Taccuini

di

Giorgio Sabattini


Giorgio Sabattini - Taccuini
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 72 - Euro 8,30
ISBN 978-88-6587-4462

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In copertina: «Taccuini» illustrazione di Romeo Zanzi
Pag. 65: «L’abbandono» illustrazione di Luciana Luotto
Pag. 67: «All’impudente Bellezza» illustrazione di Luciana Luotto


Prefazione

È un caso, trasformato in un esperimento spirituale, o in un esercizio psicologico, poi forse in una piccola ossessione a fare da fondamento a “Taccuini”.
Le prime cose tirate giù durante le passeggiate al mare; le successive scritte nella stesura, senza proposito, di una specie di almanacco dell’anima: da agosto 2011 a luglio 2012; più la postilla del 18-19 marzo 2013.
Taccuino 1 è una raccolta di ricordi e luoghi, impressioni e affetti, riflessioni, il tutto filtrato alla luce di suggestioni culturali varie, legate in alcuni casi all’antichità.
Taccuino 2 mette in campo le tematiche della quotidianità (talvolta affettuosa, talaltra pensosa e assorta) e dell’amicizia.
Taccuino 3 affronta le questioni della memoria, dell’identità e dell’inquietudine; Postilla introduce il tema della rinascita.
L’esaurimento materiale di ciascuno dei tre taccuini ha inconsapevolmente indotto a porre un punto e a capo e a operare una specie di piccola svolta, o di sviluppo. Il tutto però è amalgamato dalla presenza di elementi ricorrenti: i filosofemi e i quattro scherzi, divagazioni – questi ultimi – ispirate da suggestioni musicali, oppure da giochi linguistici, o ancora dall’autoironia.

I tre filosofemi nascono da riflessioni ispirate dalla Scuola di Elea e dal tema dell’infinitesimale.
Parmenide e l’amico-discepolo Zenone affrontano il problema dell’essere (inteso in senso ancora sostanzialmente fisico), della sua consistenza e del suo fondamento. Entrambi ne riconoscono la natura divina.
Parmenide, con la sola forza della ragione, asserisce che l’essere, per esistere, deve in se stesso giustificarsi come uno e immutabile, assoluto ed eterno, del tutto scevro di alcun rapporto col nulla.
Zenone, con magistrali argomenti fondati sulla scoperta della grandezza infinitesimale, conferma l’impensabilità della molteplicità e del divenire delle cose (se l’essere è divisibile in parti, ciascuna di esse è divisibile a sua volta in un numero infinito di parti infinitesimali, ma nessuna parte finita può contenere l’infinito; allo stesso modo, nessun movimento finito può esistere, perché è divisibile in infinite parti infinitesimali e non si può percorrere un numero infinito di parti in un tempo finito: celebre a questo riguardo l’argomento di Achille piè veloce che rincorre la tartaruga e si avvicina infinitesimamente, senza raggiungerla mai).

Ippaso di Metaponto è il filosofo e matematico pitagorico che ha studiato per primo il dodecaedro regolare (solido con dodici facce consistenti in pentagoni regolari) e a cui si attribuisce la scoperta dei numeri irrazionali individuati da segmenti incommensurabili (la diagonale rispetto al lato nel quadrato e nel pentagono regolare; la circonferenza rispetto al diametro nel cerchio). Lo sviluppo dei numeri irrazionali sotto forma decimale conduce a dei numeri decimali illimitati non periodici (a numeri con una serie infinita di decimali infinitesimali), per esempio: µ (3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 59230 78164 06286 20899 86280 34825 34211 7067…). Cacciato dalla consorteria pitagorica perché avrebbe divulgato la scandalosa dottrina che introduce l’irrazionalità anche nei numeri, Ippaso sarebbe morto in un naufragio.


Taccuini


Taccuino 1


Mantova
(07 VIII 2011)

Un miraggio possente emerge
dalle nebbie ipnotiche e mutevoli,
fortezza opaca
refrattaria ai colpi del sole,
rinchiusa nei limiti
di una consistenza terragna battezzata
dalla silente, torpida linfa
di acque rafferme.

Dal caldo e dall’umido
che cova la vita sale
un canto – sgraziato –
di pavone: Annunciazione
di un’altra, inconsapevole, Resurrezione.


Roberta
(07-08 VIII 2011)

Mi accoccolo e rinasco
fra le braccia odorose,
le generose muliebri dolcezze:
tu Gea nutrice di uomini e dei,
gaiezza dimentica del tempo
mia tarda giovinezza.

Scorro con perizia e indugio
sulla schiena tesa,
sul ventre tenero,
le cosce guizzanti:
tu Pallade Atena, agone e sapienza
sangue e vittoria
sconfitta innocenza
ripresa e gloria.

Con primitiva fierezza mi hai aperto
il segreto estremo,
inaudito della tua libertà:
tu erta scogliera
tagliata dai venti,
nido selvatico
carezza oltre ogni edipico inganno
brezza che sale la sera.

In ispirito hai generato
questa mia goffa virilità
e di giorno e di notte condotto,
addomesticato:
io solitario ardente
tratto dalla geometrica asprezza
della pietra gretta, fremente
dono per te.


Ferrara
(19-22 VIII 2011)

Ciottoli inanimati, cocci ocra
e bianca pietra, nudità
algida e spettrale, scarnificata
dalla calcina del sole.

Dissepolta e danzante grecità
nel tempo latente
in secchi sepolcri etruschi: enigma,
silente sacralità senza trascendenza.

Madonne sbigottite e innocenti
dinoccolate in lividi colli nordici
con torsioni asimmetriche emergenti
da volumi cilindrici.

Giocosità perduta
in una isterica impudenza
che sfalda il mito
in fantasia capricciosa,
in dissacrata credenza.

Nella luce accecante del meriggio
mi aggiro fra solitudine sorda
e imponderabile silenzio,
cammino stordito e penso
alle ombre squadrate e mute,
mistero imminente e denso
più solido delle perdute cose.

Strade deserte, rettilinei prospettici
si impantanano
in un infinito sfuggente
come una costante calcolata e ignota.
Lo si scorge di sfriso
fra terra e acqua inerte
cielo e levigate onde:
se un eco non risponde,
a chi alzerò il mio grido?


Parmenide
(Filosofema n° 1)
(24-25 VIII 2011)

Elea, Elea, Elea
l’essere è, l’essere è, l’essere è.
Identità del celeste e del turchese
presso il giro dell’orizzonte.
Nella canicola del mezzogiorno
che dissecca sul monte gli sterpi,
sospese fughe nel tempo,
rivelazione d’intatta verità.

Mi assido sul colle
(la tua ombra mi segue):
caldi vapori avvampano,
ardo nell’animo.
Lo sguardo febbricitante e sereno
contempla le mura risorte,
le porte compresse e invincibili
sul sentiero di marmo che dice
che l’essere è.

Il canto infinito delle cicale
assorbe il silenzio
e col suo manto si fonde
(ricordi quel pomeriggio
di comunione intensa,
le vereconde membra
abbandonate fra le mie esili braccia,
sazia di baci?, ciliegia turgida
negli esordi d’estate).

Essenza dell’essere
fitta, fitta di vita,
affollata di pensiero,
fiera coscienza di sé,
struggente dolcezza,
Tu ci soddisfi di piacere,
pienezza amata e gradita,
ci ricolmi di estasiato stupore,
sempre le sere riempi
la mente e il cuore di nostalgia
quando tramonta il disco del sole.

Elea, Elea, Elea
logos e mito, innocenza perduta:
l’essere è, l’essere è, l’essere è.


Ospedaletti
(Il capo dei gabbiani)
(18-21 IX 2011)

[A Luca]

Marcio solerte lungo la marina
sotto un sole lontano e pungente;
in questa mattina – già in stallo –
mi alleno a una vita
che, quando verrà?

Il mare che sfrigola urgente
getta schizzi che sanano
e porta messaggi da un mistero latente
che sento si mostrerà.

Gabbiani ottusi come carlinghe
di bimotori vuoti, relitti
stanchi in viaggio senza meta
attendono in quota, sospesi
nei rigidi corpi immoti
poi con rapide alate
saettano, zitti, rasenti la riva
a indicarmi il cammino ascendente
verso il capo agitato dai venti.

Nella luce che cinge la rada
tardive libellule grigie
frementi tra oleandri sfiniti
mi aspettano mute e pensose,
infine sfuggenti;
nell’aria che sa di rugiada
indugiano compiaciute di sé.

Nel tempo del corso di un sogno
raggiunta la rupe che aggetta sui flutti
si affollano intorno colonie di uccelli
incubi, tristi segreti,
falliti progetti ribelli;
tra loro procedo in silenzio irreale
spoglio d’un qualche pensiero
allarmato da ogni sussulto
diviso fra il timore e l’orgoglio.

Spennati gabbiani reali
mi sdegnano cinici
tremanti nei corpi scavati di sughero
sospettando di me;
gavine affettate sfilano ostili
nelle marsine napoleoniche;
zafferani lavati dal mare
ricurvi su sé
occhieggiano malevoli e astuti.

Estraneo a me stesso mi aggiro a disagio
tentando un’uscita di scampo
che riporti alla costa,
o suggerisca una via.
Un vento d’ovatta che assorda e stordisce
mi risucchia, adagio,
come un’eco fetale,
in quell’ombra riposta di malinconia
che mi hai messo nel cuore
col tuo soffio vitale:
sgomento, mi chiedo perché
son contento di essere solo
e da quale dolore
ti dovrò mai pregare.


Quando il giorno
(05 X 2011)

[A Maria Rita]

Quando la grazia
di svegliarsi all’aurora
ci fa scoprire che il mondo
già brulica di vita
ed il giorno sembra
non dover mai finire,
il darsi misterioso dell’essere
ci fa l’incantesimo
e il mattino
porta con sé una promessa.

Quando oltre l’effimero
o dentro l’effimero
ogni cosa diventa
così tanto importante
e la bellezza
nel suo nudo splendore
si dona allo sposo
come dote nuziale,
nel cuore dell’uomo
rinasce un’attesa.

Ma ogni sera conduce un rimpianto
o veglia un commiato.


Solo l’amore
(12-15 X 2011)

Bellezza del mondo,
suggestione profonda
e gratitudine commossa
di fronte al dono dell’essere
nella sua misura musicale
e dello spirito
nel suo dinamismo vitale,
trasporto sgombro
dall’equivoco del possesso.

Tu ci sussurri,
nel fermo immagine fugace
di una mattina tersa
che non sussiste e passa
e nella fuga impalpabile di suoni
ascendente all’infinito, dissolta
come un’eco
persa nel vento,
che ci basta soltanto
quanto sommamente
ci trapassa.

Donna, principio d’ogni cammino,
alterità sfuggente e nota,
fertile serra
che s’inabissa
nelle radici della terra,
cuore del mondo
vibrante d’ardore
perché desidera
che si compia
della nascita il mistero
e fino in fondo lotta e sbaglia
ma sempre rinasce
come chi prima e di più
nelle ambasce genera vita.
In questa lunga estate calda,
vissuta
senza spegnere mai la luce
per l’ossessione
che nella notte muta
vinca il silenzio
e tesa
nel rischio dell’interpretazione
nel tormento della realizzazione,
tu ci mostri,
eterno femminino,
come, quando ogni cosa
sarà compiuta,
alla fine
dell’attesa,
cui il tempo
ci conduce,
resterà solo l’amore.


Vittima sacrificale
(30 X 2011)

Uomo del dolore,
familiare con il patire
(Isaia 53,3)

In questo pomeriggio tardo
col respiro inebriato
dall’odore del fieno tagliato
curvo la schiena docile
e lo sguardo tutto pieno
d’affetto al mondo,
sazio d’aver donato reni e giunture
alla legge laboriosa
che genera e dà frutto
sacrificando l’amante all’oggetto
delle proprie cure.

Ma più comprendo il senso della vita
la ragione forte dell’amore,
più cresce intorno a me
l’equivoco, l’ostilità, il rancore
– scheggia di ghisa nella carne viva
che si irraggia
come il verme della cancrena –
e soffro la percezione
scorata del dolore,
la cognizione dell’imminenza
del danno estremo della morte.

Né il sentimento del distacco
sarà reciso dalla consolazione
di un sacrificio generoso
– languido inganno riparatore
per uno sconfitto Narciso –
giacché il fardello di affanno
che mi è dato portare
e che mi schiaccia le spalle
come una vittima sacrificale
attende un supplemento di grazia
per poter soddisfare
la muta domanda
che mi sigilla la voce.

C’è un dolore puro,
c’è una sofferenza universale
che attraversa la terra
come un suono di fondo,
come un refrain musicale
(“tutto questo è morte,
tutto questo è male”)
e chiede un amore assoluto
una salvezza radicale,
una rete che la mano afferra
per trarre in salvo il cuore
dal buio che rinserra l’abisso
sotto a un suolo freddo e duro.


Patetico blues
(Scherzo n° 1)
(05 XI 2011)

Cos’è questo demone
che mi prende?
questa amara dolcezza
che mi culla
e mi spariglia il cuore?
Ci vuole dolore, bambina,
più dolore,
per capire.
Quante occasioni ho ancora
da sbagliare?
Se anche perdo un round,
o vado steso al tappeto
mi saprò riscattare;
non importa chi vince il match,
per non uscire sconfitto
quel che conta è lottare
tra sputi di sangue e le schiume
del nostro fiume Jabbok.
E se il tempo si fa breve,
quanto tempo ci resta
per avere amore,
più amore,
quanto per amare?
Quale attesa si distilla
in questa ferita
che mi spacca il cuore?
E il mio desiderio
chi lo può misurare?
Ci vuole speranza, bambina,
più speranza
per scampare.

Ehi, proprio tu, che hai la vita in fuga,
ma stai dalla mia parte
e trovi sempre il momento
per starmi ad ascoltare,
spezziamo insieme, adesso,
il pane del dolore
e come fiamma nella sera accesa
sfiora la mia solitudine
col tuo ardore,
più ardore.
Sei tu l’ultima chance
per me che non capisco
e ogni notte, a tarda ora,
lontano dai tuoi occhi
vado alla deriva da me stesso
e mi smarrisco
in un viaggio senza approdo
che devo cominciare
un’altra volta ancora.
Tu che sei semplice come la verità,
vera come l’amore,
tu che lo puoi
conducimi alla stanza
dove un movimento slow
di pianoforte
consolerà la lontananza
che ci duole
e uno squillo arrochito di tromba
accompagnerà un bianco frac
che pesta sulla sabbia chiara
con le suole,
finché l’aurora
sconfiggerà la morte
e tutto diverrà candore.


Tutto è compiuto
(Scherzo n° 2)
(17-19 XI 2011)

Saprai desiderarmi
con la stessa trafittura
che mi sospende la vita
e precipita il mio sentire
in un istante assoluto,
divinamente
privo di vuoto,
saturo di una pienezza primitiva
come un morso affamato
che addenta la mela
e che vive
della sua stessa consistenza,
della sostanza somma
di un cominciamento
ingenuo, fine a se stesso,
perfettamente
semplice e amabile
come il sole
alto nel cielo,
come le stelle
lucenti sul mare.

Io ti saprò saziare
senza stuccarti
della tua stessa sazietà,
tu mi potrai cambiare
alimentando il fuoco senza fine
della passione
e nell’entusiasmo oseremo cantare
come un inno arcaico:
Attimo fermati, sei bello!
Nel trionfo timbrico
di fiati squillanti,
torrenti di musica
ci trascineranno
struggenti
nel crescendo di vortici orgiastici,
finché – sazi di furore –
pause sublimi,
arpeggi leggeri
ci ricomporranno
in celesti equilibri acustici.

Nudi allora saremo
e riversi sulla terra dura
del nostro destino,
sbalorditi a tentar la misura
del mistero vissuto
di gioia e dolore,
di lacrime e riso
che attraversa le ore
del nostro cammino,
impotenti a colmare lo iato
che fa dire dinnanzi all’istante:
Tutto è compiuto.

[continua]


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