignao di un rosario approssimativo.
Al terzo Mistero, per fortuna, furono interrotte dall’arrivo del dottore e costrette a uscir fuori.
Era un medico nuovo, dopo la morte del primo, e assai più sbrigativo: cuore, polmoni, un paio di ricette e via.
Le pie donne rientrarono subito armate di rosario, ma egli le zittì con un gesto, e ascoltava, avido, quel che il dottore, in corridoio, stava dicendo ai suoi figli; gli parve di sentire: “…sedare il dolore, nient’altro da fare… qualche giorno, due, tre, o forse meno…”
“Stronzo.” Gli uscì a mezza voce.
“Gesù! Ha detto… Che cosa ha detto?…” Esalò spaventata la pia donna che gli era più presso.
“Non so. – Cercò di scapolarsela Melina, la più giovane. – M’è parso Oronzo.”
“E chi è Oronzo?”
“Che vuoi che ti dica… Qualche parente alla lontana o qualche vecchio amico.”
Gli venne da ridere: “Stronzo. – Pensò – Essetì. Non oèrre.”
“Io dico che era il marito… Ti ricordi la Rosetta?”
Certo erano più divertenti di quando dicevano il rosario.
In realtà era poco credibile che avesse detto quel che aveva detto, perché una parola così, a memoria d’uomo mai gli era uscita dalla bocca.
È che a volte te la tirano fuori con le pinze dagli inferni in cui è sepolta chissà da quanto.
Come quel dottorino di primo pelo che gli concedeva, il saccente, due o tre giorni di vita, senza rendersi conto che egli aveva bisogno di almeno due o tre settimane per portare a termine quel che gli premeva.
Cominciò tuttavia ad affrettarsi e con un grand’urlo mise in fuga le pie donne e fece accorrere moglie e figli in affanno.
“Ti fa male, eh?” – Lo blandivano – Ma ora prendi queste gocce e vedrai, starai subito meglio.”
Non parlavano più di consulti o di esami.
“Evidentemente – Pensava – li considerano oramai inutili, e quelle gocce non servono ad altro che a sedare il dolore.”
Ce n’era davvero bisogno, perché col passare dei giorni s’era esso incarognito a tal punto che per ore e ore oramai lo azzannava come un cane rabbioso.
Certo non aveva più bisogno di esagerare, né d’altra parte aveva più l’energia necessaria per gli urli strategici di richiamo che tanto effetto avevano avuto fino allora.
Il suo male cominciò ad esprimersi con un lagno strozzato e continuo che non dava requie, e che (presto s’accorse) era più utile ai suoi scopi del grande urlo solitario con cui richiamava drammaticamente l’attenzione spaventata di tutti.
La moglie era ormai senza forze e i figli s’avvicendavano ad assisterlo come potevano, chi l’aiutava a nutrirsi, chi gli sistemava il letto arruffato dal continuo agitarsi, ora una pozione, ora l’ossigeno, ora un po’ di pulizia, via per le medicine, corri dal prete… Ma erano stanchi da morire.
Una volta li aveva sentiti parlottare mentre lo credevano assopito: “Soffre troppo. – Piangeva Cosima – Soffre troppo.”
“Se dev’essere così, Signore – pregava Ciccina – sia fatta la tua volontà.”
Era quello che voleva, certo.
La medicina più amara però.
Averli portati così allo stremo era adesso il suo patimento più feroce.
Eppure eccoli lì: non si rassegnavano ancora a vederlo spegnersi lentamente come un lumino ad olio, e lo vegliavano in angoscia.
Quando dovevano lasciarlo per impegni di lavoro o per esigenze di famiglia o semplicemente per poter respirare, almeno per un po’, un’aria meno opprimente, lo facevano tuttavia con mille scrupoli, e n’erano singolarmente sollevati fino a quand’egli li richiamava artigliandoli via cellulare col catalogo delle sue solitudini e dei dolori sempre più insopportabili.
Accorrevano allora di nuovo, e lo rimproveravano carezzandolo insieme: che non era possibile, gli dicevano, continuare così… che avevano dovuto lasciare i figli soli in casa, o il lavoro a mezzo, senza una ragione vera, per un capriccio.
Capiva che avevano ragione e aveva voglia di piangere; ma sentiva d’essere infine arrivato a quel che voleva, e se ne consolava.
Ora sì.
Adesso il dottorucolo saccente poteva diagnosticare tranquillo.
Questione di giorni… forse di ore. Stavolta hai ragione, dottore.
Ma devi imparare che un uomo non muore. Si lascia morire quando infine ha fatto tutto quello che è necessario.
Riprese allora a respirare affannosamente, e poi, quietandosi, guaiolava il suo male inframezzando parole: “Ma’ – Chiamava – fa presto!… Ma’… fa presto!”
E allora la moglie e i figli, senza volerlo, senza saperlo, ripetevano segretamente le parole: “Fa presto! Ti prego, fa presto!”
Accorse ancora il figlio lontano e con lui, stavolta, c’era anche Fabio che aveva voluto lasciare i suoi impegni di scuola per essere accanto al nonno.
Lunga storia quella di Fabio e il nonno.
Da quando se ne andavano insieme nei campi e il nonno se lo issava accanto sul trattore prima di muovere per viaggi da fiaba sotto i mandorli in fiore e tra gli ulivi; ed egli, appena tre anni, imparava i gesti sapienti di lui che armeggiava ora qui ora lì dando ordini precisi alla macchina.
E ogni tanto sorrideva godendosi la meraviglia negli occhi del bambino.
Poi, a viaggio finito, si stendevano sul prato per un po’ di riposo e guardavano insieme il vento che scherzava nella trama dei rami del carrubo.
“Nonno, sono Fabio.” Gli disse benché lo avessero avvertito che non lo avrebbe riconosciuto.
Invece aprì gli occhi, da giorni ormai chiusi, e sorrise.
Fabio allora tentò una carezza, leggera, per non disturbarlo.
Lui sorrise ancora: “Fabio.” Disse felice.
“Stai male?”
“No. – Gli rispose – Non più, adesso.”
Il ragazzo continuava dolcemente a carezzarlo: “Ti ricordi il trattore?… E il prato, ti ricordi?… E le margherite?…”
“E i papaveri.” Disse lui.
“E i fiordalisi.”
“E le malve…”
“Peccato che ora non c’è più.” Disse Fabio intenerito.
“C’è. – Protestò il nonno con un fil di voce – C’è ancora … ed è solo nostro. Nessuno più ce lo può portar via.”
“Sì, nonno. Nessuno.” E gli stringeva ora la mano.
Dovettero chiamarlo fuori perché non cedesse all’emozione.
Ma volle subito tornare da lui.
Sorrideva ancora, felice. Gli occhi fermi a godersi per sempre il suo prato.
Si sentiva stranamente leggero come mai prima e già levitava nell’aria sorpreso e incerto della direzione a cui muovere, quando la vide venire all’incontro: “Ma’.” Disse commosso.
Sorridendo ella lo prese per mano e con voce d’argento gli raccontava come una favola i monti giù in basso, e i fiumi, i laghi, i mari, il sole, le stelle, le galassie, le nebulose segrete… E tutto era straordinariamente piccolo e trascurabile.

C’erano corone e fiori interminabili ad accompagnarlo, e una folla di amici e conoscenti.
Furono i fiori (dalie variopinte, gerbere d’oro, orchidee incredibili, rose superbe) i primi a farsi da parte quando Fabio arrivò.
Procedeva egli sicuro senza vedere nessuno; e tutti allora gli fecero ala fino alla bara ancora aperta per l’ultimo saluto.
Senza una parola lo sfiorò con una carezza infinita, e sul petto, proprio accanto alla croce, teneramente gli adagiò un piccolo mazzo di fiori di campo.

[continua]


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