La tragedia anatolica - Il martirio degli armeni

di

Francesco Tataranno


Francesco Tataranno - La tragedia anatolica - Il martirio degli armeni
Collana "Koiné" - I libri di Religione, Filosofia, Sociologia, Psicologia, Esoterismo
14x20,5 - pp. 104 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-7135

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In copertina progetto grafico di Alberto Trapani Coop. Soc. Les Jeunes Relieurs – Aosta

Prefazione

“La tragedia anatolica – Il martirio degli armeni” di Francesco Tataranno è un saggio storico che affronta, con spirirto critico e dovizia di riferimenti e vari rimandi, il dramma del popolo armeno e le vicende che ne hanno contrassegnato la storia.
Attraverso un’attenta disamina viene ripercorso il calvario della popolazione armena, la sua tragedia, le atrocità e le sofferenze subite, le espropriazioni e le deportazioni che si sono susseguite nel tempo, e poi, da parte della Turchia, la negazione dello sterminio che è stato perpetrato, l’indifferenza che ne è seguita da parte di numerosi stati europei e il successivo tentativo di rimozione della “tragedia armena” dalle pagine della storia.
Francesco Tataranno, seguendo scrupolosamente la propria linea di pensiero, si impegna, senza mezzi termini, a riportare in evidenza la necessità dell’accertamento della verità storica, a delineare le responsabilità, a elencare le varie fasi che hanno condotto ai massacri di persone inermi, a ripercorrere storicamente le numerose nefandezze commesse, le persecuzioni e gli orrori che hanno caratterizzato la storia del popolo armeno.
A partire dal periodo del biennio 1895/1896, quando le stragi anatoliche del sultano Abdul Hamid, un tiranno sanguinario, segnano l’inizio dello sterminio degli armeni, da sempre considerati un popolo “pericoloso”. Infatti, dopo la rivolta popolare di Sassoun del 1894, causata dalla consistente pressione fiscale, dalle continue sopraffazioni e abusi nonché dalle spoliazioni di terre, la risposta dei turchi non si fa attendere e soffoca nel sangue la rivolta con rappresaglie, massacri, incendi e devastazioni di interi villaggi armeni.
L’Europa pare assistere in silenzio ai massacri e, per ragioni politiche e interessi economici, segue una quasi totale inerzia nei confronti delle imprese sanguinarie di Hamid che si ritrova ad avere le mani libere per “sradicare le minoranze dal suolo turco con una politica radicale che include la pulizia etnica”.
Nel 1909, il sultano Hamid viene deposto dai “Giovani Turchi”, liberali e riformatori, che rappresentano una possibile speranza di attuare finalmente delle riforme e maggiori tutele per le minoranze ma tali speranze saranno amaramente deluse e continueranno le azioni contro il popolo armeno.
Poi, nel 1914, l’Impero Ottomano entra in guerra a fianco della Germania contro la Triplice Intesa, Francia, Inghilterra e Russia, e questo intervento offre la scusa per attuare le repressioni contro gli armeni che si protrarranno anche oltre il 1920. Anche in questo caso, il Congresso di Berlino, che avrebbe potuto dirimere la “questione d’Oriente” lasciò la questione irrisolta e provocò la “questione armena”. Nel 1915, dopo che i turchi cercano di sradicare il popolo armeno dalle loro terre, vi saranno alcune reazioni dei rivoluzionari armeni che avranno come effetto un’azione ancor più violenta da parte dei turchi: sarà promulgata la “legge temporanea di deportazione” che autorizzerà tali deportazioni “per motivi di sicurezza e necessità militari” a cui seguirà la “legge temporanea di espropriazione e confisca” dei beni e, infine, anche la Jihad, la lotta armata contro gli infedeli, per eliminare i cristiani dall’Anatolia.
Anche in questo caso, come ben evidenzia Francesco Tataranno, l’opinione pubblica in Occidente attuò prese di posizione “blande” a causa delle oggettive difficoltà di modificare lo stato di fatto in Anatolia, di fermare le tragiche conseguenze della guerra d’oriente e le atrocità commesse dai turchi ai danni degli armeni. A tale proposito, Francesco Tataranno, riporta le dichiarazioni del console del Regno d’Italia a Trebisonda: “terribile il tormento di dover assistere all’esecuzione in massa di creature innocenti e indifese. Un vero sterminio, un massacro degli innocenti, una pagina nera segnata dalla violazione dei diritti più sacri dell’Uomo”.
Nell’attenta analisi di Francesco Tataranno ne emerge che, di sicuro, fu forte la responsabilità della Germania nei gravi avvenimenti anatolici e vi fu connivenza, se non complicità palese, anche per non compromettere l’alleanza in guerra con i turchi. Non è un caso che la vergogna delle peggiori atrocità coincide con il periodo in cui la Germania esercitò la maggiore influenza in Turchia.
Poi, con la fine della prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero Ottomano, si sperava potessero avere fine le tragedie e le efferatezze contro il popolo armeno e vi fu la possibilità di creare uno stato armeno indipendente con il Trattato di Sèvres dopo la Conferenza di pace del 1920 ma Kemal Ataturk Mustafà, ignorando il trattato che implicava l’impegno da parte della Turchia di riconoscere l’indipendenza dell’Armenia, massacrò le popolazioni armene per eliminare ciò che restava di quella minoranza.
I processi del tribunale di Costantinopoli del 1919 confermarono i fatti criminali accaduti, ammessa l’avvenuta deportazione degli armeni, vennero raccolte numerose testimonianze e rapporti dei maggiori consolati ma con il Trattato di Losanna venne proclamata l’amnistia e finì la speranza armena.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo scrittore turco Kemal Yalcin denuncia il silenzio turco sulla tragedia armena e riporta i fatti accaduti ma il suo libro, che raccoglie testimonianze di sopravvissuti armeni in Turchia, viene distrutto e sarà pubblicato in Germania solo nel 2003. In Turchia è pressochè proibito parlare della questione armena, la storia armena è proibita nelle scuole armene, si attua persino una discriminazione contro i cittadini turchi di etnia armena.
Francesco Tataranno mette in piena luce tragiche pagine di storia, la questione armena e il genocidio “riconosciuto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite” nonché condanna il negazionismo che rifiuta l’esistenza e la veridicità dei fatti terribili contro gli armeni, critica aspramente la rimozione dalla coscienza di uno sterminio attuato tra l’indifferenza e poi passato nell’oblìo. Non mancano, infine, da parte dell’Autore, alcune considerazioni sulla odierna situazione politica in Turchia, sulla difficoltà di fare i conti con il fondamentalismo religioso, sull’ambiguità della politica dello Stato turco e sul dibattito attuale riguardo la questione armena che è sempre stata negata da parte della Turchia. Ecco allora che si auspica una presa d’atto dell’avvenuto genocidio armeno condotto per molto tempo a partire da Hamid, poi portato avanti dai Giovani Turchi e infine le gravi responsabilità di Kemal Ataturk fino alla verità che può fare luce su pagine oscure della storia che non devono essere dimenticate.
Francesco Tataranno, in questo interessante saggio, include anche numerosi e approfonditi riferimenti a tesi ed opinioni di storici e studiosi che riportano analisi, testimonianze e scritti sulla tragedia armena e sulla eliminazione delle minoranze cristiane dell’Anatolia: la sua linea di condotta è molto critica nei confronti degli stati occidentali che si sono disinteressati alla questione armena ed è una dura condanna morale contro la Turchia che si è resa responsabile d’una simile tragedia definita un “vero e proprio genocidio” da parte delle Nazioni Unite.

Massimiliano Del Duca


La tragedia anatolica - Il martirio degli armeni

Ai miei figli

Danilo
Elisabetta
Angelo


Premessa

La pagina di storia dimenticata del popolo armeno, che ha subito il calvario della deportazione di massa finalizzata allo sterminio, ha costituito l’elemento portante della mia ricerca sulle cause e le finalità sottese all’attuazione del mostruoso programma.
L’architrave dell’interesse personale prende l’avvio da due presupposti.
Il primo, riguarda l’inconfutabilità dei tragici avvenimenti che portarono all’olocausto, riscontrato nel tracciato scavato nella carne e nel cuore del popolo martire. La storia ne dà ampia testimonianza, malgrado reiterati e maldestri tentativi di obnubilare la memoria e le coscienze, creando e sostenendo una corrente di opinione favorevole alla tesi rovesciata, quella cioè che non solo nega i fatti ma fa ricadere le colpe sulle vittime riabilitando i veri carnefici. Un falso storico non solo, ma il riscontro della persistenza di una contorta disposizione mentale tendente alla rimozione delle colpe e a far sprofondare nell’oblio, e per sempre, i segni indelebili dello sterminio, imputabili, senza remore di sorta, a ben identificati personaggi e regimi.
Il secondo, tende ad ottenere la risposta alla domanda: Perché negare? E perché persistere nella negazione?
Questo secondo postulato attiene decisamente alla sfera politica ma anche a quella etica. Implica l’accertamento della verità storica e l’assunzione della responsabilità con la conseguente condanna e presa di distanza dai fatti. Il compito è complesso ma, a distanza di novant’anni, cerca di analizzare con serenità di giudizio ed obiettività gli eventi terribili che sconvolsero le coscienze e gli equilibri del mondo.
Avvenimenti distanti, a cavallo di due secoli, 1894-96/1915-18 ma precursori e forieri di attuazioni di spaventosi disegni politici e militari che hanno impietosamente replicato la tragicità di quei fatti in un’epoca più vicina a noi, quella che ha tracciato una linea rossa per distruggere, cancellando per sempre, un segmento dell’umanità: l’attuazione di un altro piano devastante conclusosi con la Shoah.
Quando si assiste, consapevoli o ignari, al naufragio delle coscienze, riecheggia come un’eco la celebre frase del teologo Henri De Lubiac: “… l’aver dimenticato Dio, ha portato ad abbandonare l’uomo”.

Francesco Tataranno


“Esiste un simbolo più commovente dell’agonia e del coraggio di questo popolo, del ricordo del bambino di una decina d’anni che si è nascosto sotto la sabbia sulla strada per DEYR – ES – ZOR? È muto: gli hanno tagliato la lingua.
bq. Quando passa un convoglio, emerge dalla sabbia e avverte i suoi che, laggiù, li massacreranno. Smette di gesticolare solo quando la carovana ha fatto marcia indietro._
bq. Allora si nasconde di nuovo sotto la sabbia e aspetta altre colonne di deportati.
bq. Quel bambino è l’Armenia. Da ottant’anni a questa parte, fa appello al mondo intero, e, da ottant’anni, il mondo si rifiuta di ascoltare”.

Yves Ternon


Cap. I

La Salvezza insperata

La cittadina di Mardin fu assalita dai tchètè.
Questi famigerati gruppi d’azione irregolari formati da avanzi di galera, avevano il compito di eseguire il lavoro sporco della guerra. Erano diretti ed organizzati dal medico Behaeddine Chakir Bey, eminenza dei Giovani Turchi.
Vartan aveva otto anni quando assistette allo strazio dell’uccisione della madre. Era accanto al suo corpo martoriato, nel momento in cui suo padre entrò nella stanza occupata dalla soldataglia. L’uomo, all’improvviso venne afferrato per i capelli, tirato su mentre un soldato lo sfigurava, colpendolo con un macete. Con un altro colpo, gli mozzava la testa e la gettava dalla finestra. Poi, volgendosi verso Vartan: “guarda” disse, “la mangeranno i cani”. A un tratto si udì un prolungato tramestio e degli spari. Apparvero sull’uscio due tchètè i quali, rivolgendosi al più alto in grado, con grande concitazione, lo informarono che non c’era più tempo per rastrellare le masserizie. Urgeva ricongiungersi al proprio contingente che aveva appena ultimato le operazioni nella zona, non tralasciando di appiccare il fuoco all’ultimo gruppo di case.
Ma un evento inatteso li aveva colti di sorpresa: prima che i vari raggruppamenti si ricomponessero, erano stati intercettati ed attaccati da alcuni cecchini che, annidati tra le rovine fumanti di alcune case diroccate, avevano già steso al suolo una dozzina di paramilitari.
L’emergenza inaspettata richiedeva il ricompattamento e l’immediata reazione della truppa. Non c’era tempo da perdere. La casa fu abbandonata mentre Vartan, in preda al terrore, si rifugiò sotto la panca posta lungo la parete del corridoio che dava accesso alla sala da pranzo, teatro della strage. Era tornata la calma, ma il silenzio impressionante che aleggiava nell’aria, l’impalpabile sensazione della fine, in simultanea, sebbene in contrasto col rassicurante fluire dell’acqua della fontana posta sul viale di accesso alla casa, creavano una preoccupante scansione dei minuti, in un’atmosfera ovattata dalla tragedia. Si udì una voce, prima flebile, poi più accentuata. Vartan ebbe un sussulto: non era più solo!
La sensazione di paura non si era ancora affievolita. Non poteva esporsi e quindi, rimase in silenzio, scosso da un incontenibile tremore, mentre si faceva più chiara la percezione di una voce familiare.
La figura di Mariam apparve sull’uscio e Vartan, accovacciato sotto la panca, incredulo, riconobbe la sorella. Un impulso irrefrenabile lo pervase. Come un naufrago sopraffatto dalle onde, che perde la speranza di rimanere aggrappato alla vita, cui giunge inattesa e provvidenziale la mano di chi lo tira fuori dal gorgo, Vartan si sfilò velocemente dall’angusto nascondiglio e, correndo, si rifugiò tra le braccia di Mariam.
La paura, lo strazio della vista che si parava loro di fronte, la percezione del grave pericolo che li sovrastava, anzicché abbatterli, rinfocolò e riaccese le loro speranze. Dovevano scappare; allontanarsi velocemente e poi nascondersi. Dovevano cercare una protezione e un posto sicuro ma, tutt’intorno, era squallore e morte.
I tchètè, la terribile soldataglia assetata di sangue e mai appagata malgrado le sevizie e le distruzioni provocate, potevano tornare. Mariam, che aveva appena compiuto sedici anni, era la più esposta. Se fosse caduta nelle mani delle orde fameliche che stavano infierendo sui “millet”, la sua sorte sarebbe stata segnata come quella di tutte le donne armene: violenze e stupro, deportazione e morte. Non c’era scelta. O, piuttosto, la scelta – se di scelta si può parlare in un teatro dove la violenza e la morte erano sempre in agguato – apriva uno scenario in cui, tra le più fortunate tra le deportate, si profilava un evento da suk, il folcloristico mercato arabo dove si fanno affari di tutti i tipi. I beduini del deserto e i tenutari dei bordelli, come predatori simili ad avvoltoi, andavano a scegliersi le donne tra le deportate, molte delle quali, per affrancarsi dai soprusi, dalla sete, dalla fame, dalle continue violenze e poi, dalla morte certa, si aggrappavano a questa alternativa estrema che per loro significava trovare un tetto, sottoporsi alla conversione forzata, significava sopravvivere.
Mariam si ricordò di Nubar, il compagno di scuola vicino di casa, un anno più grande di lei, ma non osava muoversi. I tchètè avevano rastrellato tutta la zona. Non immaginava cosa fosse accaduto a lui e alla sua famiglia. Nella confusione del momento, lottava contro un senso di smarrimento che avviluppava i suoi pensieri. Un’atroce sofferenza si era impadronita di lei: era rimasta sola al mondo! Il suo mondo, quello dei suoi cari, dei suoi amici, dei suoi parenti, della sua gente, del suo villaggio, era sprofondato nell’inferno e poi, si era dissolto nel nulla. Com’era potuto accadere?
Un brivido le percorse la schiena. Strinse forte a sé il piccolo Vartan ma rimase inchiodata in quell’angolo di stanza, dove lo strazio della morte violenta si fondeva con lo scempio della devastazione, dove le immagini si rincorrevano e si affastellavano in un’orgia di sensazioni tumultuose. Lacrime copiose le rigarono il viso mentre singhiozzi incontenibili le scuotevano il petto. Durante l’incursione delle bande armate, Nubar aveva trovato rifugio nella cantina situata nel seminterrato della sua abitazione. Aveva visto portar via il padre Kricor e la cara zia Azniv che lo aveva allevato dopo la morte prematura della madre. Ora, era calato il silenzio; si era tirato fuori dal suo nascondiglio con molta circospezione. La desolazione che lo circondava era impressionante. Alcune frotte di cani randagi, la calura del primo pomeriggio di fine giugno, molte case con le porte sventrate, le strade deserte con mucchi di rifiuti, suppellettili sparse ed abbandonate dalle carovane dei deportati. Nei giorni precedenti, aveva assistito, gli occhi sbarrati per lo stupore, al passaggio da Mardin di lunghe carovane di donne, vecchi e bambini. Provenivano da Diyarbakir ed erano in condizioni pietose. Alcuni si trascinavano, altri, per lo sfinimento, si lasciavano cadere ai bordi della strada. I tchètè erano brutali e non avevano alcuna pietà; col calcio del fucile percuotevano quelli che si apprestavano a dare soccorso, sospingendo i ritardatari perché la marcia della colonna non avesse soste. La direzione era quella per Aleppo e i superstiti, i sopravvissuti, avviati verso il deserto della Siria, dove non c’era più la speranza di vivere.
Nubar si destò come da un terribile sogno: gli erano rimasti impressi i volti emaciati dei vecchi, delle donne, dei bambini. Era molto scosso ma, gli apparve subito chiaro che nelle lunghe colonne di quei disperati, mancavano gli uomini: i giovani, gli adulti, i capi famiglia. Dov’erano? Lì per lì non seppe darsi una ragione; era alquanto strano. Cercò di scrutare in quella moltitudine fissando nella memoria, per quanto possibile, le immagini, i lineamenti, i volti. Rimuginò a lungo sulle cose e sulle persone che tanto lo avevano turbato. Doveva scoprire solo più tardi la terribile realtà che completava il quadro che sconvolse per sempre la sua giovane vita. Non c’era più speranza di vedere suo padre. Nella composizione dei convogli dei deportati, veniva subito fatta una selezione. Tutti gli uomini erano separati dal resto della famiglia, incolonnati ed avviati in altre direzioni. Con l’accortezza di essere ben distanti dai centri abitati, venivano poi massacrati con colpi alla nuca o passati a fil di spada. Si fece coraggio e, dopo aver scrutato in lontananza, si mosse per correre dai vicini di casa. La zona era deserta ma avanzò strisciando lungo il muro del caseggiato e, correndo, imboccò il viale di accesso dell’abitazione di Mariam. Si precipitò nella sala da pranzo e quasi non credette ai suoi occhi: il pavimento era coperto di sangue, il tendaggio della grande finestra che dava sul giardino, pendeva a brandelli; una serie indefinita di oggetti era riversa sulla maiolica della stanza; in un angolo, Vartan era avvinto alla vita di Mariam ed entrambi, con lo sguardo allucinato, inchiodati per il terrore, non distoglievano la vista dalla macabra visione dei corpi martoriati dei propri genitori.
Dopo alcuni momenti di esitazione, riavutosi dallo stordimento causato da quel terrificante spettacolo, Nubar corse ad abbracciare i due fratelli, prese per mano Vartan e fece cenno a Mariam di seguirlo nell’ingresso. “Dobbiamo correre subito via”, disse, “aspetteremo in cantina e, al calar della sera, fuggiremo”. Sull’imbrunire, abbandonarono la casa, dopo aver messo alcune provviste in una sacca e si diressero a sud-est, nella direzione opposta all’itinerario delle colonne dei deportati. La ferrovia in costruzione ad ovest del Tigri che portava a Mosul, poteva indicare la direzione di marcia. L’avrebbero usata come punto di riferimento, facendo attenzione a non esporsi soprattutto di giorno, fiancheggiandola nelle ore in cui le luci della calda estate cedevano alla notte.
Nubar, aveva sentito parlare spesso di una comunità curda, i cosiddetti “Yazidi o Yezidi” che professava una religione chiamata Yazidismo. Religione antichissima, presente in Oriente da circa quattromila anni. Sempre perseguitata però nella Storia, questa comunità, trovò rifugio nel Caucaso, in Armenia, in Georgia, in Russia e tra le montagne del Kurdistan. Un proverbio arabo dice che “tre calamità vi sono al mondo: le locuste, i topi e i curdi”. Se i musulmani wahhabiti danno la caccia agli yazidi in quanto ritenuti apostati, i musulmani tradizionalisti sunniti li definiscono con disprezzo ed odio “adoratori del diavolo”. Ciò si spiega perché gli Yezidi, nella loro religione sincretica con radici precristiane e preislamiche, ritengono che il male fa parte di Dio accanto al bene ma, pur essendo una comunità tra le più pacifiche, e pur essendosi sempre astenuti dal prendere posizione nella questione che vede opposti il diavolo al buon Dio, cosa che per i detrattori musulmani, sembra essere un atteggiamento che riabilita il ruolo di Satana, non vengono tollerati, ma al contrario, sono continuamente minacciati ed attaccati dai musulmani.
Per l’Islam ortodosso, essi sono considerati infedeli a tutti gli effetti e quindi vanno combattuti.
L’Impero Ottomano infatti, li ha sempre perseguitati non solo perché ritenuti infedeli ma anche perché non vollero mai convertirsi all’Islam. La loro religione fu definita da alcuni studiosi: “Il museo dei culti orientali”, in quanto inglobava elementi di giudaismo, di cristianesimo e di misticismo islamico.
Tuttavia, questo popolo lacerato dalle persecuzioni, è sempre stato fiero delle sue tradizioni ed irremovibile nella difesa della propria identità. Stoica la resistenza ai dominatori arabi piombati su Mosul, antica città yazidi bagnata dal fiume Tigri, a valle delle montagne del Kurdistan ed all’inizio del deserto arabico del Rub’Al-Khali. Punto di passaggio obbligato per tutte le carovane che dall’Asia centrale si dirigono verso la Siria e verso l’Anatolia. Lo stesso Gengis Khan che aveva preso Bagdad in una sola settimana, a Mosul difesa dagli Yezidi, dovette mantenere l’assedio per circa un anno. Questo popolo fiero, dicevamo, ma mite perché amante della pace, fu riconoscente verso la Francia e l’Inghilterra per la protezione loro accordata durante le persecuzioni subite nel 1892 da parte dell’Impero Ottomano e rappresentò una delle pochissime ancore di salvezza per molti cristiani sfuggiti alla deportazione ed alla morte certa.
Fu proprio grazie a loro che Vartan, Mariam e Nubar, dopo inenarrabili vicissitudini, furono avvistati dagli uomini di Hamo Agha, il grande patriarca, nobile figura di capo leggendario degli Yezidi di Djebel Sindjar. Vartan era trasportato a spalle da Nubar; era febbricitante. I tre ragazzi erano pelle ed ossa.
Fu così che Hamo Agha, volle prendersi cura personalmente di quei diseredati. Nel dramma della deportazione, lontano dal crocevia dei flussi di disperati diretti ad Aleppo e verso il deserto di Deyr-Es-Zor, atti inimmaginabili di generosità ed umanità, venivano profusi, come una missione salvifica, da questa comunità anomala di curdi perseguitati.
Yezidi, termine da alcuni attribuito al califfo Yazid; etimologicamente, secondo una tesi più accreditata, significa “Un Dio” o “Una divinità”.


Cap. II

Il dramma di un popolo

Nel lungo rapporto presentato dal console francese Meyrier, veniva evidenziata nei dettagli la tragedia di Diyarbakir. Era dimostrato il coinvolgimento del governatore del luogo che, subdolamente aveva fatto ricadere le colpe sugli armeni i quali, a suo dire, avrebbero invaso le moschee.
“Era tutto falso”, scrisse il console. Il sultano Abdul Hamid, sanguinario tiranno, il despota senza rimorsi e senza pietà, che dall’alto del suo scranno gestiva con ferocia la politica della carneficina, mandando a morte tra inenarrabili tormenti, decine di migliaia di armeni, sudditi del suo impero, si scherniva di fronte alle rimostranze delle Cancellerie europee, sostenendo che la sua politica era basata sull’equità. Secondo il rapporto di Meyrier, ben 119 villaggi erano stati saccheggiati ed incendiati, mentre il governatore della provincia, aveva fatto disarmare i cristiani lasciando le armi ai musulmani. Molti notabili armeni erano stati arrestati e torturati per ottenere false confessioni. Il console Meyrier fu fatto oggetto di minacce e spedì un disperato telegramma all’ambasciatore Paul Cambon.
“I massacri si susseguono secondo l’arrivo degli emissari che recapitano gli ordini del Palazzo: Trebisonda il 2 ottobre; Kighi il 14; Erzindjan il 21; Bitlis il 25; Bayburt il 27; Malatya il 29; Mersin il 31; Diyarbakir e Arabkir il 1° novembre; Van, il 10 novembre; Mush e Tokat il 15; Seert il 19; Urfa in dicembre.
La Porta, in un primo tempo, telegrafava questi ordini, ma l’ambasciata inglese, era riuscita ad acquistare l’originale di uno dei primi dispacci; quindi si preferì inviare degli emissari.
Le vittime sono designate selettivamente in quanto c’è l’ordine di non toccare gli europei ma solo gli armeni. Le stragi cominciano a ore fisse: alle 11 o mezzogiorno, al suono della tromba. Si attacca prima il bazar, quindi i quartieri residenziali, con l’ordine di uccidere prima e saccheggiare poi1”.
Alla fine del biennio che aveva insanguinato l’Anatolia con metodi feroci – 1894/1896 – nelle principali librerie di Ginevra, apparve un opuscolo, curiosamente firmato da “Il Veglio della montagna”. Costui, aveva immaginato di tramutare gli uomini in assassini, con le promesse del Paradiso. Di fatto, tra il XII e il XIII secolo, è esistita la setta degli assassini: operava in Oriente contro i Crociati. Il loro nome è stato occidentalizzato e deriva da Hashish (dediti all’hashish). Ne aveva parlato Marco Polo ne “Il Milione” nel 1298. Ma questa pubblicazione di Ginevra, si dimostrò partigiana e settaria, puntando a misconoscere e a stravolgere gli avvenimenti ormai noti in tutta Europa.
Si proponeva infatti, di avvalorare l’idea peregrina che i tragici fatti accaduti contro la inerme popolazione armena, fossero stati causati da anarchici e atei, gente “senza Dio né padrone” e che comunque, per quel terribile evento, qualche giustificazione fosse pure plausibile.
È interessante notare gli appuntamenti della Storia, pur nella loro tragicità. A cavallo del biennio 1894-1896, il periodo delle stragi hamidiane, emerge una fosca quanto inspiegabile simultaneità: i fatti anatolici che contrassegnarono l’inizio dello sterminio degli armeni, divennero speculari e tragicamente coincidenti con i progrom avvenuti in Russia, la strage degli ebrei compiuta nel 1895 sotto gli zar Alessandro II e, successivamente, Nicola II. Ma, tornando a “Il Veglio della Montagna”, bisogna sottolineare che l’autore, volle completare le sue considerazioni, amplificando in senso negativo il proprio convincimento che gli armeni erano pur sempre elementi pericolosi che complottavano contro l’Impero Ottomano.
Era giusto, pertanto, usare i metodi forti contro di loro. Il console Meyrier, nel suo rapporto, aveva confermato l’uso violento e inumano di questi metodi, riferendo che i fautori dei massacri erano “musulmani” e “curdi”; che erano stati ridotti in cenere 119 villaggi con decine di migliaia di morti. Il grande massacro, il “Bir Mukatelei Azime”, anziché placare gli animi, aveva rinfocolato l’odio e alimentato le spinte verso la consumazione di atti indescrivibili. Ma per meglio articolare e gestire quello che poi sarà riconosciuto come sterminio, fu adottata una politica di ghettizzazione; fu usato il sistema di contrassegnare le porte delle abitazioni armene, col gesso.
Era il segno di infamia cui sarebbe seguito il castigo. Quegli usci sarebbero stati sfondati e, in una sorta di delirio collettivo, prelevati tutti i componenti delle famiglie; quindi incolonnati in interminabili fiumane dirette verso la morte. Ad altri invece, toccava la sorte di essere sterminati nelle proprie abitazioni. “Non si poteva sbagliare – questo è un “gavour”, un infedele”. “Il Signore ha dato il permesso di ucciderlo”. “Lasciateci andare a Stambul, il Signore ha dato il permesso di uccidere gli armeni” gridava il popolo invasato da una demoniaca perdita di coscienza. “Arrivavano in gruppi armati di spranghe, coltelli, asce, poi entravano nelle case e, con efferatezza afferravano la gente con le braccia, le gambe, i capelli e battevano, squarciavano, mozzavano. Il sangue schizzava, colava a fiotti; poi prendevano tutto, denaro, mobili, gioielli, vestiti usati: “Il Signore ha dato il permesso”. Poi rientrava l’ordine. I militari, descrivevano alle loro famiglie il dovere compiuto. “Fratello, abbiamo ucciso gli armeni, ormai sono cibo per cani… I soldati, che poi si erano appropriati di tutto ciò che avevano trovato, con le mani piene di sangue, erano soddisfatti2”.
L’Europa era allarmata. “Quando leggiamo le scene di selvaggia follia, raccontate da uomini degni di fiducia, ci chiediamo in che tempi viviamo…”, aveva fatto pubblicare sulla stampa parigina il battagliero Clemenceau.
Dopo circa vent’anni dalla consumazione di questa tragedia, scandita dalla storia nell’arco temporale di due periodi: 1894-1896 il biennio caratterizzato dalle feroci repressioni del sultano Abdul Hamid e il 1915-1918, quello altrettanto sanguinario ma più radicale, portato ad esecuzione dal governo dei Giovani Turchi, ne fu preannunciata la fosca ripetizione a danno di altri popoli, nel 1932.
Il latore di questo lugubre messaggio fu Hitler quando confidò a Hermann Rauchning: “Il dovere di spopolare si impone, allo stesso modo di coltivare metodicamente l’accrescimento della popolazione tedesca. Bisognerà istituire una tecnica di spopolamento. Mi chiederà cosa significa “spopolare” e se ho intenzione di sopprimere intere nazioni? Ebbene sì, le cose stanno più o meno così…[3]”
Vi sono testimonianze dirette che appartengono a un vissuto sperimentato sulla scena degli orrori, quindi molto sofferte, dove l’incredulità e l’umanità, entrano nel vivo del dramma e toccano per mano un contesto quasi irreale, perché estremamente brutale, dirompente, inaccettabile.
Laici e religiosi, atei e credenti, hanno provato un senso di smarrimento di fronte alla radicalità di comportamenti distruttivi che brutalizzano le azioni dell’uomo contro il suo simile.
L’atto bestiale, in quanto non sorretto dalla ragione, caratterizzato da sollecitazioni strumentali di estremismo religioso ed etnico, ma anche da ragioni politiche, ubriaca le masse facendole precipitare nel caos e nell’anarchia. In questo quadro di riferimento, si sono calati alcuni testimoni della tragedia armena. Sono i padri domenicani Jacques Rhétoré, padre H. Simon e padre M. D. Berré, ospiti, nel periodo 1915-1918 dell’arcivescovado siro-cattolico di Mardin, provincia di Diyarbakir, da dove assistettero alle deportazioni di quel popolo e ad episodi di estrema malvagità. A Mardin, c’era la più antica diocesi della Chiesa armeno-cattolica, ma vi erano anche molte comunità cristiane, tanto da poter essere considerata la cittadina col più elevato numero di cattolici (caldei e armeni), ben integrati nell’Impero Ottomano, tanto che l’Ermeni Millet, la nazione e la comunità armena, furono riconosciute dagli Ottomani fin dal 1461.
La convivenza cosmopolita e multireligiosa ben rappresentata in una grande città come Istanbul ma consolidata in tutta l’Anatolia, presentava però un anello debolissimo nella catena dei rapporti tra maggioranza musulmana e minoranze cristiane ed ebraiche. Queste ultime, pur essendo integrate nell’Impero, di fatto vivevano in condizioni difficili, logorati da una pesante pressione fiscale e discriminati perché non musulmani.
Costituivano le famose minoranze qualificate come Dhimmi, un popolo di serie B con una forte limitazione dei diritti. Integrati certamente, ma in un contesto che poggiava la convivenza sulla base dell’ineguaglianza. Tutto ciò, malgrado si trattasse di popolazioni laboriose, efficienti sul piano propositivo e della iniziativa individuale, piene di risorse anche economiche, una vera linfa per il Paese e per questo, tenuti in considerazione dagli antichi Ottomani.
La laboriosità e l’intraprendenza di queste minoranze che, malgrado le vessazioni cui erano sottoposte, avevano raggiunto un certo stadio di benessere, affermandosi nelle libere professioni, nelle attività manifatturiere, nel commercio, rimanendo leali sudditi dell’Impero, rappresentarono, tuttavia, lo stimolo perverso alle spoliazioni e alla barbarie, nel momento in cui la storia degli uomini, decise di scrivere pagine di sangue sul loro martirio.
È noto che fu lo stesso sultano Mahmud II a considerare gli armeni come “nazione leale”, un popolo che si sentiva integrato, sia pure con le restrizioni imposte, al punto da partecipare attivamente alla vita politica del Paese, con propri rappresentanti deputati alla Camera e che, con l’avvento dei Giovani Turchi nel 1908, partecipò alla riforma dello Stato.
Nel 1894, si ebbe la sollevazione popolare di Sassoun, soffocata nel sangue dai turchi e dai curdi. In questa vicenda, gli armeni erano insorti per le continue vessazioni e per la insostenibile pressione fiscale. Questo tragico evento, evidenziava la punta dell’iceberg di una condizione oppressiva perpetrata a danno di una popolazione pacifica, tributaria di balzelli asfissianti, popolazione desiderosa di stabilire un rapporto vivibile, frustrato però, dall’atteggiamento brutale di chi impone la sottomissione, senza condizioni e senza alternative.
L’anno successivo, una cospicua rappresentanza di armeni diretta alla Sublime Porta, originaria denominazione del governo ottomano, per presentare una petizione sul massacro di Sassoun nonché per segnalare le pessime condizioni di vita delle loro popolazioni all’interno delle province, fu intercettata dalla gendarmeria che impedì la prosecuzione della manifestazione. Ne scaturirono inevitabilmente contestazioni e tafferugli che degenerarono in una violenta repressione. Questo ulteriore bagno di sangue, acuì la tensione, Abdul Hamid, il sanguinario tiranno rosso, come veniva definito, dette l’avvio alle rappresaglie ed ai massacri che culminarono nell’infausto biennio 1895-1896, con l’incendio e la devastazione di interi villaggi armeni.
Si veniva consolidando, pertanto, una spaccatura frontale nella convivenza tra maggioranza musulmana e minoranza armena e, in conseguenza, con la presa del potere dei Giovani Turchi nel 1908, pur essendo migliorati in qualche modo i rapporti, il governo non poteva ignorare le pur presenti sollecitazioni di carattere nazionalistico ed autonomistico di vasti settori della popolazione armena.
Queste pressioni, potevano essere foriere di ulteriore disgregazione di ciò che rimaneva del grande impero Ottomano, dopo la perdita di consistenti territori a seguito della sconfitta subita nella prima guerra balcanica. Nel 1912 infatti, la Turchia subì una disfatta di notevoli proporzioni, avendo perso l’85% dei suoi domini territoriali. Furono i grandi moti nazionalisti ad agire da propellente per assicurare l’indipendenza ai popoli greci e slavi sottomessi. La massa della popolazione armena, laboriosa e pacifica, si riteneva integrata nella società Ottomana, ne rispettava le leggi e conviveva civilmente e senza rilevanti contrasti con la maggioranza della popolazione musulmana. Tuttavia, la raggiunta indipendenza da parte delle popolazioni greche e slave, sottrattesi al dominio turco-ottomano, aveva contribuito a diffondere segnali di speranza in alcune frange, – le più dinamiche e politicamente attive – della comunità armena, che intravedevano in questi grandi cambiamenti, un’occasione irripetibile, quella di veder realizzata l’aspirazione al riconoscimento dell’auspicata autonomia, pur rimanendo integrati nell’Impero.
Peraltro, l’attenzione e spesso la protezione accordata da alcuni Paesi europei come la Francia e l’Inghilterra, ma anche della Russia zarista alla cristiana Anatolia, corroborava la speranza, rivelatasi illusoria, di questo popolo.


note:

1 Yves Ternon: “Gli Armeni”, pagg. 120-123.

2 Philippe Videlier: “Notte Turca”, pagg. 10-11.

3 H.: Rauchning, “Hitler m’a dit”, Paris 1939, pag. 159.

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