Oggi ho perso anch'io

di

Francesco Resta


Francesco Resta - Oggi ho perso anch'io
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 348 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6037-309-0

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore

In copertina acquaforte di Pietro Tarasco


Introduzione

“Oggi ho perso anch’io” di Francesco Resta è un romanzo appassionato e sicuramente complesso nella sua dinamica, quasi un viaggio che può tramutarsi in fuga, l’umano cammino come a ripercorrere le più disparate situazioni esistenziali fino all’ inevitabile epilogo.
È l’emblematica storia di uomini che vivono nel Sud, una terra senza popolo, come afferma lo stesso Autore. I protagonisti sono persone semplici, gente qualunque, come Giuseppe che vive in famiglia con i cinque fratelli e l’ambiente familiare diventa quasi un guscio esistenziale dove rintanarsi; Marco che segue il padre in campagna; Nicola che ha deciso di studiare o Armando che fa il ferroviere e, ad un certo punto, vuole creare un circolo culturale; e infine Mimmo, insegnante supplente.
Sono le figure simboliche d’una umanità della terra del Sud, scelte dall’autore per raccontare la vita di coloro che “fanno fatica a sopravvivere” e, attraverso lo snodarsi di una serie di vicende tra il sofferto cammino esistenziale e la ricerca d’una via d’uscita da un mondo “chiuso” che non offre possibilità per riscattarsi dalla propria condizione precaria, vengono alla luce le inquietudini, le fragilità, le illusioni e i sogni dei protagonisti comunque alla ricerca della coscienza di sé, con la loro disperata necessità di trovare una “dimensione umana e sociale”.
Nella narrazione di Francesco Resta, vibrante e capace di vivisezionare ogni situazione o personaggio, tra ricordi e frammenti d’una realtà dove pare dominare la rassegnazione, il tempo pare immoto e tutto sembra rimasto fermo agli anni ’60: la sua verve narrativa riesce ad alimentare una continua introspezione dei protagonisti, una complessa propensione alla riflessione e una spietata constatazione della realtà che si ha davanti agli occhi. Quella dura e cruda realtà che obbliga a fare spesso i conti con le antiche illusioni, i sogni che quasi sempre vengono infranti e le aspettative sovente tradite.
Le tradizioni d’una cultura, la vita monotona d’un mondo chiuso in se stesso, il tentativo di studiare per raggiungere un “altro luogo” che non sia uguale alla dimensione del piccolo paese del profondo Sud dove non ci sono speranze per il futuro.
La vita è dura, siamo d’accordo, ma a volte può esserlo ancora di più.
Tornano alla mente gli anni vissuti, i ricordi, le vicende e gli incontri nella terra natìa e tutto viene pervaso e permeato da profonde riflessioni sulla condizione sociale di persone che continuano a cercare una soluzione ai loro problemi.
Ecco la fotografia spietata d’un Sud dove “tutti fuggono”.
Francesco Resta è fedelmente impegnato a seguire la sua linea di condotta nel certificare, senza orpelli né inutili giudizi, una determinata situazione le cui cause sono da ricercarsi in secoli di abbandono, di indifferenza, di lassismo da parte delle istituzioni: e tutto assume vigore letterario, fino a sprofondare nel baratro dell’impotenza davanti ad una realtà sicuramente non facilmente modificabile.
Il cambiamento può essere possibile, il sudore da versare e la fatica da fare non sono cose da niente ma deve pur esserci una labile speranza. Anche se, dopo aver letto il romanzo di Francesco Resta, la visione espressa all’inizio del racconto da Giuseppe si rivelerà veritiera: “Qui c‘è poco da fare”. E, proprio quelle parole di Giuseppe, faranno capire a Nicola che, davanti alle tristezze d’ogni giorno, è necessario adattarsi. Con rassegnazione. Ecco la presa d’atto davanti ad “una terra tanto amata quanto ingrata”.

Massimo Barile


Oggi ho perso anch'io

ad Alessia, Giulia, Tiziana e Floriana


GIUSEPPE, MARCO E MIMMO

“E già! Qui, c‘è poco da fare. Qui, non cambia mai niente.”
Con quel caldo la barba gli dava un prurito da morire e col sudore ancora peggio.
Se la guardò. Se la grattò. E se la rigirò. Era proprio giunto il momento di cambiare faccia, visto che non cambiava mai niente.
“Se non altro cambiamo quella!”
Prese la forbice dal lavandino e incominciò a tagliare, zac, zac…
“Adesso si mettono pure i colleghi! Prima tutti carini quando avevano bisogno delle dispense e poi? Quando le ho cercate io per il nuovo esame sono tutti scomparsi!”
A ogni taglio il mento diventava sempre più piccolo.
“Sanno proteggersi bene tra loro. Per forza! Sono stati educati a farsi la corazza. Guarda caso, fanno Medicina e sono tutti figli di medici! E domani da laureati cosa mi combineranno?”
Li vedeva nello specchio tutte quelle facce, uno più stronzo dell’altro, gli occhi che lo fissavano. “Almeno, adesso il sudore lo sentirò di meno. E devo far presto! Marco mi sta aspettando.”
I peperoni ripieni gli arrivarono su, un singhiozzo, chiuse gli occhi e cambiò pensiero. Si ricordò di Gigino che aveva deciso di tenerla, magari più corta.
Dopo l’insaponata e il rasoio si accorse di avere una screpolatura sotto il mento, il resto della faccia aveva proprio bisogno di sole, bianca come il latte fino al naso e alle orecchie, uno svedese sotto e sopra quasi un africano; un contrasto da spavento!
Sentì il bisogno di uscire da quel buco e andare a prendere un po’ d’aria.
Scivolò dalle scale silenzioso come un gatto senza che nessuno se ne accorgesse. Aprì il portoncino. Un bagliore lo investì da non poter tenere gli occhi aperti. Era un forno!
Sarebbe ritornato volentieri nella pace di quel fresco.
Con la testa bassa, gli occhi socchiusi, vedeva solo le cianche e girò l’angolo della strada.
Andò a sbattere addosso a Stefano e Pasquale.
Si facevano aria col berretto, appoggiati al muro, al fresco sotto un balcone. Pochi passi dietro intravide il sottano con il panno che scendeva giù.
Era morta Rosina, la vecchia però non la giovane.
“Giusè! Vedi questo qua!” fece Stefn u sciancate “gli ho spiegato che si tratta solo per oggi perché Giuann gazzose ha fatto sapere che viene domani. Ste scase!”
“E no!” si fece avanti Pascale u russ “voi così mi volete fare fesso! Così tutte le volte che mancherà Giuann gazzose lo devo suonare io u tammurre!”
“Ma no! È solo per oggi!” insisteva Stefano “ti ho detto che sta scasando!”.
Passò una tutta a nero: “Ci è muart?”.
“Rosina la vecchia” rispose Giuseppe.
“Iih chedda cristiane!” esclamò aggiustandosi il fazzoletto a lutto e andò via con passo spedito.
Il rosso era diventato davvero rosso: “E poi Giusè! Io suono il clarino e il tamburo non lo so suonare perché non l’ho mai suonato.”
“Beh!” Giuseppe si rivolse all’altro “e allora se non lo sa suonare come farà?”
Lo sciancato si allisciò il becco un momentino, pensò, e trovò la soluzione: “Lo so io come faremo!”
Pasquale si voltò con le pupille spalancate verso Giuseppe, ma stava facendo un brutto sogno? Non ebbe il tempo di reagire che sbucò il prete dal sottano con tutto il suo codazzo: quattro fratelli della Madonna del Carmine con la bara sulle spalle, e dato il peso di quella poveretta non fecero molta fatica a sistemarla nel carro.
U sciancate afferrò la grancassa dal cinghione, l’appoggiò delicatamente sulle piccole spalle du Russe e gliela fece finire una volta per sempre.
Li vide partire. E rimase solo coi panni viola che dondolavano lievemente, ormai non servivano più a niente.
Ritornò di nuovo nei suoi pensieri.
La canicola picchiava.
Girò le spalle a quel macabro spettacolo e si affrettò verso il bar scegliendo il marciapiede meno assolato, giusto giusto si formava solo l’ombra dei balconi.
Sbucò nell’anfiteatro, non c’era un cane!
Più tardi sarebbe scesa l’ombra dei caseggiati sulla fontana posta al centro della piazzetta e allora si sarebbero radunati i vecchi con le loro sedie di paglia e i loro vestiti sempre a lutto.
Rosina, una di loro, se ne era andata senza dare fastidio a nessuno.
“Questi vecchi sono come le formiche” diceva a voce bassa “d’inverno si rintanano nei loro sottani senza mai uscire e ai primi caldi escono dal loro letargo da quelle stradine, con gli stessi vestiti scuri e pesanti con cui hanno svernato. Scuri e tristi come le loro facce. Tutti col busto o col bastone e vanno dal medico solo sul punto di morte!”
Fece mezzo giro intorno alla fontana e vide la solita bicicletta azzurra avanti al bar, doveva essere proprio in ritardo. Alzò il passo e attraversò l’asfalto.
Davanti alla tenda di plastica sentì la voce di Marco che chiacchierava con Ciccio. Il fresco gli venne addosso assieme all’aroma del Saicaf. Provò sollievo e tirò forte nelle narici.
Scostò la tenda. Fece due passi e si sentì meglio, tuttavia gli occhi faticavano ad adattarsi alla penombra, a malapena notava il bancone di fronte.
“Mo’ ti ritiri?”
Marco per farsi capire meglio gli fece un gesto con la mano su in alto a destra verso l’orologio, poi si bloccò davanti alla sua faccia bianca da cadavere.
“Beh! Ti sei fatto a nuovo?”
Erano i primi a prendere il caffè, non c’era da aspettare.
Anche Ciccio, dietro al bancone, lo fissava con la sua faccia larga, i pugni conficcati nel grasso dei fianchi e volle prendersi la sua pizzicata: “Sempre a studiare stai? Ti fai vedere sempre di meno!”
Non gli diede retta.
Servì i caffè e riprese: “Pure mio nipote adesso si è ficcato in testa di voler fare quella nuova facoltà... si chiama… riformatica!”
Era meglio stare zitti e fare finta di niente.
Entrarono altri due, allora Ciccio si girò di spalle e incominciò a smanettare con la macchina del caffè.
Si spostarono di lato sul frigo dei gelati per stare in santa pace.
Giuseppe si era decisamente ripreso e girava lentamente col cucchiaino il suo caffè. Diede uno sguardo distratto alla Gazzetta e indicando il giornale domandò a bassa voce: “Cosa c‘è di nuovo?”
“Poco e niente!” sussurrò Marco “Craxi ha fatto il governo” e fece una scrollata di spalle. Abbassò anche lui gli occhi nella sua tazzina, era abbastanza ristretto, e senza farsi sentire dagli altri gli fece una strana proposta: “Andiamo a fare due passi?”
“Dove?” si voltò stralunato Giuseppe.
Prima di rispondere accese la sua Marlboro, tirò placidamente la prima raspa, si appoggiò col gomito sul frigo, aspettò che il compagno lo imitasse e allora gli venne un’idea:
“Andiamo da Armando che mi voglio pesare!”
Non poteva essere il momento migliore per spingersi fino alla stazione con quell’afa che toglieva il respiro. Negli ultimi giorni inconsciamente preferivano sostare da quelle parti come se da un momento all’altro dovesse arrivare qualcuno.
Pensarono bene di andarci con le biciclette altrimenti sarebbero squagliati. Il primo tratto venne agevole al fresco tra le stradine del borgo vecchio, poi dovettero girare intorno al piancito della piazza deserta e allora si beccarono la silagna; lungo il corso ricevettero un supplemento. Non incontrarono nemmeno un cristiano, a quell’ora sembravano due fantasmi usciti chissà da dove.
La stazione stile impero, ferma, immobile, aspettava là in fondo.
Passarono davanti al Bar Roma e non c’era nemmeno il cane che abitualmente si sdraiava sul marciapiede sotto i platani.
Arrivati davanti alla vetrata della stazione preferirono entrare dalla porta secondaria per trovarsi giusto di fronte alla bilancia.
“Ottantadue!” Esclamò grattandosi nei capelli “se non ricominciamo a giocare qui si mette male!”
Scese dalla pedana e salì Marco che intanto si asciugava il sudore dalla fronte con il fazzoletto. Stette fermo un attimo e infilò la cento lire nella fessura.
“Settantanove! Però!”
Erano le due colonne della squadra. In difesa e in attacco avevano la calamita sulla testa. Marco però, temeva così di perdere i capelli dalla fronte e non si preoccupava della luna precoce che già appariva al centro del cranio.
Si affacciarono sul primo binario e un ferroviere fece capire, con l’indice all’insù oscillante, che Armando non era di servizio.
Oltre il muro che delimitava il secondo binario si scorgevano le cime dei cipressi e poi nient’altro.
Si sentiva appena la banda.
Giuseppe pensò a Pasquale. Sarebbe andato volentieri al posto suo pur di muovere quell’aria così pesante e togliersi dalla testa certe cose.
“Tu ti sistemi a fianco a me e ogni qualvolta devi menare la botta ti farò un segno con la testa.” Era stata questa la grande invenzione di Stefano. Li vedeva ancora quando tutti e due si erano allontanati. Stefano lo sciancato con la sua andatura piuttosto ondeggiante, il suo lunghissimo collo a giraffa e i piatti nelle sue grandissime mani; Pasquale col suo ciuffo sulla fronte, i suoi due cannocchiali che fissavano lo sciancato dal basso verso l’alto cercando di vedere anche il più piccolo movimento delle sue mandibole.
L’altoparlante gracchiò e lo riportò con i piedi per terra.
Il solito treno da Taranto con la solita mezz’ora di ritardo.
“E allora che si fa?”
Marco si ricordò dell’ultima novità: “Andiamo giù al campo!”
“Chi sono arrivati?”
“I Phantom!”
“Mi è venuta un’arsura” sibilò Giuseppe pizzicandosi la gola “andiamo prima a prendere una grattata da Brodeuicc!”
Proprio quello che ci voleva!
Si trattava di ritornare indietro in fondo al corso e svoltare in quel minuscolo triangolo che usavano come piazzetta della verdura. Roba di tre o quattro minuti, ma il sole ce l’avevano proprio sulla testa, si faceva fatica anche a pedalare.
Davvero un caldo bestia! L’aveva detto anche Bernacca.
Appena davanti alla baracchina si rifugiarono sotto la chioma di un albero.
E per fortuna che adesso erano comparsi i bicchieri di carta! Prima con quelli di vetro, sciacquati a mano, era proprio un rischio.
Brodeuicc si chinò a dare una girata, la panza premeva sulle tavole e a ogni calata tirava su un mestolo pieno; giusto giusto riempiva un bicchiere.
Scendeva la miscela di limone e ghiaccio, raschiava la gola che era una bellezza; a ogni sorso prendevano fiato, stringevano la grattata tra lingua e palato e aspettavano che squagliasse un po’.
“Giusé!”
Si sentì chiamare dietro alla sua destra.
Si voltò e riconobbe subito la femmina quartata seduta sulla panchina all’ombra di un leccio, che accennava a un sorriso smorzato; accanto a lei un altro pezzo di donnone.
“Ciao Lucia!” esclamò.
Fu proprio contento nel vederla dopo tanto tempo e così trasformata.
Si avvicinò e gli strinse la grossa mano sudata.
“Questa è mia figlia.”
“Che bella ragazza! Complimenti!” E sorseggiò ancora limonata e pezzi di ghiaccio.
“Oltre a lei ne ho altri due più piccoli.”
“Ah bene!”
Ci fu un attimo di silenzio e Lucia si trovò con gli occhi lucidi, ma si riprese subito: “Giusé! Quante cose mi fai venire inda la capa…“e le si strozzò la voce in gola.
Marco osservava defilato all’ombra della baracchina, distante da non sentire, non aveva idea chi fosse.
“E Tonino?” le chiese Giuseppe.
A Lucia gli occhi strariparono: “Ma come non sai niente?”
“No! Perché? Cosa è successo?”
A quella domanda Marco si avvicinò per ascoltare meglio.
Lei si asciugò il viso col dorso della mano e incominciò a raccontare: “Tu sai quello che faceva mio fratello. Avantieri ha fatto quattro giorni che l’hanno trovato morto.”
“L’hanno trovato morto?” Ci rimase ma non troppo.
“Sì!” e abbassò la testa.
“E come è successo?”
“Non si sa.”
“Come non si sa?”
“Eh… si era ritirato fore da mamma senza fare niente dalla mattina alla sera. Poi un bel giorno non si è visto più. Tre giorni dopo i carabinieri l’hanno trovato in un fabbricato che stavano facendo da quelle parti dove abitano mamma e papà.”
“Ma gli hanno fatto qualcosa?”
“I carabinieri non lo sanno.”
“E cosa hanno accertato?”
“Hanno detto che si poteva essere buttato dal buco che ritrovava sopra; oppure che poteva essere caduto, perché non aveva visto il buco che c’era ed era caduto abbasso; oppure poteva essere che l’avevano buttato. Non si è saputo niente…”
“Ma è stato di giorno?”
“No! Hanno detto alle due di notte. È venuta pure la Scientifica. Hanno detto che ci faranno sapere…”
“Quindi è in corso un’indagine?”
“Sì! Sembra che c‘è qualcosa di strano. Sembra che quella notte Tonino non era da solo.”
“E con chi era?”
“Non lo sanno ancora.”
“Ah… ho capito.” E si grattò la testa.
“Povero Tonino!” pensò.
La salutò e lei ritornò a sedersi al fresco.
La limonata era tutta squagliata ma la finì lo stesso tutta di un sorso. Si girò verso Marco e quello fece capire dallo sguardo che non ne sapeva niente.
Incominciò a sollevarsi qualche alito di vento ma era peggio di prima, sembrava venisse dall’Africa.
Inforcarono le biciclette e presero la strada per scendere abbasso al campo. Il solito posto preferito era lungo la strada che costeggiava il reticolato a pochi metri dalla pista
Si scendeva dal paese e bastavano poche pedalate per arrivare giù in quel pianoro dove spesso d’inverno aleggiavano sottili banchi di nebbia. Dicevano che era stato scelto proprio per quel motivo.
Marco a tutta velocità aveva quasi terminato la discesa lasciandosi alle spalle le ultime case.
Lui più indietro si lasciava andare pian piano, malinconico e pensieroso senza pedalare.
“Povero Tonino” pensava “e adesso? Quando quello verrà dal militare?”
Si ricordava che Lucia e Tonino erano stati per Nicola come dei fratelli, specie per Tonino aveva proprio un debole. Nicola aveva cercato di aiutarlo in tutti i modi ma quando la famiglia du taratine si trasferì nella Murgia, a diversi chilometri dal paese, lo perse di vista e allora fu davvero la sua fine.
“Cosa farà adesso quando lo saprà?” Giuseppe si tormentava con questa domanda.
“Anche se non glielo dico io lo saprà lo stesso. Figurati! In questo paese dove nessuno si fa i cazzi suoi!”
Che brutta storia! Non ci voleva proprio. E con questi pensieri si trascinò fin giù Sott o Vasc dove avrebbe incontrato i soliti patiti.
“Giusè! Hai visto! Sono arrivati i Phantom!” lo svegliarono i richiami di Sciablone.
“Pizza! Anche questo qui!” mormorò tra i denti.
“Ma dove stanno?” gli domandò Marco mentre appoggiava la bicicletta vicino ai carpari.
“Sono già decollati. Mo’ arrivano di nuovo!”
Avrebbero potuto chiedergli dov’era stato, da diversi mesi che non si vedeva più.
Se ne guardarono bene.
Aspettava anche lui qualche domanda e intanto aggrottò le sopracciglia.
Meglio così.
Qualche metro più in là c’erano cinque o sei “grigi” assiepati sul muretto, tre macchine parcheggiate ai loro piedi, e poi il lungo terribile asfalto nero a perdita d’occhio.
“Cosa c‘è oggi?” Chiese Giuseppe.
“Addestramento in coppia” rispose il primo della fila.
Apparvero all’orizzonte da tramontana e calarono con i motori a minimo. Le sagome dei caschi erano come capocchie di spilli. Fecero finta di atterrare e in un attimo il tipico sibilo si trasformò in un rombo assordante da far vibrare anche le budella.
Volteggi, giravolte, evoluzioni; si gasavano nel vederli impalati sul muretto al bordo della strada come passeri in fila indiana.
“È inutile! Una volta si campa!” Sciablone la menava sempre con le stesse parole “chissà cosa darei per fare quelle cose lì. Andrei anche con quelle carrette degli F 104!” e non distoglieva lo sguardo.
Era diventato un gioco. Si allontanavano, ritornavano lungo la pista a volo radente e di nuovo con le loro acrobazie da circo, e tutti a muovere la testa, ora sopra e ora sotto a seconda delle giravolte.
Allora sì! Lasciarsi trasportare da quel terremoto che finalmente li scuoteva fin dentro le ossa e potersi liberare da quella camicia di forza nel vedere i ricami nel cielo di quelle rondini d’acciaio. “Forse Sciablone ha ragione” diceva Giuseppe dentro di sé “una volta si campa e io non riesco nemmeno a fare un piccolo salto! Ma chi me lo impedisce?”
“Non vi vedo più da quando se n‘è andato Nicola” urlò Sciablone per farsi sentire “quando si congeda?”.
“La settimana che viene” fece Marco sempre gridando; a lui invece gli aerei davano altre sensazioni. Altro che!
Ricordava benissimo le loro compagne al Liceo in visita all’aeroporto. Che zoccole con gli ufficiali! Se li mangiavano con gli occhi. Loro invece? La figura dei bambocci.
“È inutile! Una volta si campa!” Sciabola fisso a guardare, impalato, si era ormai incantato.
Marco girò di nuovo la testa verso il cielo e ritornò nei suoi pensieri: “Alla scuola media? Peggio che andar di notte! Figli di papà tutti da una parte e i figli dei cafoni nelle aule senza riscaldamento. Eppure ero figlio di un grande proprietario! Ma sempre di fore!”
Adesso verrà Nicola” pensò “cosa vorrà fare? Ha fatto l’anticipo proprio per pensarci un po’ su. All’ultima licenza sembrava che avesse intenzione di andare all’Università. E io? Il boss me lo ha detto chiaro e tondo: “Sono ormai vecchio e tutta questa roba sarà abbandonata se non vieni tu!” Peccato che il terremoto della Basilicata non abbia fatto piazza pulita anche qui… andare all’Università? Ma mica per usarla come un parcheggio. Devo essere convinto. E mio padre? Lo posso sempre mandare affanculo! Ho deciso! Farò quello che farà Nicola. Cioè prima vedrò quello che farà Nicola. Un altro al posto mio avrebbe fatto salti di gioia. Volere è potere diceva quel tale. Se avessi avuto un altro padre sarebbe stato tutto diverso. Mi ha sempre condizionato nelle scelte e non lo avrà fatto perché sono un incapace. Se avessi avuto certe possibilità! Poi ci sono certi soggetti che solo a guardarli! Ma loro sono figli di papà. È anche l’ambiente! Nel paese dei ciechi quello con un occhio fa il sindaco. Qui c‘è poco da far storie. Forse ha ragione mio padre…”
Gli aerei erano di nuovo scomparsi. Si voltò indietro e vide quattro vacche con le ossa di fuori radunate all’ombra dell’unico albero, fisse, immobili. Non c’era un filo d’erba, tutto un giallore squallido che faceva male agli occhi e all’anima.
I Phantom ritornarono e questa volta atterrarono davvero, infatti presero la strada degli hangar.
Le macchine fecero manovra e ritornarono in paese.
La discesa adesso era tutta una salita. Dolce ma sempre una salita da far sudare. La maglietta si attaccava sulle spalle. Il sole era più basso e dava una luminosità meno violenta ma ce l’avevano proprio di fronte. I carpari calcinati ai lati della strada tendevano al grigio, le colline brulle e pietrose all’orizzonte si ammantavano di una foschia venuta dalle crepe della terra.
Appena entrati nell’abitato, Marco smise di pedalare e la bicicletta si fermò. Si voltò indietro e gli chiese: “Hai da studiare domani?”
Giuseppe tirò i freni e mise il piede a terra.
“Domani posso fare una pausa e poi riprendo con l’altro esame.”
“Andiamo al mare?”
“La macchina non la posso prendere, perché con mio padre… guarda…”
“Prendo io la 500” lo rassicurò Marco “prima però, devo passare dal municipio.”
“Lo diciamo anche a Mimmo?” Chiese Giuseppe.
“No! Non mi sembra il caso. Ormai quello è sicuro che non viene.”
“Va bene. Domani al bar alle dieci.”
Si separarono e mentre Giuseppe prendeva la stradina per il centro, Marco si dirigeva verso la zona nuova del paese e immaginava che l’indomani avrebbe trovato la solita coda.
“Sarà meglio andare di prima mattina” pensava “se Esatto sta alluvionato perderò tutta la mattinata.”
Al Comune l’unico posto dove si lavorava un po’ era l’anagrafe e nessuno ci voleva andare, perciò avevano pensato di mandare quel povero cristo di Esatto. Lui non aveva assolutamente protestato e per questo, anche quando a prima mattina puzzava di Vecchia Romagna tutti lo compativano, proprio perché gli erano riconoscenti di aver accettato senza fiatare.
Il municipio era un vecchio convento decadente, ristrutturavano di volta in volta quella parte che minacciava di crollare. Lungo le pareti della scalinata iniziale erano affissi gli annunzi matrimoniali, dove sostavano le zitelle del paese, dopo pochi scalini si accedeva in un chiostro e tutt’intorno erano situati gli sportelli dei vari uffici. Le celle dei monaci dei piani superiori erano state trasformate in celle per tossici e contrabbandieri; più volte l’amministrazione aveva fatto capire di voler eliminare quella vergogna e ormai erano rimasti ancora due o tre topini. Cosa c’era nel labirinto retrostante era tutto un mistero. Forse ci sarebbe stato bisogno di Guglielmo e Adso ma non avrebbero trovato nemmeno un libro.
Sicuramente in quelle stanze si riunivano i soliti noti per combinare i loro affari.
L’indomani, alle nove in punto, la solita coda.
Passarono dieci minuti.
Si alzò la saracinesca e apparve Cristoforo a mezzo busto con la faccia del sonno.
“Poveretto!” sentiva dire “dopo che gli è morta la moglie si è combinato male. Mo’ beve pure!”
Davanti in doppia fila Marco ne contò otto, cinque per otto quaranta, se filava tutto liscio si poteva fare anche in mezz’ora.
“L’anno scorso ho preso una lepre, che a prenderla per le zampe di dietro e tenendo il braccio teso, le orecchie toccavano il terreno!”
La conoscevano tutti ma per il basettone era sempre la prima volta.
“Scusa! Ti posso fare una domanda?” Marco lo interruppe per fargliela finire.
Quello piegò la testa con un fare sospettoso.
“Mettiamo che oggi chiude il calendario per la lepre e tu domani vai a caccia. Se ti trovi davanti a una lepre cosa fai? Spari?”
Il cacciatore dai grandi basettoni fece uno sguardo pieno di ironia, come per far capire che nel tranello non ci cascava.
“Io rispetto sempre l’apertura e la chiusura dei calendari” rispose cauto “ma se mi trovassi in quella situazione cosa farei? Direi alla lepre: buon giorno ci vediamo l’anno che viene!”
Tutti risero di buon gusto. Intanto Marco era arrivato davanti allo sportello.
Cristoforo aveva il naso infuocato e guardava in alto. Brutto segno!
Incominciò a leggere il suo foglietto: “Vorrei uno stato di famiglia, un certificato di nascita, un…”
“Ehi!!” gli urlò “dove vai? Me li devi chiedere uno alla volta! Qui i computer non esistono. Vedi le macchine? Sono del 15/18!”
Tutti dalla parte di Cristoforo: “Ma dài! Cristoforo ha ragione,” e altri dicevano: “Come deve fare a ricordarsi tutti quei certificati?” più di tutti il ragioniere in pensione che si trovava alle sue spalle: “E dài insomma! Uno alla volta!”
“Esatto! Uno alla volta!” replicò Cristoforo con la testa fuori dallo sportello come un uccello a cucù.
Marco fece una smorfia stringendo le labbra e rimase con tanti dubbi nella testa. Lesse un certificato e Cristoforo che a stento si reggeva in piedi cercò la scheda metallica nel casellario con grande difficoltà, la inserì sotto una piccola pressa e stampò il certificato. Così fu per il secondo e il terzo.
“Allora? Sempre uno alla volta!” Precisò Marco.
“Esatto!”
Guardò l’orologio, le dieci meno un quarto. Era orario.
Passò dal bar. Giuseppe non era ancora arrivato. Guardò verso la fontana e tra gli alberi della piazzetta, niente. Eppure gli aveva detto alle dieci!
Nicolino Sandokan con il suo pataccone sul petto da orso e i pollici nel cinturone stava al suo solito posto, appoggiato con le spalle a un’anta della porta del bar diceva due chiacchiere con Hunphrey Bogart, divagava con le sue fantomatiche storie e divaricava ancora di più le gambe.
Sopraggiunse come un fulmine da una stradina laterale un ragazzino col fiatone e buttò un grido:
“Nicolino corri! Hanno spaccato la testa a tuo padre!”
“Ce cosa!!”
Avevano osato toccare suo padre!?
Scattò come una molla e dietro di lui correvano tutti quelli che avevano ascoltato e tanti altri attratti dalla curiosità. Volle andare anche Marco.
Nicolino correva tra le stradine di chianche come un assatanato, facendo un gran frastuono con le sue scarpe da pistolero e l’enorme mazzo di chiavi che portava legato a un passante dei jeans. Tutti gli altri correvano dietro a debita distanza e morivano dalla curiosità.
Non riusciva proprio a immaginare chi avesse osato così tanto.
Alla fine di una lunga stradina svoltò per imboccare un vicolo cieco e gli si raggelò il sangue.
In fondo vi era una moltitudine di persone, per lo più donne, che circondavano una macchina e altre ancora sporgevano dai balconi. Suo padre era seduto sul bordo del marciapiede e aveva una grossa ferita sulla fronte da cui gli colava sangue sul viso formando grosse chiazze sul collo della camicia. Ma la sorpresa che Sandokan non si aspettava era la montagna di muscoli appoggiata sul cofano di quella macchina.
“Proprio a te stavo aspettando. Vieni! Vieni!” gli fece segno anche con la mano.
Per l’ennesima volta il proprietario del sottano era andato a riscuotere l’affitto che non gli veniva pagato da sei mesi. Stanco delle ripetute prese in giro aveva mollato nu m’ffittone al padre di Nicolino con una mano che sembrava un badile. Il poveretto, intorno alla cinquantina sia d’età che di peso, aveva preso un viaggio da andare a sbattere con la testa sullo spigolo della porta procurandosi quel brutto taglio.
“Ih Madonna meje!“esclamò una donna da un balcone “jè arrivat’Nicolino e mo’ ce avà s’ccete?”
E cosa doveva succedere?
Il guappo ingoiò la saliva, capì subito che le avrebbe buscate di santa ragione e ideò in una frazione di secondo la trovata per salvare almeno la faccia. Sempre di corsa, arrivò a pochi passi dal colosso con un fiatone vicino a scoppiare, facendo immaginare che avrebbe combinato l’ira di dio. Invece, finse di inciampare col piede contro una chianca che sporgeva più delle altre e stramazzò a terra con tutto il rumore delle sue chiavi.
“Iih! Madonna meje!” Urla e grida dai balconi e dalle donne vicine alla macchina.
Non tutti pensarono che si fosse fatto davvero male, fino al limite dello svenimento, così come cercò di far credere lui.
Il ciclope capì tutto e non volle più infierire. Una scrollata di spalle e mandò a quel paese lui e suo padre.
Una vicina di casa si avvicinò e lo pregò ancora: “E sciamn vieni un’altra volta.”
Sentì dalle persiane socchiuse tutto quel casino ma non gli fece né caldo e né freddo. Tanto, ogni giorno ne combinavano una. Proprio allora stava mettendo un tocco di nero sulle sopracciglia, voleva aumentare lo spessore specie sulle labbra, naso, gote; per dare più profondità agli occhi avrebbe usato le mani al posto del pennello, lo avrebbe accarezzato, lo avrebbe fatto muovere, farlo rivivere. D’altronde, tutti dicevano che era la sua fotografia. Luce dei suoi occhi e tutto intorno penombra. Si imbrattava di colori come fosse sangue. Con quel caldo si tolse anche la canottiera e la buttò per terra. Dopo il viso in primo piano aveva disegnato il trullo e le vigne dove il padre amava rifugiarsi da quando aveva incominciato a star male. A gennaio l’aveva sorpreso una nevicata, Nicola era in licenza e con la sua macchina andarono a portargli qualcosa da mangiare, ma di tornare in paese non ne volle sapere. Chissà, sperava che l’aria di campagna e la pace di quei posti gli avrebbe fatto bene. Non fu così. Arrivò lei con la sua falce, come quella che aveva visto da Brancaleone e con una terribile folata fece tornare ancora una volta i suoi conti.
Rispetto agli altri due non era molto alto. Riconosceva di avere un carattere più focoso senza però arrivare agli eccessi di Nicola. Quando aveva una cosa da dire in faccia non la nascondeva come facevano gli altri due, ci rifletteva sopra un po’ e prima o poi sputava il rospo. Tuttavia, era sempre stato alquanto volubile, andava a giornate, ma adesso non riusciva più a riprendersi. Nicola non veniva in licenza da un pezzo e non gli aveva fatto sapere niente. Marco e Giuseppe avevano cercato di tirarlo fuori ma non c’era stato niente da fare, se prima le sue comparse nel bar e sul corso erano saltuarie, adesso era proprio difficile trovarlo in circolazione. Sapevano che aveva una passione per il mare e spesso lo avevano invitavano. Dopo diversi cenni di rifiuto non avevano più insistito, con la testa non c’era proprio. Sapeva che a quell’ora, probabilmente, Marco e Giuseppe si rosolavano sulla spiaggia, lui invece preferiva dipingere dalla mattina alla sera, non per piacere ma per rabbia, per cercare di capire perché questa sciagura fosse capitata proprio a lui. Realizzava sempre atmosfere lugubri e nebbiose, infatti aveva imparato bene da Labrocca. E lì passava ore intere per animare sulla tela il patimento che si portava dentro. Da quando aveva sentito quelle urla giù nella strada erano passate un paio d’ore e adesso era arrivato il momento di dare spessore al cielo. Prese il pennello più grande con la mano tremante e giù con verde scuro, marrone, blu notte!
A quell’ora invece, gli altri due avevano già fatto il primo bagno.
Rivolto verso l’alto gli bruciavano le labbra dalla salsedine e con il dorso delle mani si proteggeva gli occhi; le prime goccioline d’acqua arse dal sole lasciavano i loro residui di sale sulle nocche delle dita. Aveva ancora un po’ di affanno per le nuotate a perdifiato e sentiva ancora il battito nelle tempie. Fissava il cielo azzurro tra le dita e poi scorgeva la punta del naso. Su quello sfondo azzurro e uniforme si formavano strani disegni trasparenti a forma di vermi. Chiudeva gli occhi, poi li apriva, i lombrichi si erano spostati a sinistra. Adesso il sole incominciava a scottare ma nella testa aveva ormai un chiodo fisso.
Tonino l’aveva conosciuto attraverso Nicola e la storia miserabile di quel ragazzo, loro coetaneo, l’aveva subito colpito. La madre di Tonino proveniva da Taranto e infatti la chiamavano Ninetta la tarantina. Orazio, il padre, era un eterno disoccupato e lavorava dove trovava: a pulire fogne, a fare scasamenti, a scavare fossi sempre con pico e pala; la curva della sua schiena ne sapeva qualcosa. Tonino, come i suoi fratelli, era nato già vecchio e se la cavava sin da piccolo in tante faccende.
A Nicola, suo vicino di casa, aveva insegnato a saper stare nella strada. La madre e la nonna di Nicola, una più bigotta dell’altra, invece lo proteggevano con un sacco di proibizioni, quasi da soffocarlo, e non tolleravano che preferisse il suo vicino di casa ai suoi compagni di scuola. La reazione più immediata in uno spirito ribelle come il suo, fu quella di attaccarsi a Tonino e stare da mattina a sera a giocare nei posti più disparati dall’altra parte del paese, dimenticando a volte di avere una casa.
Per Giuseppe era diverso, lui era rimasto sempre al caldo della sua famiglia con i suoi cinque fratelli e con loro aveva diviso momenti belli e momenti brutti. Forse per questo, rimanendo in questo guscio distaccato da tutto il resto, esisteva solo l’odio per suo padre quando manifestava atteggiamenti da despota. Per la sua infanzia così diversa, riconosceva in Nicola qualcosa in più e se doveva fare uscire il meglio di sé si bloccava, lo teneva dentro e ne soffriva da morire. Il suo compagno invece era una folgore, reagiva istintivamente e poi il “Caldo” ne pagava le spese. Mancavano pochi giorni e sarebbe ritornato dal militare. A seconda delle situazioni alcune volte lo temevano e altre volte ne avevano piene le scatole. Nell’apprendere quel brutto fatto dove non si capiva di che morte Tonino se ne era andato al Creatore sicuramente avrebbe fatto un casino.
Questi erano i pensieri che gli passavano per la capa mentre prendeva il sole, non si dava pace: “Eppure tutti abbiamo qualcosa dentro. C‘è chi riesce a farla uscire e c‘è chi no! Io certamente non ci riesco. Può essere stato anche la presenza di quella testa di…che ho a casa. Nicola invece no! Lui è diverso. Prima di tutto ha una cosa che io non ho. Ha la fede! È l’unico di tutti noi che va a messa. E cosa pensa quando la domenica è in chiesa? Prima o poi ne parlerò. Ma a tu per tu. E quante volte l’avrei potuto fare? Erano altri tempi. Quel Natale coi panettoni ce ne andavamo nei vicoli dietro al bar per non farci vedere da nessuno, oppure quando eravamo insieme nel banco di scuola. Erano altri tempi. Almeno il coraggio di parlargli lo devo avere. Prima o poi lo farò!”
Nel girarsi e voltarsi aveva formato un cumulo di sabbia proprio sotto lo stomaco, gli dava un fastidio bestiale e non aveva voglia di stare a scomodarsi. Vedeva con un occhio l’ultimo pezzo del telo colorato, la sabbia, un paio di ombrelloni, due che facevano il bagno e là in fondo le sottili ciminiere dell’Italsider a strisce bianche e rosse che toccavano le nuvole o forse era fumo.
Marco, disteso accanto a lui, aveva ben altro per la capa. Figlio unico, amato e vezzeggiato in quanto unico erede di aziende dove non sorgeva mai il sole. Nonostante ciò, gli pesava moltissimo il fatto di andare a sporcarsi le scarpe di terra. D’altronde in quei paesi era stato sempre così: l’uomo di fore rimaneva sempre di fore.
Si voltò verso il compagno per sapere come la pensava: “Giusè! Tu al mio posto cosa faresti?”
“Cosa farei?” e Giuseppe girò la faccia verso di lui sollevandola dalla sabbia.
“Sì! Cosa faresti?”...

Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine