Per vie traverse - Vizi capitali in un’Italia smarrita

di

Giovanna Meyer


Giovanna Meyer - Per vie traverse - Vizi capitali in un’Italia smarrita
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 122 - Euro 12,0
ISBN 978-88-6587-1539

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In copertina: «Hauptweg und Nebenwege» (Strada maestra e vie traverse) dipinto di Paul Klee per gentile concessione del Museo Ludwig di Colonia


Opera finalista nel concorso letterario J. Prévert 2011


Dodici nomi: dodici fasci di luce che illuminano le ferite dell’Italia d’oggi. Nomi che si fanno carne e ossa per vivere la propria realtà in uno spazio concreto e delimitato. Le storie, raccontate da Giovanna Meyer con un linguaggio veloce, limpido e rigoroso, sono un’aspra denuncia altrettanto veloce, limpida e rigorosa. Una verità che colpisce perché sta dentro le vite di quei dodici nomi: razzismo, degrado materiale e morale, distruzione del paesaggio, inquinamento, corruzione, malavita organizzata e “soprattutto indifferenza”. Nell’ultima storia Simmaco depone sul fondo del mare il suo sogno d’amore. La sua forma nitida e splendente diviene per i vecchi pescatori una sirena. Con tutti i misteri, la paura e le speranze dell’antico mito mediterraneo.

Elena Bertonelli
saggista


Un’analisi lucida e rigorosa, quella di Giovanna Meyer, che assume il valore di denuncia soprattutto quando non lascia in ombra collusioni e connivenze che si annidano anche all’interno di quello Stato che dovrebbe essere esso stesso esempio di moralità. Racconti che vogliono essere quindi un forte richiamo al senso etico, ma anche un monito a tutti noi a non essere oggetti ma sempre e comunque soggetti, ad avere il coraggio della denuncia e dell’indignazione. Uno stimolo a non assistere passivamente alla rovina di uno Stato e quindi ad esserne in qualche modo anche noi conniventi, collusi, complici.

Maria Grazia Greco
(presidente della giuria del Premio Mondolibro)


La raccolta di racconti «Per vie traverse» ha vinto il Premio Internazionale Mondolibro 2011, è risultato finalista ai premi Jacques Prévert e Città di Castello e ha ricevuto la menzione di merito al premio Alberoandronico.


Sono gli antichi vizi capitali, rivisitati e aggiornati, il tema della raccolta di racconti “Per vie traverse”, ambientati in un’Italia smarrita e confusa, dove si muovono figure d’ombra, immagini di violenza e solitudine.
La superbia diventa razzismo, l’avarizia e l’invidia si trasformano in avidità, corruzione, mafia, l’ira nella furia del branco, la lussuria in perversione o stupro, l’accidia in complice passività, la gola in distruzione dell’ambiente: i vizi prendono forma e corpo, palpitano nelle cronache dei quotidiani, indignano e feriscono.
Eppure nella loro descrizione non manca la partecipazione umana, l’ironia, la consapevolezza che il confine tra vizi e virtù non è nitido ma sfumato e sfuggente e che c’è sempre un filo sottile che li lega, un tenue filo che è impossibile recidere.

Robert Bauer
giornalista


I suoi scritti, nei quali in passato le parole avevano spesso il suono della poesia, sono adesso diretti alla coscienza di ogni individuo e costituiscono un fermo richiamo alla moralità, al rispetto delle leggi, alla tutela di popolazioni in balìa dei prepotenti.
È doveroso parlarne finché si ha voce e libertà d’espressione. Libri come “Per vie traverse”, anche se dispiace dipingere ed esporre il ritratto d’una nazione allo sbando, aiutano ad uscirne.
Non v’è dubbio che sia questo l’intento dell’autrice che ben conosce i mali che affliggono l’Italia e, in particolare, il meridione, dove spesso si rifugia, e da dove la mafia si è estesa all’industria e agli affari delle ricche regioni settentrionali e poi a tutto il mondo.

Francesco Rossi
giornalista


Prefazione

Da vecchio giornalista, pensionato da anni e ormai prossimo al capolinea, posso dire che da quando ho cominciato a conoscerla nella lettura del suo “Altrove” non mi sono persa neanche una delle opere di Giovanna Meyer, compreso il saggio fotografico con cui è riuscita a realizzare un fantastico album che rivela il vero volto, l’anima di New York.
Credo di non sbagliare sostenendo che, a parte la sua inconfondibile passione per la narrativa, sia questo il maggior pregio che si riscontra nei racconti di “Per vie traverse”: andare al fondo di uomini e cose, fino a scoprire la loro anima. Il che spiega pure l’intensa attività che, in seguito a personali esperienze e per effetto di inchieste giornalistiche, continua a svolgere in Svizzera, nel Sud d’Italia, in una delle regioni più povere dell’Africa, a protezione dei bambini e di coloro che non sono difesi come si dovrebbe da soprusi e ingiustizie. I suoi scritti, nei quali in passato le parole avevano spesso il suono della poesia, sono adesso diretti alla coscienza d’ogni individuo e costituiscono un fermo richiamo alla moralità, al rispetto delle leggi, alla tutela di popolazioni in balìa dei prepotenti.
Esiste un problema in Italia di cui si sta perdendo il senso, la misura incalcolabile della gravità. Un problema atavico, purtroppo, che i governanti e gli stessi tutori dell’ordine non sanno o non vogliono o non possono risolvere, accettandolo ormai come qualcosa con cui si debba convivere: il problema della mafia e dell’organizzazione criminale. Come non scandalizzarsi, ad esempio, nell’ascoltare in televisione le denunce di Roberto Saviano e trovare in “Gomorra” la documentazione che – con i nomi, la tecnica, i metodi, i delitti dei camorristi – permetterebbe a uno Stato senza collusioni di stroncarli dall’oggi al domani? Il nostro, invece, si limita a scortare Saviano raccomandandogli di non farsi vedere in giro, altrimenti lo ammazzano.
Come non provare sgomento? Ma c’è in tutto questo un aspetto più mortificante e triste che, fin dall’inizio, occupa la scena dei racconti della Meyer: la mortificazione di quanti, per lo più povera gente, sono costretti a piegarsi al ricatto, alle minacce dei sicari. Una realtà opprimente che si vorrebbe nascondere, ma non si può perché è divenuta la loro vita d’ogni giorno, che viene fuori come una condanna dai rimorsi e dalla silenziosa confessione dei personaggi: “Ma quello che lo spaventava di più era la zona grigia che ormai pervadeva aree sempre più ampie del Paese: la contiguità, la mezza connivenza, il chiudere gli occhi davanti all’evidenza, l’abitudine al convivere col malaffare. Pensava al marito di Lena, così ricattabile per i suoi vizi, chissà quante volte costretto a difendere camorristi. Pensava a Lena, allo studio di progettazione in cui lavorava che riceveva appalti a suon di mazzette Anche lei involontaria complice di un sistema corrotto e pervasivo che aveva cancellato per sempre il confine tra legalità e illegalità”.
È doveroso parlarne finché si ha voce e libertà d’espressione. Libri come “Per vie traverse”, anche se dispiace dipingere ed esporre il ritratto d’una nazione allo sbando, aiutano ad uscirne. Non v’è dubbio che sia questo l’intento dell’autrice che ben conosce i mali che affliggono l’Italia e, in particolare, il meridione, dove spesso si rifugia, e da dove la mafia si è estesa all’industria e agli affari delle ricche regioni settentrionali e poi a tutto il mondo.
Tra gli stenti, la povertà, l’ossessione dei molti giovani di cui ha saputo tutelare il diritto al lavoro e al rispetto umano negli anni della continua emigrazione in terra elvetica, la Meyer ha trovato infine il bandolo della matassa in cui si aggrovigliano da sempre i cultori del fideismo e quelli che non hanno fede. Rileggetevi al riguardo la storia di Wladimir, l’uomo dai capelli rossi, forse russo, forse ucraino, che in occasione d’un capodanno apparve d’improvviso tra i giovani che a mezzogiorno si apprestavano sulla spiaggia a festeggiare l’avvenimento con un tuffo in mare. Era una giornata da tregenda: un freddo siberiano e il mare in tempesta. Il rosso si tolse l’accappatoio, non disse una parola e si tuffò tra i cavalloni che si abbassavano e aprivano a lui. Nuotò senza fatica e senza ostacoli fino a sparire all’orizzonte, e non tornò mai a riva. Gli altri, attorniati da un centinaio di spettatori, non attesero a lungo: si allontanarono, dimenticandolo.
Chi era? Vi fu – questa la conclusione – “chi lo credé il Cristo tornato in terra e condannato nuovamente a morire; chi s’immaginò che quell’uomo misterioso fosse la Morte, che aveva sfiorato tutti senza ghermire nessuno”.

Francesco Rossi


Per vie traverse - Vizi capitali in un’Italia smarrita


…la moralità modella il rapporto con la lingua
altrettanto infallibilmente di quanto modella
il rapporto con la quotidianità del mondo

Herta Müller, In trappola, 1996


Prologo

Lars aveva lasciato Oslo diretto a Roma. Doveva scrivere per il suo giornale una serie di articoli sull’Italia di oggi. Non si sarebbe trattato però di servizi di carattere politico, economico o culturale ma di storie, racconti di vita che dessero il polso della situazione attuale, delle radicate abitudini e del cambiamento, delle tare storiche e della voglia di superarle.
“Qui tutto avviene per vie traverse”, gli aveva scritto una collega, Elvira, che lavorava per un giornale del Mezzogiorno, “Per vie traverse si arriva al potere, al successo o all’amore e talvolta anche al riscatto. In quest’Italia smarrita, in bilico sul baratro, si muovono personaggi persi dietro ai loro feticci, figure d’ombra, immagini di violenza o di solitudine.”
Le frasi di Elvira lo avevano irritato e allo stesso tempo stimolato ad andare subito da lei. Voleva scendere in Calabria da dove era partita, allargandosi in pochi decenni in tutto il mondo, la ’ndrangheta. Una curiosità morbosa, una forza d’attrazione irresistibile lo spingeva verso il Sud.
“Troverai un’Italia confusa e persa ma anche, soprattutto al centro, viva, varia, variopinta dove si muovono uomini e donne venuti da lontano con le loro povertà e le loro ricchezze, li divide dagli altri il vetro opaco dell’indifferenza. Sì, l’indifferenza è forse il vizio peggiore. Se volessimo rivisitare i peccati capitali nell’Italia d’oggi vedremmo che si definiscono con nomi nuovi: razzismo, corruzione, inquinamento, violenza e, soprattutto, indifferenza.” gli aveva scritto Elvira in un momento di depressione.
Lui l’aveva conosciuta a Bruxelles, dove si discutevano la distribuzione e l’uso dei fondi europei per le aree meno sviluppate. I loro giornali erano, per ragioni diverse, interessati al tema e loro si erano trovati gomito a gomito nella sala stampa. Un sorriso, uno sguardo e la curiosità di scoprire i mondi diversi da cui provenivano li avevano spinti a passare una serata insieme. Poi all’indomani, all’aeroporto, i loro voli avevano preso direzioni opposte come le loro vite.
Ma si erano spesso scritti: lunghe mail su quello che succedeva intorno a loro. Lei gli raccontava storie impossibili alle quali lui stentava a credere: stragi e assassini di cui da decenni rimanevano senza nome i mandanti, innumerevoli casi di corruzione, concussione e collusione tra politici e mafie, loschi traffici tra il Palazzo e il Vaticano, trame eversive in cui erano coinvolti servizi segreti, CIA e Mossad…
I racconti di Lars risultavano invece incredibili per Elvira: l’ascesa delle donne al potere diventava sempre più visibile, si avvicinavano ad essere la metà del parlamento e del governo, i servizi sociali, le scuole, i trasporti funzionavano perfettamente, eppure le tasse si mantenevano più basse che in Italia e i salari più alti. Ma c’erano anche là contraddizioni e fatti incomprensibili come il libero uso dell’aborto in caso il sesso del feto non fosse ben accetto alla madre, come succedeva, per ragioni opposte, in India.
Era primavera avanzata, sedevano nella terrazza sul mare della casa di Elvira e lei cominciò a raccontare le sue storie: “Ti racconterò fatti accaduti o che potrebbero accadere al Sud e qua e là per l’Italia. Storie a cui da noi non darebbero importanza ma che potrebbero colpire i tuoi lettori lontani. Puoi registrare tutto, se vuoi.” “Sì, è quello che farò.”


PARTE PRIMA

Gerardo

Il museo sotterraneo

Entrò nel museo con la sua sacca da ginnastica blu, le scarpe da barca, la camicia celeste aperta sul petto, il pullover azzurro annodato in vita: un turista perfetto, uno tra i tanti. Solo che in quel museo i turisti non c’erano e mancavano anche le guide. Il luogo era deserto e silenzioso. Fresco. Piacevolmente fresco rispetto all’afa della strada. Il museo era ospitato infatti in ampie cantine con alti soffitti a volta, spazi che si incastravano gli uni negli altri creando geometrie ritmiche e perpetue.
Il luogo non aveva nulla di macabro ma qualcosa di grandioso e struggente. Le pareti bianche, le luci soffuse, la vecchia pavimentazione della Barcellona ottocentesca, facevano risaltare per contrasto le forme barocche e bizzarre delle antiche carrozze, la forza e la bellezza dei possenti cavalli neri, bardati finemente a lutto, la ricchezza degli intarsi degli interni in legni preziosi, la raffinatezza degli ornamenti vitrei alle finestre, lo splendore dei velluti, il fulgore dell’oro delle decorazioni, le rilucenti livree dei cocchieri e degli accompagnatori che, con parrucche bianche, feluche nere, mantelle viola e un bastone argenteo sormontato da uno stemma nobiliare, affiancavano i cavalli pronti a frenarne le improvvise bizze.
Il Museu de Carrosses Fùnebres di Barcellona non immortalava solo l’attimo fuggente che separa la vita dall’aldilà ma perpetuava la grandezza, l’orgoglio, l’alterigia di un regno sulle cui terre anticamente non tramontava mai il sole. Il potere e la decadenza, la vita e il disfacimento. Tutto era là con la sua simbologia cristiana e pagana: la croce, l’alfa e l’omega, il gufo, immagine di solitudine e silenzio, la dea Athena che testimoniava l’incontro dell’uomo con la vera sapienza solo nel momento estremo, quello dello splendore della morte.
In una sala: l’addobbo di una camera mortuaria. La bara in cima ad un piedistallo ricoperto di velluto nero decorato d’oro, ai lati panche rivestite di raso nero con foglie d’argento, tende e stendardi con grandi croci alle pareti, due accompagnatori dalle livree rilucenti e bastoni come scettri e, vicina alla porta, la vedova stretta in una mantilla di merletto, il volto nascosto da un pesante velo. Gerardo ripensava alle vecchie vestite di nero del suo paese, che aveva viste bambino, sedute attorno alla bara del defunto a piangere, emettendo lamenti striduli e ripetitivi come nenie. Veniva dalla Calabria anche se da alcuni anni abitava nella Capitale. Aveva fatto carriera.
D’improvviso un altro ricordo infantile: la mamma gli racconta che nel suo viaggio di nozze a Napoli aveva visto su un cavalcavia un maestoso tiro ad otto di immensi cavalli lucidi e neri, bardati a lutto, davanti ad un carro funebre così ricco e bello e pieno di fiori che sembrava uscito da una favola, dietro un fiume di gente scura e silenziosa che si muoveva lentamente come imprigionata in un sogno. Doveva essere un uomo potentissimo, si disse. Un uomo così potente, così arcaicamente tradizionalista non poteva essere che un guappo. Un capo della guapperia locale che oggi si chiama camorra.
Pensò con tenerezza ai suoi genitori che per il viaggio di nozze non erano andati oltre Napoli, mentre lui, temuto e riverito, ormai si spostava da un continente all’altro. Il padre, bracciante, la casa e la terra se le era sudate con la fatica e la solitudine dell’emigrazione in Germania, mentre lui aveva avuto altre opportunità, altre fortune. Fortune?, si chiedeva, guardando indietro a cosa era stata la sua vita e a cosa stesse facendo ora qua, vestito da turista, in questa grande bara sotterranea, questa sepoltura sontuosa, il tempio dove si celebrava il fasto della morte.
Cosa stesse facendo là, nel Museo, lo sapeva benissimo: cercava la carrozza bianca. Quella dai cavalli agili ed eleganti bardati di piume candide, quella dalle forme sinuose e svelte, leggera come una nuvola che non incede sulla terra ma vola lieve nel cielo. E l’aveva trovata: attorniata da guardie incipriate dalle divise nivee, i tricorni e le parrucche color del latte. Emanava leggiadria e gentilezza quella carrozza che aveva accompagnato nel suo viaggio verso l’ignoto, una vergine, una principessa adolescente che ancora non si era aperta alla vita. Cercò di immaginarsela, la principessa: dai capelli corvini e lunghi che incorniciavano un volto esangue segnato dalla morte o bionda e diafana, esile e graziosa come l’infante di Spagna dipinta da Velasquez?
Decise che la vergine, scortata in cielo da una soffice nuvola spinta dal vento, dovesse essere bionda e diafana. Bionda come lui, che da ragazzo, a scuola, sembrava un normanno capitato per caso in una schiera di saraceni. Anche sua madre, morta troppo giovane perché lui la ricordasse bene, doveva essere stata bionda perché, si diceva in paese, era stata il frutto di un amore segreto tra una ragazza sordomuta e un soldato tedesco, che neppure sapeva di aver avuto una figlia finita in un orfanotrofio.
Tutto era cominciato là, a scuola, dove lui spiccava tra gli altri non solo per l’aspetto inconsueto e la figura alta ed agile ma per gli ottimi voti in quasi tutte le materie. Era all’ultimo anno di ragioneria e il padre del suo compagno di banco, Salvatore, lo aveva fatto chiamare. Intimidito e titubante si era avviato fuori dal paese, dove, nascosta dalla boscaglia, si ergeva la villa immensa e pacchiana di zu ’Ntoni. Antonio Diluso, la persona più potente del paese, più del sindaco, del maresciallo, del gestore del porto e dei nobili che per secoli avevano posseduto tutte le terre della zona. Ma il suo era un potere invisibile e misterioso sul quale si sussurrava, si accennava per allusioni e di cui nessuno parlava apertamente.
Si era all’inizio degli anni Novanta. L’Italia era uscita faticosamente dall’incubo del terrorismo, si stava avviando verso la palude di Mani pulite e di lì a poco avrebbe subito il feroce assalto mafioso alle istituzioni con le stragi di Capaci e via d’Amelio. Di ’ndrangheta non si parlava o se ne parlava poco, considerandola un fenomeno arcaico, quasi folkloristico, delimitato geograficamente e avulso dal resto del paese. Se ne conoscevano i sequestri, ma rimanevano segreti gli antri dell’Aspromonte in cui i rapiti rimanevano prigionieri per mesi, anni o per sempre; se ne conoscevano le faide con le centinaia di assassinii che insanguinavano le strade in ogni stagione e se ne conosceva la ferocia: l’immagine del gregario che gioca a pallone con la testa di una vittima nella piana di Gioia Tauro aveva colpito l’immaginario di molti, ma la cosa sembrava lontana, esotica, come fosse successa in Mongolia, non dietro l’angolo di casa.
“Mi hanno riferito che sei bravo a scuola.” Gerardo aveva annuito, senza sbilanciarsi. “Qua non hai futuro. Ti mando all’università a Roma, farai economia. Poi saprai come sdebitarti. Fai venire tuo padre a parlarmi. Per Salvatore ho altri progetti, lui a scuola non riesce, farà altre cose, ma lavorerete insieme. Aspetto tuo padre domani alle cinque.” Da allora la strada di Gerardo era stata tutta un’ascesa facile e veloce, costellata di successi. La facoltà di economia alla LUISS di Roma, gli stage a Lugano, New York e alle isole Cayman per capire leggi e sotterfugi del perfetto riciclaggio di denaro sporco, per carpire i segreti della perfetta evasione fiscale. Poi c’era stato il ritorno in Calabria per costituire il primo nucleo della SAGB, la St. Antony and Gerard Bank for private banking, presente in Calabria, a Roma, Lugano, New York e George Town.
Anche il suo matrimonio con Ilaria, la figlia del farmacista, era stato pilotato da zu ’Ntoni, che voleva legare ancor più strettamente a sé don Saverio Nollia, proprietario delle tre farmacie del paese, la cui consulenza in molti casi era stata preziosa. Ilaria aveva studiato in un collegio di suore romano e all’università si era laureata in arte moderna, la sua cultura, il suo gusto, avevano contribuito a dirozzare Gerardo: sua era stata la scelta di comprare un palazzetto settecentesco che dalla rocca del paese si affacciava sul golfo invece di farsi costruire il ‘villone’ pretenzioso e squallido sul modello di quello di zu ’Ntoni, sua era stata l’idea di evitare i Parioli e scegliere invece un attico nel quartiere Monti a Roma, da cui si dominava tutta la città, quando era stato deciso il trasferimento di Gerardo nella capitale per curare i contatti con politici e amministratori dello Stato.
Ilaria aveva anche spinto Gerardo a finanziare, attraverso la SAGB, il restauro della Cattedrale del paese, a fare generose offerte alla Chiesa in occasione di feste e processioni, di sostenere opere di carità come il Cottolengo o associazioni di recupero sociale come la Onlus San Giorgio, che si occupava, ironia della sorte, del recupero dei tossicodipendenti.
Due bambine avevano allietato il matrimonio con Ilaria, che si era sempre mostrata una madre affettuosa ma non arrendevole, una moglie attenta e premurosa, una compagna discreta e riservata: mai lo aveva infastidito con domande sul suo lavoro, mai aveva protestato per i suoi frequenti viaggi all’estero in visita alle sedi della banca che dirigeva, a Lugano, New York, o alle isole Cayman, mai si era lamentata per i suoi improvvisi cambiamenti di programma. Lei era invece ordinata e prevedibile, pianificava la sua vita e quella delle bambine con la precisione di un orologio e si occupava personalmente della loro educazione malgrado la presenza in casa di una bambinaia che avrebbe dovuto farlo. Era la prima volta che si staccava da loro, per seguire il marito a Barcellona, e la loro lontananza le pesava, anche se sapeva che erano in buone mani. Ma la gioia di vedere la Spagna, di cui conosceva non solo l’arte ma anche la lingua, aveva prevalso sulle sue ansie.
Mentre Gerardo era al Museo dei carri funebri, lei era andata alla Casa di Picasso e all’uscita era entrata in una piccola galleria di arte precolombiana adiacente a un Bookshop pieno di libri e souvenir del Messico. Tra questi c’erano delle scatole con un lato di vetro in cui si mostravano scene di vita quotidiana rappresentate da piccoli scheletri: nella scena del ballo, scheletri in abito da sera o smoking danzavano il valzer; in quella della messa, uno scheletro vestiva gli abiti talari viola; in quella del matrimonio, uno scheletro con un sontuoso abito bianco dava il braccio ad uno con il tight e poi ce ne era una che si chiamava “L’amore eterno” ed era una bara doppia con due sposi all’interno. Le statuette erano così ben fatte, vivaci e colorate da affascinare Ilaria. Aveva una voglia matta di comprarne due per le bambine, ma si trattenne. Un regalo così porta male, si era detta, e aveva rinunciato all’acquisto. Nella sua cultura non c’era il rapporto spregiudicato e allegro con l’aldilà della tradizione messicana. La morte al suo Paese era violenza e sopraffazione, erano le faide infinite che attanagliavano le famiglie, insanguinavano le strade, chiedevano nuove vendette e nuove vittime.
Aveva ancora nel cuore la mattinata passata con Gerardo al Montjuich: prima erano andati con la funi via al parco che ospitava il museo di Mirò, poi erano saliti al castello da cui si dominava la distesa di antichi tetti di Barcellona e la splendida vista del porto e del mare: “È troppo bello, sono così felice, Gerardo, grazie di tutto questo!”; “Anch’io sono così felice di stare qui con te, ti voglio bene.” Ma mentivano entrambi: lei era preoccupata per le bambine e tanta bellezza le aveva dato una nostalgia struggente di loro, lui era cupo e turbato dalla situazione che si era creata negli ultimi mesi: zu ’Ntoni era scomparso dalla circolazione, non abitava più la sua grande villa e nessuno, neppure lui, sapeva dove fosse. Le direttive gli arrivavano attraverso messaggi consegnati a mano da persone, persone sempre diverse. Anche Salvatore era scomparso. Pareva che ci fosse in atto una guerra con un’altra famiglia, che stava prendendo terreno nelle loro zone. Forse si era infiltrata addirittura nella loro n’drina, generando una diffidenza totale di tutti verso tutti. Eppure non c’erano prove certe, la cosa restava nebulosa e vaga, in attesa di un atto spietato e irreversibile, che avrebbe diradato ogni dubbio, creando una nuova struttura di potere.
Era per questo che era dovuto andare lui a Barcellona e non il solito corriere. Da almeno un anno si erano avvicendate più persone al ritiro della cocaina che dalla Colombia arrivava a Barcellona. Si era notato infatti che sulle navi turistiche che da Civitavecchia salpavano per la Spagna non c’era nessun controllo dei bagagli, così i corrieri, mescolati ai turisti, partivano con le loro sacche sportive cariche di dollari e tornavano con i panetti di droga. Ma l’ultimo, giunto a destinazione, era sparito e non aveva fatto più ritorno in Italia. Zu ’Ntoni, che ormai non si fidava quasi più di nessuno, aveva mandato lui sulle tracce dello scomparso. Il viaggio aveva però un’altra copertura: a Barcellona Gerardo avrebbe dovuto incontrare Xavier Rodriguez y Gomez proprietario di una piccola banca locale, che voleva collaborare strettamente e forse fondersi con la SAGB. L’incontro sarebbe avvenuto in serata, dopo la visita al Museo dei carri funebri. Alla cena, una prima presa di contatto, avrebbero partecipato anche Ilaria e donna Consuelo Rodriguez y Gomez
Ilaria non era uscita a mani vuote dal Bookshop della galleria: invece dei piccoli scheletri aveva comprato una miriade di animaletti di cartapesta dai colori sgargianti e dalla forme fantasiose. Sarebbero piaciuti certamente moltissimo alle bambine. Attraversò il Paséo de Gracia e si fermò a guardare estasiata la casa Battilò di Gaudì. Era così ricamata e barocca e sontuosa e folle nelle sue decorazioni che lasciava senza respiro. Si ripromise di visitarla l’indomani con Gerardo. Si avviò verso il Grand Hotel di Catalogna, dall’architettura fastosa e bizzarra anch’esso, e salì in camera decisa a scegliere un vestito particolarmente elegante per la serata. Ma alla fine optò per un abitino nero, semplice e poco scollato ma di buon taglio, che avrebbe ravvivato con la sua splendida collana di perle di Bulgari.
Gerardo era finalmente dinnanzi alla carrozza bianca nel fondo della quale avrebbe trovato una sacca sportiva identica alla sua: avrebbe solo dovuto scambiarle e la missione affidatagli da zu ’Ntoni si sarebbe conclusa lì. Nessun problema gli avrebbe creato il guardiano del museo, da un anno sul libro-paghe della famiglia, nessun problema gli avrebbe dato la polizia portuale, che non aveva né tempo né voglia di controllare i bagagli. Era la prima volta che Gerardo doveva esporsi. Finora il lavoro sporco lo aveva fatto Salvatore: droga, armi, tratta di clandestini, eliminazione di rifiuti tossici e forse altro. Gerardo in fondo non sapeva molto sui traffici della famiglia, lui si occupava solo della parte finanziaria, doveva lavare, investire, sistemare, far scomparire e ricomparire ingenti somme di numeri. Il danaro era per lui qualcosa di astratto, impalpabile, sottile, vago, virtuale. Non pesava. Non pesava come quella sacca blu che gli pendeva dalla spalla. Entrò nel carro funebre bianco, aprì la bara ma non trovò nessuna borsa. Uscì e mentre stava richiudendo la porta lattea, sentì come una presenza nella sala, come se una delle guardie di cera dal viso incipriato e la divisa nivea si fosse mosso. Un movimento impercettibile che lo aveva gettato nel panico.
Gerardo tardava a tornare ed Ilaria era inquieta. Non voleva far brutta figura con il banchiere spagnolo. Alle nove dalla réception arrivò una chiamata: i signori Rodriguez y Gomez aspettavano nella Hall. Vincendo una certa timidezza, scese e salutò la coppia scusando il marito che non era ancora tornato. Si disse preoccupata, il marito era sempre puntuale. Non sapeva che cosa potesse essere accaduto. Ignorava dove Gerardo fosse andato nel pomeriggio e, come al solito, non aveva fatto nessuna domanda quando lui aveva detto: “Ho delle cose da sbrigare, torno in albergo verso le otto.” Xavier Rodriguez y Gomez l’aveva invitata a non preoccuparsi e a prendere un aperitivo al bar dell’albergo in attesa di Gerardo. Il tempo passava e lei era sempre più inquieta. Temeva che fosse stato coinvolto in un incidente.
Rodriguez si offrì di telefonare a tutti gli ospedali per chiedere notizie. Andò alla reception e ci passò almeno una mezz’ora. Al ritorno era preoccupato anche lui. Gerardo non era stato ricoverato da nessuna parte. Decisero insieme che bisognava chiamare la polizia e denunciare la scomparsa. I Rodriguez, impensieriti e premurosi, attesero con lei quasi tutta la notte nella speranza che la polizia riuscisse a trovare Gerardo. Solo verso l’alba lei decise di andare in camera a riposarsi. Il sonno fu breve. La svegliò, come di consueto, la cameriera, alle nove, con la colazione e il giornale del mattino. Dette una scorsa alla pagina della cronaca alla ricerca di qualche traccia che la portasse a Gerardo. I soliti incidenti di auto, liti di condominio e ferimenti, drammi della passione e accoltellamenti. Poi in basso una notizia bizzarra: una bara bianca era stata trafugata dal Museu de carrosses fùnebres. Lo aveva denunciato il guardiano dopo la sua ispezione serale. Era la seconda volta in un mese che una bara spariva senza lasciar indizi o impronte che riconducessero a uno o più colpevoli. La polizia stava indagando sulle misteriose scomparse e lanciava un appello agli eventuali testimoni del furto perché si mettessero subito in contatto con la Centrale. Ilaria sorrise per l’assurdità del fatto, poi si alzò e si preparò ad affrontare una lunga giornata di attesa.

[continua]


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