Racconti di vita e d’amore

di

Franco Tagliati


Franco Tagliati - Racconti di vita e d’amore
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 124 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-7227

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In copertina: «Il sogno del poeta» (tecnica mista 50×70) di Franco Tagliati


Prefazione

Il libro di Franco Tagliati comprende dodici brevi racconti ed un cospicuo numero di poesie che accompagnano e si miscelano alle narrazioni seguendo un filo sotterraneo, capace di valorizzare le tematiche affrontate sempre pervase di profonda umanità e sensibilità e proteso ad illuminare la visione lirica che ne scaturisce.
Il volume “Racconti di vita e d’amore” propone una meravigliosa galleria di personaggi che si ergono a simboli del cammino esistenziale dell’essere umano e offre un multiforme ventaglio di ambientazioni e rappresentazioni: il tono della raccolta passa dalla narrazione che innalza il sentimento dell’amore, all’amara constatazione che nasce nell’ultima stagione della vita; dal senso drammatico di sofferte esperienze alla vicenda divertente; dal racconto struggente al dolce recupero memoriale.
Nel susseguirsi delle vicende narrate ecco allora venire in superficie, grazie alla fluidità di scrittura e all’intensa forza espressiva di Franco Tagliati, la storia di un’anziana cugina di sua madre che, dopo aver chiuso il famoso “Caffè”, sulle rive del fiume Po, finisce in una casa per anziani e, sullo stesso tenore, la triste vicenda di un’amica della nonna dell’Autore anche lei finita in ospizio, dopo una vita di sacrifici, figura di una donna che diventa simbolo del sofferto cammino umano.
Alcuni racconti sono legati tra loro da occasionali incontri avvenuti durante viaggi in treno, come quando l’Autore si deve recare a Roma per ritirare il premio d’un concorso di poesia e conosce un anziano compagno di viaggio che ricorda, quasi in una sorta di confessione, il suo innamoramento con un bel giovane durante un’afosa estate, tra le dune del Po: attrazione che gli aveva regalato un senso di libertà, illuminando la sua “vera essenza” e, dopo la separazione dalla moglie, gli aveva cambiato la vita.
La considerazione dell’Autore che l’amore non può essere imprigionato entro limiti prestabiliti è specchio fedele della storia dolce amara riportata, che diventa “segreta avventura esistenziale di un distinto passeggero” incontrato sul treno.
Seguendo lo stesso filo conduttore prende vita un secondo racconto che vede ancora un casuale incontro durante un viaggio in treno, questa volta tra una donna ed un uomo che legge un libro, dal titolo “I sentieri della vita”: il ricordo rende perfettamente gli stati d’animo dei protagonisti e domina la consapevolezza che le vicende umane sono imprevedibili e misteriose.
Alcuni racconti seguenti rappresentano un sommesso recupero memoriale ed è sicuramente da segnalare la coinvolgente narrazione de “Il Ranaro”, che riporta la triste e struggente storia del bravo Pasquino e di sua moglie che accettano di allevare un bambino abbandonato davanti ad un convento ed il dolore immenso quando la madre, dopo alcuni anni, vorrà riprendersi il figlio.
Sulla stessa onda emozionale segue, poi, la commovente storia del bambino Remigio, anche lui abbandonato davanti al santuario di Guastalla, che cercherà, per tutta la vita, di conoscere l’identità di sua madre, ma sarà una vana illusione: ecco allora dominare l’amaro senso della vita con i suoi labirinti inestricabili.
Nel processo in divenire troviamo altri racconti che fanno riferimento alle antiche tradizioni della terra natia come la rivisitazione storica della festa della “Gnoccata”, che si svolge a Guastalla, che riporta alla mente dolci ricordi dell’infanzia dell’Autore, legati alla sua partecipazione alla famosa sagra insieme al padre e, subito dopo, il famoso “vinsanto speciale” prodotto da suo padre, grazie all’antica cultura di tradizioni e segreti “mai rivelati a nessuno”.
Merita di essere segnalato anche il racconto struggente che vede protagonista il suo vecchio professore di lettere che era stato un’autentica “guida morale” e gli aveva insegnato i valori fondamentali sui quali basare la sua vita.
Pervaso di profonda umanità, ed ancor più straziante e commovente, l’incontro, avvenuto sulla spiaggia durante l’estate, con un giovane venditore ambulante, che racconta la sua terribile vicenda: dal pericoloso viaggio affrontato, al suo sofferto peregrinare, fino alle speranze tradite: la disperata confessione che si fa dramma umano odierno.
In ultimo, un rapido cenno al divertente racconto relativo ad una bella ragazza, alta e dalle forme procaci, che denuncia il sarto del paese, un ometto molto più basso di lei, con l’accusa di aver tentato di violentarla. La vicenda prende la forma di una sorta di commedia all’italiana dai risvolti comici ed ironici, anche in questo caso, in modo impeccabile, resi pulsanti dalla mano di Franco Tagliati, che dimostra di muoversi a suo agio anche nella narrazione che si fa spassoso bozzetto di vita quotidiana.
Durante il dipanarsi delle narrazioni Franco Tagliati offre anche numerose poesie che seguono ed accompagnano i racconti: la poesia che apre il libro, non a caso, è dedicata alla natia cittadina di Guastalla, “adagiata sulle rive” del fiume Po con le sue acque che “raccolgono sogni” e la sua sabbia che “scintilla”.
È proprio grazie a quest’atmosfera che il poeta “ritorna a scrivere l’amore/con la semplicità di un bambino”, e tale percezione del proprio vivere lo fa “sentire a casa”, rinvigorisce il suo animo e diventa autentico abbraccio universale.
Le profonde emozioni e le suggestive immagini che nascono dal ricordo del fiume Po sono molteplici: il pulsare della natura avvolge l’animo; il palpitare dei tramonti accende sensazioni; le notti stellate avvicinano al mistero e il “groviglio delle acque” con il “sussurrare delle fronde” diventano canto evocativo. Tutto si fonde nel sapore evanescente di questo recupero memoriale: un fiume simbolico di immagini, tra la terra del Po ed il cielo nudo, che vive d’incanti e poesia mentre “lacrime segrete” scivolano via.
Le memorie sono “scolpite” nell’anima ed i ricordi sono spiragli luminosi che fanno risplendere la visione di Franco Tagliati ed aiutano a non dimenticare ciò che è essenziale nella vita: i ricordi ritrovati fanno parte della valigia della memoria.
E, nell’ultimo tempo lirico, ecco che il poeta osserva la realtà e si sente “in un mondo smarrito”, davanti ai suoi occhi la campagna desolata, case e “corti abbandonate”, “campi incolti” nel muto canto di un mondo contadino che sta scomparendo nel silenzio della campagna.
Il poeta si abbandona all’amara tristezza, al vuoto della memoria, alle illusioni dei sensi, alle tristezze velate e a “pensieri strappati al silenzio interiore”.
Le memorie si susseguono come “grani di un rosario”: tra mura screpolate e silenzio avvolto dalla polvere, tra la terra amata che è stata “trasformata” ed un passato che è ormai sepolto come le antiche radici che son state cancellate.
La poesia diventa atto salvifico, forza immensa che protegge le parole del poeta come fossero il “seme più prezioso” e capace di offrire la possibilità di una rinascita.
Franco Tagliati avverte la sua condizione di “misero figlio della realtà” odierna ma, con coraggio e passione, invoca la Luce della poesia: “donami ali possenti/per librarmi senza paura/sulle inquietudini”, per allontanare il dolore e “disperdermi nell’immenso”.
Come a cercare conforto in questi versi “sussurrati”, tra silenzi e sofferenze, senso di vuoto e velata malinconia, il giacimento memoriale e l’universo emozionale assumono la forma della “dolorosa via” alla ricerca di una rinnovata consapevolezza e dell’autentica substantia del proprio Essere.

Massimo Barile


Racconti di vita e d’amore


GUASTALLA

Vi son storie stipate
nelle file di pioppi dai tronchi nodosi
nella foschia cenerina.
Dai balconi delle case
i colori dei gerani
sussurrano alla brezza.
Le acque del fiume
raccolgono i sogni
trattenendoli tra le canne.
Il vento gioca tra la gente
a passeggio sull’argine
o seduta al sole.
Guastalla adagiata sulla riva
s’erge come merce pregiata
in una vetrina
sfoggia i suoi portici
come braccia aperte
della madre che abbraccia i suoi figli.
C’è nell’aria la musica semplice
di gente genuina
che riempie le piazze e le strade
e quando il cielo s’infiamma
la sabbia del Po scintilla
e la sera ombre sottili
accarezzano i campi
ove i salici dondolano.
Sui muri graffiati dal tempo
ritorno a scrivere l’amore
con la semplicità di un bambino
quando parla della mamma.
L’amo per il colore rosso dei tetti
per la poesia che sale dai camini
per le silenziose rive scoscese degli argini
perché non manca di farmi sentire a casa
ed ogni volta
m’abbraccia e mi rinvigorisce
come la primavera
stringe i campi verdi
come il fiume che tutto trascina via
lento ed immutabile.


CAFFÈ SUL PO

Una volta al giorno mi recavo a far visita ad una anziana cugina di mia madre che si trovava ricoverata in una casa di riposo. La poveretta affetta da sclerosi multipla era costretta a rimanere seduta su di una carrozzella e da qualche tempo non riusciva a nutrirsi da sola. Era un servizio che desideravo fare con piacere, ma ciò che mi disturbava molto era, senza dubbio, il continuo mormorio e l’indiscreta invadenza dei degenti vicini che non facevano altro che indirizzarmi le loro solite ed assurde domande. Ricordo che un giorno, mentre attendevo che servissero i pasti, presi la decisione di appartarmi in un angolo con la mia assistita con il desiderio di allontanare, almeno un poco da me le curiose occhiate e i loro commenti colmi di sarcasmo. Ero intento a servire i primi cucchiai di minestra quando una anziana signora avanzò spavaldamente verso di noi e senza pudore o il minimo di discrezione mi chiese se fossi io quello che cercava storie per le mie commedie.
Garbatamente le risposi di sì, frenando a fatica l’impulso che mi avrebbe certamente reso villano. Senza curarsi della mia assistita, con aria sicura ed alquanto indifferente, affermò di avere una storia eccellente e che avrebbe voluto raccontarmela. Rimanemmo d’accordo che ci saremmo visti l’indomani presso il salone delle feste di quell’istituto. Non nego che per quanto disturbato da tutto quell’ardire, non mi sentissi incuriosito e ciò mi spinse ad essere puntuale a quell’appuntamento e consultai la direttrice per conoscere cosa poter recare come omaggio in quella curiosa ed imprevista intervista. “Non le regali fiori, poiché di solito finiscono nel cestino”. Mi avvisò la direttrice. “Piuttosto le offra qualche pasta, e vedrà che farà un figurone”. Come raccomandato, puntualmente mi presentati con un vassoio di pasticcini, e con mio grande stupore trovai l’intraprendente signora già pronta ad attendermi in sala. Indossava un consunto tailleur nero ed un delizioso foulard color ciclamino le scendeva morbidamente sulle spalle lasciando intravedere una collana di perle che le donava un tocco d’antica e rinomata eleganza e sobrietà. Dalla borsetta nera che portava al braccio pendeva un codino di visone e notai che forse per l’occasione, le unghie delle mani erano ben curate e dipinte con uno smalto rosa dal colore delicatamente tenue ed anche le labbra che si aprirono in un sorriso nel vedermi arrivare erano dello stesso colore. Una vera e propria trasformazione che mi rese davvero titubante di fronte a quella figura che alla sciattezza della vestaglia e pigiama era sbocciata in quella raffinata eleganza. Notando lo stupore che si manifestò sul mio viso, la signora balzò in piedi e sorridendomi: “Le piaccio?” Chiese girandosi su se stessa per farsi ammirare meglio. Fui preso dall’irresistibile voglia d’essere il gentiluomo di tempi andati, le presi la mano che mi porgeva e la baciai. Si chiamava Luigina, ma volle che la chiamassi Gina. Ed elegantemente non ebbe esitazione a dichiarare i suoi ottantadue anni, portati, direi, splendidamente, ma nonostante l’allegria e la gaiezza che sapeva emanare, c’era un velo di tristezza che velava quello sguardo. Le porsi il pacchetto dei pasticcini e subito quel velo sembrò sollevarsi: “È per me?” chiese mentre tendeva le braccia, “Posso aprirlo?” disse con voce che tradiva l’impazienza, ed io annuii. Di fronte a quelle bontà i suoi occhi mi apparvero come quelli di un bambino davanti allo zucchero filato. Quando l’ultimo pasticcino svanì, con un gesto elegante estrasse uno specchietto dorato e si sistemò i candidi capelli, io approntai il registratore sul tavolo. “Sono pronta” sospirò deponendo l’astuccio all’interno della borsetta che si chiuse con un clic.
“Sono sola al mondo…” iniziò fissando il nastro che aveva iniziato a scorrere, “…sono ormai venti anni che risiedo in questo istituto” per un attimo fissò malinconicamente il lembo di cielo che si intravedeva dal finestrone della sala. “Dopo aver chiuso e venduto il mio caffè sul Po non mi è rimasto che questo ricovero. Qui mi trattano bene e poi non sono sola né di giorno né di notte”.
La sua espressione improvvisamente mutò, una mano coprì la bocca, mentre il suo sguardo si fece circospetto, “Tutti quelli che mi hanno amato hanno tentato di tenermi lontana con ogni mezzo, con il timore che avrei potuto svelare alle loro mogli o fidanzate che ero stata la loro amante.
Questa è la ragione per cui sono qui”. Ci fu un breve attimo di silenzio, ma davanti a quella imprevedibile confessione mi sentii a disagio e mi sorse il dubbio di trovarmi davanti ad uno di quei casi di pazzia senile che pullulano dentro ad istituti come quello.
Il racconto riprese, questa volta la voce era chiara e decisa: “Persi i genitori che ero poco più che ventenne. Ero figlia unica e all’improvviso, mi sono ritrovata dietro un bancone d’osteria da sola, senza neanche sapere come si versasse una birra o si preparasse una pietanza. È stato grazie al mio carattere caparbio che sono riuscita ad andare avanti non senza superare innumerevoli difficoltà. Il dispiacere più grande mi venne proprio dalla persona che amavo di più: il mio fidanzato, mi disse che non poteva sopportare il lavoro che svolgevo in osteria e mi lasciò su due piedi, ma capii più tardi che tutto ciò era solo una scusa. Nonostante la ferita non mi arresi. Giunsi ad ottenere il rispetto e la benevolenza dei miei clienti sia vecchi che nuovi e grazie al cielo, il lavoro non mancava e non mi concesse di trastullarmi in piagnistei inutili. Mi rimboccai, semplicemente le maniche e andai avanti. La maggior parte della clientela era maschile, ed io avevo dovuto imparare in fretta i segreti di una buona cucina, tanto che gli uomini andavano matti per le mie frittate, la mia polenta unta era eccezionale e che cosa dire delle mie rane fritte con le frittelle di riso, le tagliatelle e sopratutto del mio stupendo caffè?
Oh certo le soddisfazioni erano tante, ma anche la fatica, la stanchezza e la solitudine e i momenti di nera disperazione. Non si fecero attendere neanche i momenti di disagio che mi strinsero in una morsa incontrollabile e che assalgono una donna che sa d’essere sola in mezzo a tanti uomini. Molti si offrirono di aiutarmi, ci furono pescatori, cacciatori, canoisti e ciclisti, boscaioli e contadini, giovani e meno giovani. C’era chi mi procurava legna da ardere, chi mi donava le uova, latte o farina, ed io non rifiutai il loro aiuto ma in cambio cucinavo sfrenatamente per preparare pranzi e cene ed in quel modo riuscivo almeno in parte ad essere felice perché in un modo o nell’altro, non mi sentivo più sola, umiliata o triste, perché avevo anche io qualcuno di cui occuparmi.
Per molti anni, nel buio della notte una figura senza volto irrompeva nel mio santuario, con forza e veemenza, rubava furtivamente il mio amore con bramosia e poi svaniva come svaniscono i sogni che cambiano ma non si fermano. Nessuno rimase con me, solo per me. Poi il tempo si rivelò sempre più inesorabile, quando tutti i miei fiori furono colti il mio canestro rimase vuoto, e nella casa fredda, le promesse, gli effimeri affetti, le lusinghe, le illusioni, le speranze arsero tutti nel fuoco come ramoscelli senza vita. Quel fuoco divampò divenendo ben presto la mia infinita pena. Tornai sola, colpevole d’aver concesso pochi attimi di intimità per manciate di illusioni. La gente rise di me, persi quelli ritenuti amici, i clienti affezionati, gli affari, e tutto iniziò a decadere a sbriciolarsi intorno a me. Barricata dietro la mia solitudine rimasi come una mendicante all’interno del mio locale che con me invecchiava e si incupiva, forse ad attendere ancora disperatamente, un amore che non sarebbe mai arrivato che non mi avrebbe fatta più sentire viva.
Forse sono nata per servire, e per i clienti essere madre, moglie, compagna, amica, ma anche questa mia illusione era indecorosamente crollata tra il buio del tempo ed il grigiore dell’abbandono.
Tutti si sono presi gioco di me che ingenuamente donavo me stessa a quell’illusione con il cuore che mi esplodeva ogni volta che una mano sfiorava il mio corpo, sempre con la speranza di un dopo ma dopo c’era soltanto il mio gatto a restare accanto a me come sentinella muta. Vissi la solitudine amara come una nube di ottobre, bassa, che scivola lentamente col suo carico di piogge.
Fu un giorno, verso la fine di ottobre, quando le foglie non stormiscono più e l’acqua del fiume è immobile come una spada, che entrò nel mio locale un uomo con due baffetti, trentaquattro anni circa, corporatura robusta e un sorrisetto enigmatico sulle labbra. Lo guardai di sfuggita mentre sfogliavo svogliatamente una rivista fumando una sigaretta. Si rivolse a me ordinandomi un caffè mentre appoggiava il petto sul bancone. Quando lo servii iniziò a farmi strane domande, voleva sapere se ero da sola a gestire quel locale un po’ isolato, se non avessi paura e desiderassi avere invece un uomo vicino per sentirmi più protetta. Quelle domande mi resero nervosa, gli risposi decisa che non avevo bisogno di nessuno. Erano trenta anni che stavo in quel posto e non mi era mai successo nulla. Cercai di tagliare corto visto che continuava ad insistere e chiesi a mia volta chi fosse e cosa stava cercando. Mi disse che era il nuovo guardiano delle pecore, veniva da Castelnuovo Monti e abitava nella baita in fondo al sentiero. Ebbi la sensazione di potermi fidare, uscii dal bancone e lo invitai a sedersi ad un tavolo, ed iniziammo a conversare. Il suo nome era Giuseppe, non era sposato, si lamentò che le ragazze del suo paese non l’avessero mai preso in considerazione.
Conversando con quello sconosciuto mi resi conto che aveva un aspetto piacevole, schietto, persino allegro, ma nel parlare ogni tanto farfugliava, e ciò lo rendeva buffo oltre che rendere la conversazione imbarazzante. Doveva essersi accorto del mio crescente imbarazzo di fronte a quel suo difetto, perché tacque e poi improvvisamente mi chiese se poteva venire a cena per tutte le sere in cui si sarebbe fermato in paese. Ci tenne a precisare che avrebbe regolarmente pagato, ed anzi mi offrì una settimana di anticipo sui pasti. Passò il tempo, inaspettatamente mi accorsi d’essere tornata a sorridere.
L’arrivo di Giuseppe mi aveva donato nuovo vigore anche se di clienti ne entravano sempre meno.
Quella sera avevo preparato del buon coniglio alla cacciatora con polenta abbrustolita ed il tutto innaffiato da ottimo Lambrusco. Cenammo insieme e senza neanche accorgercene facemmo fuori quattro bottiglie di buon vino e alcuni grappini finali. È inutile dire che perdemmo la cognizione del tempo come lo è altrettanto dire che quella volta Giuseppe trascorse la notte con me. Avevo vent’anni più di lui, ma il pensiero mi sfiorò appena senza lasciare alcuna traccia.
Qualcuno era tornato a volermi bene e aveva infuso di nuovo in me la vita. Il vento del nord aveva ripreso a cantare, la notte lasciava spazio al radioso nuovo giorno e la vita si rinnovava con lo sbocciare di nuovi fiori. Io mi sentivo cullata da quella primavera rinnovatrice che tutto rinvigoriva persino la mia incartapecorita anima. Il tempo continuò a scorrere senza che io me ne curassi senza che la gioia fosse intaccata dai suoi sortilegi. Dopo aver chiuso il locale, avevo amorosamente preparato una fantastica cenetta ed attesi l’arrivo di Giuseppe. Ore davanti al camino, sbirciando di tanto in tanto tra i vetri della finestra il buio della notte muta ed immobile con il gatto sulle ginocchia che mi fissava con i suoi occhi fedeli. Il mattino mi raccolse tra le ceneri assopite la testa abbandonata sulla tavola ancora apparecchiata.
Anche Giuseppe così come era venuto era svanito. D’altra parte che cosa mi sarei potuta aspettare? Io, ero sola una povera illusa che credeva ancora nelle favole, al sogno che si avvera, all’amore senza fine. No, l’amore non esiste, è soltanto un prendere e poi, ciao chi s’è visto si è visto, alla faccia di quegli idioti come me che rimangono delusi con un pugno di mosche in mano e che si rifugiano nella speranza. Ancora una volta avevo lasciato che la mia vita scivolasse via come una manciata di sabbia, gli unici veri amici erano stati il mio gatto e il mio locale.
Ormai i miei capelli erano divenuti grigi, ma dentro di me sentivo ancora ardere un indomabile fuoco. Sono sempre stata giovane e vecchia per i miei clienti, a volte i loro sorrisi erano schietti e genuini, altre un furbesco ammiccare. Il mormorio dell’oscurità sussurrava i segreti della vita e capii che forse il mio viaggio era giunto al termine, davanti a me la via era stata sbarrata.
Era rimasto soltanto un povero cuore invaso dai ricordi. Il canto della vita era ormai sterile e stendeva il velo delle tenebre sopra la terra e la natura stanca svaniva nell’imbrunire.
Nessuna voce, nessuna mano venne ad asciugare le mie lacrime. La primavera e l’estate facevano capolino dalla finestra e sparivano con un sospiro e l’autunno strappava le foglie dei miei ricordi”.

Il racconto si interruppe, con uno scatto improvviso Gina si avvicinò alla grande finestra della sala ed io dovetti affrettarmi dietro di lei col mio registratore. Con lo sguardo rivolto allo spicchio di cielo che spuntava tra il grigiore degli edifici circostanti, all’improvviso riprese a narrare:
“Il mio gatto adesso è freddo, indifferente e silenzioso. Non ci sono i canti e le risa dei canoisti mentre si passavano i remi, né il vocio dei pescatori con le loro canne, c’è solo una donna dietro un vecchio bancone che aspetta, il tempo imbianca i suoi capelli mentre il locale ammuffisce. Il gatto ascolta il silenzio mentre il Po scorre malinconico come un cioccolatino stantio.”
Il silenzio che seguì fu una lama invisibile che tagliava il tempo.
Gina immobile come una statua di cera incollata a quel vetro con lo sguardo fisso verso l’azzurro lontano. La chiamai più volte, ma sembrava non udisse la mia voce, il suo sguardo assente vagava oltre quel cielo. La bianca figura di una infermiera apparve, abbracciò amorosamente Gina con un braccio sussurrandole qualche cosa all’orecchio, poi la prese per mano e la condusse nella sua stanza. Non so se il mio saluto fosse stato recepito da Gina mentre si allontanava sorretta dall’infermiera, mi resi solo conto che il nastro del registratore era giunto al termine e chiusi istintivamente l’interruttore sotto gli sguardi indagatori degli altri pazienti.
Gina si chiuse in se stessa e non parlò più con nessuno. Le facevo visita tutti i giorni. Non usciva più dalla sua stanza, se ne stava là, sempre seduta davanti alla finestra a fissare quel pezzo di cielo senza neanche toccare i pasticcini che le portavo. Chiusa in quel suo bozzolo impenetrabile come una crisalide in attesa della trasformazione finale. Era passato un anno da quella intervista, Gina aveva smesso di nutrirsi ed era diventata un’ombra pallida e fragile. Una settimana prima del suo decesso, durante la mia solita visita mi guardò languidamente con quei suoi occhi umidi: “Grazie!” Sussurrò con un filo di voce “Per tutta la gentilezza, ora tutte le porte sono state serrate.
Il mio caffè è chiuso, posso andare, e finalmente tornare sotto la coltre di una tenera notte”.


COCKTAIL

Voglio frullare
acini d’esistenza
sogni svaniti
baci appassionati
versi sussurrati
ciò che si sarebbe dovuto dire
i silenzi dei tradimenti
ciò che non si sarebbe dovuto dire
i caffè amari
i volti d’amici perduti
la sofferenza
il vuoto dell’indifferenza
il fare e il non fare
le effimere illusioni
per bere il succo
sulla dolorosa via
della ricerca di me stesso.

[continua]


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