Sul cammino delle stelle

di

Giovanni A. M. Malfanti


Giovanni A. M. Malfanti - Sul cammino delle stelle
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 160 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6037-8323

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In copertina: «Labirinto stellato» illustrazione di Giovanni A. M. Malfanti


Il libro narra la storia di Filippo, un giovane abitante di Vada, un paese rivierasco della Toscana, che a seguito di un voto si trova a dover affrontare un pellegrinaggio a Santiago di Compostela.
La vicenda è ambientata tra la fine dell’inverno e l’estate del 1452 (le date ed i giorni corrispondono realmente al calendario giuliano di quell’anno).
Il viaggio si sviluppa lungo la Via francigena Tolosana dove il protagonista incontra una serie di personaggi, alcuni di fantasia, altri realmente esistiti ed assiste a fatti storici talvolta realmente accaduti in quel lasso di tempo.
Filippo giunge a Santiago dopo una serie di vicissitudini, alcune drammatiche, altre divertenti, riuscendo così ad adempiere oltre al voto fatto, anche alla promessa di portare a termine una missione affidatagli da un frate che condivide con lui un lungo tratto del percorso. Dotato di vivace intelligenza, da ogni incontro impara qualcosa ed al termine del pellegrinaggio la sua maturazione non è solo spirituale, ma anche intellettuale ed in lui si può intravedere il passaggio dall’uomo medioevale al “nuovo” uomo dell’umanesimo.
Questo libro può essere letto come un semplice romanzo, ma un lettore più attento può trovarvi diversi spunti che possono dare adito ad interessanti approfondimenti di carattere storico, religioso ed artistico.


Sul cammino delle stelle

Ai miei figli, mia moglie e a Vada


Capitolo I

La motivazione ed i preparativi

Il cielo era limpido, i nuvoloni che per tre giorni si erano rincorsi sembravano spariti, ma guardando verso il mare si vedeva un’alta siepe di nubi bianche che lasciavano sperare solo in una breve tregua del maltempo.
Filippo, dirigendosi verso la spiaggia, sapeva che a battigia avrebbe trovato sicuramente ciò che cercava. Il vento di libeccio aveva agitato le acque del mare tanto da trascinare a riva di tutto e camminando lungo l’argine di un fosso pensava che ormai l’inverno stava per finire e dal momento che era stato anche particolarmente freddo e piovoso, era convinto che la imminente primavera sarebbe stata al contrario dolce e mite.
Guardava quei campi che per anni lui e la sua famiglia avevano lavorato con fatica e con scarsi risultati, la colpa era di quel terreno così poco fertile, troppo salmastro e renoso, che nei periodi di siccità diventava come una dura lastra abrasiva. Da bambino cadendo vi si era procurato molte volte ferite poco profonde, ma estese e molto dolorose specialmente quando sua madre per pulirle ci versava l’acqua del mare.
Terreno maledetto soprattutto nei periodi piovosi allorché diventava un mare di fango.
Lo lavorava la sua famiglia da diverse generazioni per conto dell’abbazia, alla quale spettava parte del magro raccolto. Solo un piccolo lembo, un fazzoletto di terra gli era concesso a titolo gratuito per meriti che aveva avuto qualche suo progenitore. Era vicino alla sua abitazione fatta di legno, canne e fango e lì coltivava ortaggi che vendeva al mercato.
Era convinto che un tempo quel terreno doveva essere migliore, manufatti in terracotta e bronzo erano stati trovati scavando ed erano segni inequivocabili di una antica e duratura presenza umana.
Quegli ultimi anni erano stati per Filippo particolarmente difficili, l’ultima pestilenza lo aveva reso solo al mondo e pensava di essere arrivato ad un bivio: cercare moglie e crearsi una famiglia, o andarsene.
La prima ipotesi, a questo punto era fattibile, l’abitazione era oramai di sua esclusiva proprietà ed era sufficientemente spaziosa. Lì era cresciuto insieme ai genitori e ai suoi numerosi fratelli. Di questi ultimi a Vada era rimasto solo lui, alcuni erano morti giovani, se non bambini, altri erano partiti in cerca di fortuna facendo perdere ogni traccia. Questo però voleva dire ripercorrere il cammino dei suoi genitori: lottare per sopravvivere cercando raccolti in un terreno sempre più arido, con la speranza che terminassero anche le carestie causate dalle continue contese per il possesso del porto e del castello da parte di Firenze e di altre signorie. Inoltre doveva sperare che dalle imbarcazioni di passaggio non sbarcassero insieme alle merci dei furfanti, ma soprattutto delle persone affette da qualche male. Sempre più spesso negli ultimi anni venivano fatti scendere marinai o passeggeri bisognosi di cure, ma questi talvolta non facevano in tempo neppure ad arrivare all’abbazia. Dopo poco però nel borgo si scatenava l’inferno, febbri accompagnate da brividi di freddo e nel giro di pochi giorni i malcapitati morivano in mezzo ai propri escrementi. Oppure, e questo succedeva nei periodi invernali, alla febbre si aggiungevano colpi di tosse e difficoltà respiratorie, il decorso della malattia era diverso, ma il risultato era quasi sempre il medesimo.
Chi si ammalava aveva poche possibilità di sopravvivenza; sua madre, l’ultimo componente della famiglia che gli era rimasto, era deceduta durante quell’inverno a seguito di una di queste epidemie. Poco prima di morire gli aveva detto che quel tipo di malattia non era la prima volta che colpiva gli abitanti di Vada: era una specie di peste, meno evidente di quella che fa venire il bubbone, ma altrettanto terribile, poiché colpiva i polmoni e le vie respiratorie.
Erano epidemie improvvise, che duravano qualche settimana e che improvvisamente sparivano quasi fossero soddisfatte del numero di lutti causati, per poi, però, ritornare.
Filippo aveva ventidue anni, sapeva coltivare, allevare piccoli animali da cortile, cacciare ed anche pescare. La vicinanza al mare rendeva tale mestiere una opportunità in più per campare. Era stato alcuni anni prima imbarcato al servizio di un pescatore da cui aveva imparato molto su come, dove, ma soprattutto quando pescare. L’uomo, seppure ancora giovane, era abile nell’interpretare i segnali del tempo, raramente non riusciva a prevedere una burrasca o i periodi favorevoli per i vari tipi di pesca e Filippo aveva appreso volentieri e con facilità questi segreti.
La partenza di suo fratello Guido, imbarcato su una galea che non aveva fatto più ritorno, lo aveva costretto a ritornare a tempo pieno al lavoro nei campi, dove applicò le rudimentali lezioni di previsione del tempo. Riuscì anche ad affinare le sue competenze cercando d’interpretare il comportamento degli animali. E proprio pensando a quella volta che, per aver interpretato erroneamente un comportamento strano degli animali, rischiò di perdere il momento più favorevole della semina, cacciò i tristi pensieri, sorrise del suo errore e dello scampato pericolo e giunse in prossimità della lunga siepe di tamerici che divideva e proteggeva per tutto il litorale i terreni coltivati.
Il rumore della risacca era ancora forte, il vento si era quietato soltanto la sera prima e la spiaggia era stata spianata dal mare che vi aveva lasciato un gran numero di rami, piccoli tronchi e moltissime conchiglie. Filippo respirò a fondo quel gradevole odore di salsedine che gli ricordava i suoi trascorsi marinari ed impiegò poco tempo a trovare ciò che lo aveva spinto fino lì.
Quello che vide era una grossa conchiglia coperta per metà dalla sabbia. La raccolse, la pulì accuratamente prima con le mani e poi strofinandola sui pantaloni, dopodiché la esaminò con cura da entrambi i lati. L’interno di madreperla luccicava al sole con le sue venature iridate, mentre l’esterno presentava moltissimi solchi equidistanti che seguivano il bordo, come i tanti scalini del sagrato della chiesa dell’abbazia. Questo fu quello che Filippo pensò e proprio lì, nell’abbazia di San Quirico aveva fatto il voto di compiere un pellegrinaggio se si fosse salvato dall’ultima epidemia che lo aveva lasciato unico componente della sua famiglia.
All’inizio il voto era stato generico, era giunto all’abbazia trafelato, aveva pregato per sé e la madre oramai morente. La meta del pellegrinaggio cominciò a maturare nel periodo successivo al suo scampato pericolo e passati due mesi ritenne fosse arrivato il momento di mantenere fede alla promessa.
Aveva visto pellegrini in sosta al porto alla volta di Roma, ma diventare un romeo non gli pareva un così grande sacrificio, neppure facendo il viaggio via terra. Il viaggio d’andata sarebbe durato da tre a quattro settimane, mentre via mare sarebbe stato ancora più veloce e meno faticoso.
Aveva sentito parlare di altre persone che si erano recate in Terra Santa, questo viaggio lo affascinava, ma lo trovava troppo impegnativo e pericoloso. Andare a Gerusalemme significava correre il rischio di lasciare la casa e i campi per più di un anno, senza contare che la città e quei luoghi santi, da molto tempo non erano più sotto il controllo dei cristiani.
Fu proprio l’ultima domenica di gennaio che, parlando con un frate dell’abbazia venuto a trovare il nuovo pievano di Vada, venne a conoscenza di un altro possibile pellegrinaggio.
Frate Juan in quella occasione gli disse: “Perché non vai dove riposano le ossa di Santiago, è meta da secoli di un intenso pellegrinaggio, una devozione che si può capire solamente andando a pregare sulle sacre reliquie dell’apostolo.” Filippo incalzò di domande il frate che in qualche maniera, conoscendo poco il linguaggio del vadese, riuscì a spiegarsi: “Figliolo serve una conchiglia come collana, un bordone ed abiti e calzari resistenti.” La collana era una sorta di distintivo per tutti i pellegrini alla volta di Santiago di Compostela, il bastone sarebbe servito come sollievo fisico nel lungo cammino, ma anche come aiuto psicologico sul quale, nei momenti di sconforto, avrebbe giunto le mani e pregato.
Inoltre frate Juan gli spiegò che la prima tappa doveva essere Altopascio raggiungibile dall’abbazia passando per il Castello di Lari e di lì in poi avrebbe dovuto informarsi. “Caro Felipe, là troverai un grande Ospedale dove vi albergano viandanti di tutti i generi: cavalieri, mercanti e sicuramente dei pellegrini diretti verso Roma. Tu devi fare la stessa loro strada, solamente nel senso opposto, verso il Nord, passando attraverso la parte meridionale della Francia per arrivare ad Ovest della Spagna ai confini del mondo, dove finisce la Terra.”
Tutte queste informazioni inizialmente vennero capite solo in parte da Filippo, ma intuì che il viaggio doveva essere lungo e non privo di pericoli e difficoltà. Si rivolse allora verso il frate con maggiore attenzione, cercando con i suoi occhi di cogliere ogni gesto mimico dello spagnolo; le sue orecchie erano pronte a valutare ogni cambio di tonalità della voce, in questo modo cercava di superare i problemi di linguaggio, ma soprattutto quelli derivanti dalla sua ignoranza. Non conosceva il latino per comunicare, non sapeva né leggere, né scrivere e non si era mai recato neppure al Castello di Lari.
Pensando a tutti questi suoi limiti disse: “Come mai potrò raggiungere una tale meta! Io non conosco niente del mondo al di fuori di questo posto…” Lo interruppe il frate rimproverandolo di voler intraprendere un viaggio come ringraziamento a Dio e contemporaneamente dubitare della potenza della fede in Lui ed ignorare che in suo nome tutto è possibile. “Come credi” disse: “che la moltitudine di pellegrini, che da secoli percorrono le strade del mondo, sia arrivata alla meta. La maggior parte sono come te, la loro forza sono la fede e la piena convinzione che ciò che fanno servirà loro nella vita eterna!”
Con un fare dimesso Filippo baciò l’orlo del saio, quelle parole dure lo avevano convinto su ciò che doveva fare e appena salutato il frate, il giovane cominciò a pensare al modo di organizzare la partenza per Santiago.
Due giorni dopo chiese udienza all’abate per metterlo al corrente della sua decisione. Non se la sentiva di parlare col nuovo pievano di Vada che da poco aveva sostituito quello che l’ultima pestilenza si era portato via ed era convinto che l’abate avrebbe accolto con entusiasmo le sue proposte.
Questi era diventato un uomo molto pratico, i tanti anni a capo dell’abbazia lo avevano visto alle prese con problemi non solo di ordine religioso, ma soprattutto di tipo economico quali: le decime, le offerte, le donazioni in cambio di una speranza di Paradiso, ma soprattutto le questioni relative gli affittuari morosi, sempre alle prese con cattivi raccolti. Erano lontani i tempi quando, giovane novizio si era recato in Terra Santa e al suo ritorno, ordinato sacerdote, si era distinto per la sua devozione e i suoi slanci mistici.
Appena Filippo, con lo sguardo sul pavimento, ebbe finito di dire tutto di un fiato le sue intenzioni, il priore con tono sconcertato iniziò a parlare: “Non sai cosa stai dicendo, o meglio non ti rendi conto cosa hai intenzione di fare.”
Seguì una lunga pausa che Filippo avrebbe voluto interrompere spiegando come avrebbe affrontato tutto, oramai sicuro della bontà del suo progetto. Non lo fece perché lo riteneva inopportuno e scortese ed aspettando che il frate iniziasse nuovamente a parlare venne attratto dal lastricato in pietra del pavimento. Uno così gli avrebbe fatto comodo in casa sua dove c’era un selciato in terra battuta. Quando il frate riprese la parola inaspettatamente il suo tono era cambiato, l’entusiasmo di Filippo gli aveva ricordato i suoi slanci giovanili e la sua avventura in Terra Santa. Ormai vecchio, avendo speso molto del suo tempo in questioni venali ed avendo dovuto assumere, suo malgrado, atteggiamenti poco caritatevoli, quell’idea lo riportava ai suoi ideali di giovane servitore di Dio.
L’esigere il rispetto delle corvè, la riscossione delle prebende, che si era fatta sempre più esosa, l’intolleranza dell’Arcivescovado davanti alle sue giustificazioni per l’esiguità dei tributi raccolti nonostante l’estensione dei terreni dell’abbazia e le conseguenti accuse che gli venivano mosse di non saper far rispettare i contratti di affitto, lo affliggevano ormai da lungo tempo.
Volle sapere i motivi di questa decisione e lo mise in guardia sui pericoli che avrebbe incontrato, ma questa volta lo fece con la volontà di aiutarlo piuttosto che di persuaderlo a rinunciare.
Filippo ottenne la sospensione temporanea del contratto di affitto dei terreni e cedendo l’uso della sua dimora all’abbazia ne ricavò in anticipo il corrispondente in denaro. Il termine temporale di questo accordo era la Pasqua dell’anno successivo. In cambio doveva trovare un sostituto che garantisse all’abbazia le decime dei raccolti di giugno e della vendemmia di settembre. Inoltre nel caso in cui il suo ritorno si fosse protratto oltre il tempo stabilito, per quel periodo tutti i suoi beni sarebbero passati in custodia al monastero con diritto di completo e temporaneo usufrutto.
Trovare un sostituto fu abbastanza semplice e da questo ottenne in anticipo i denari per l’affitto della porzione di terra di sua proprietà. In realtà Filippo fu pagato solo in parte con moneta, la restante venne saldata con un paio di calzari, un cappello a larga falda utile per ripararsi dalla pioggia e dal sole e un pesante mantello ancora in buono stato sul quale mise a tracolla la grossa bisaccia usata da sua madre per andare al mercato.

[continua]

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