Per un pomeriggio d’amore

di

Giuseppe D'Uva Cifelli


Giuseppe D'Uva Cifelli - Per un pomeriggio d’amore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 338 - Euro 17,50
ISBN 978-88-6037-9153

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In copertina fotografia di Giuseppe D’Uva Cifelli


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 9° classificato al Premio Francesco Moro – Sartirana Lomellina 2007 con la poesia L’adolescenza negata


Gli ostacoli, che i due giovani ed avvenenti protagonisti di questa vicenda – Diego e Dalia – si trovano di fronte, sin dai loro primi e non sempre idilliaci contatti, sembrano acuirsi e moltiplicarsi all’indomani di un pomeriggio d’amore, quando Diego, oltre a versare in pericolo di vita, si ritrova coinvolto in un omicidio, perpetrato nella stessa casa in collina, ove i due hanno consumato il loro primo incontro amoroso.
Dopo varie ed incresciose peripezie, in cui vengono trascinati anche altri personaggi, solo l’amore riesce a risolvere, sia pure casualmente ed in modo del tutto imprevisto, il misterioso caso.


I fatti, i personaggi e le due località abruzzesi, di cui si parla in questo romanzo, sono frutto esclusivo della fantasia dell’autore


Per un pomeriggio d’amore

A mia moglie Ortensia, alla quale devo amore,
affetto e gratitudine per avere condiviso con me
circa cinquant’anni di vita, allietati dalla nascita
di tre splendidi figli e di tre meravigliosi nipoti.


LA SOLA COSA CERTA

Non so se l’alba rivedrò domani,
se stringere ancora potrò le tue mani,
se, dopo gli ultimi fatali istanti,
rancori lascerò oppur rimpianti;
non so se al giorno seguirà la notte,
se, giunto a sera, avrò le scarpe rotte;
non so se l’acqua, che sorge dal monte
e, cristallina, alimenta ogni fonte,
continuerà, come sempre, a sgorgare
o, d’improvviso, si potrà essiccare;
non so se gli alberi vedrò fiorire,
o i virgulti, anzitempo, appassire;
non so quando il sole, che lassù splende,
sopra la terra calerà le tende.
Nessuna cosa so con sicurezza,
poiché di nulla al mondo v’è certezza,
tanto che, stanco, ad aspettare resto
il divenir, sempre più buio e incerto.
Ma, forte e scevro di dubbio e timore,
c’è un sentimento, racchiuso nel cuore,
quel sentimento, che si chiama amore,
che il mondo fa girare e che mai muore.

(Dalla terza raccolta di poesie e sonetti dello stesso autore)


CAPITOLO 1

“Ce la puoi mettere tutta, ma non riuscirai a battermi” disse con aria canzonatoria Katia, ansimando e accompagnando le parole con un movimento del capo, che le fece svolazzare i luminosi capelli dai riflessi dorati.
“Non mi provocare, amica, perché se mi ci metto ti faccio mangiare la polvere…” la rimbeccò Dalia, mantenendo invariato il ritmo della respirazione e continuando a muovere con regolarità e grazia i piedi nudi, che si sollevavano leggeri dal terreno per ricadervi con estrema rapidità.
Le due ragazze in calzoncini e maglietta, l’una bionda con grandi occhi d’un castano chiaro, l’altra bruna con occhi che sembravano avere il colore del cielo in un mattino sereno, correvano quasi appaiate sulla pista in terra battuta che, per la lunghezza di circa due chilometri, si stendeva a guisa di un grosso anello intorno al lago, le cui acque brillavano argentee sotto i raggi del sole.
Quella, in cui le due amiche si stavano cimentando, era una delle varie attività sportive dilettantistiche, cui si dedicavano di solito molti giovani della città abruzzese di Carco, durante le vacanze estive che, in quell’anno 1997, erano iniziate per le scuole superiori il 15 giugno.
Mentre Katia e Dalia si misuravano nella corsa, aspettando ciascuna il momento propizio per superare l’altra, altri ragazzi si stavano impegnando nel lago in gare di nuoto ed altri ancora, con indosso soltanto i calzoncini, si accanivano a pigiare i pedali delle loro biciclette, facendo girare le gambe come manovelle.
In un angolo appartato, distesi su ampi asciugamani di spugna, un giovanotto alto, dal colorito bruno, dal volto volitivo e dai capelli neri come l’ebano ed un altro, di carnagione chiara e dai capelli tendenti al rosso, si lasciavano abbronzare al sole, scambiandosi opinioni sulla situazione politica del momento. Non erano frequentatori abituali del luogo, ma quel sabato mattina, 21 giugno del 1997, liberi da impegni di lavoro, si erano incamminati verso la valle del lago – come il posto era chiamato dai residenti – per rilassarsi con una salutare nuotata e riempirsi gli occhi delle bellezze locali. Ad un certo punto la loro attenzione fu attratta dalle due fanciulle che, come gazzelle, continuavano a correre indisturbate, con grazia ed agilità. Quando le videro sfrecciare, a pochi metri di distanza, scattarono in piedi quasi all’unisono per meglio ammirare lo spettacolo offerto da quelle incantevoli gambe nude e tenersi pronti ad applaudire non appena la corsa si fosse conclusa.
Quello più alto, dalla carnagione scura e dal fisico asciutto e muscoloso, che rispondeva al nome di Diego, diede di gomito all’altro:
“Scommetto che vincerà la bruna.”
“Per me ti sbagli” fece il rosso, di nome Claudio “io dico che a spuntarla sarà quasi certamente la bionda che, come vedi, sta già guadagnando terreno…”
“Eppure resto della mia idea: la bruna…”
La ragazza bruna, come avesse avvertito la fiducia che qualcuno riponeva in lei, allungò la falcata fino a raggiungere la bionda, che affiancò e poi superò senza eccessiva fatica, dato che prima aveva fatto buon uso delle proprie energie.
“Che ti dicevo?” gridò entusiasta Diego.
“Non cantare vittoria, la corsa non è ancora finita…”
Ormai, la giovane dalla figura slanciata e dai lunghi capelli neri, che ondeggiavano a destra e a manca in sintonia con i movimenti delle gambe, aveva distanziato l’amica di circa cinque metri e correva sempre più veloce verso la striscia di gesso bianco, tracciata sul terreno a delimitare l’arrivo.
I due scommettitori, col fiato sospeso, tenevano gli occhi puntati sulle accaldate podiste, in attesa dell’esito finale della gara, ma proprio quando la bella bruna era ad una manciata di passi dal traguardo, alzarono le braccia in una sincronia di movimenti, emettendo contrastanti esclamazioni.
“No!… Accidenti! Ti pareva che non si verificasse un così stupido imprevisto!…” imprecò Diego tra il riso e la rabbia.
L’imprevisto si era presentato sotto l’aspetto di un grosso cane pastore che, richiamato da un fischio emesso da qualcuno, attraversò come un fulmine la pista tagliando bruscamente la strada all’incolpevole ragazza, che cadde faccia a terra con un urlo di dolore. Tale imprevisto, se da un lato indusse Katia a fermarsi stremata e a chinarsi sull’amica per soccorrerla, dall’altro fu un valido pretesto per i due giovani in attesa, che scattarono, come molle, verso il luogo dell’accaduto.
“Ti sei fatta male?” chiese premuroso Diego, piegatosi sulle ginocchia a lato della ragazza, che giaceva a terra lamentandosi.
“Possiamo essere d’aiuto?” intervenne, a sua volta Claudio, indirizzando lo sguardo alla ragazza bionda che, ancora con il fiatone per lo sforzo finale, s’era seduta a terra vicino all’amica.
“Scusate, ma voi siete forse della polizia civica?” domandò Katia ricambiando lo sguardo del giovane che la stava osservando.
“Niente del genere, siamo soltanto due occasionali fans delle vostre prestazioni agonistiche e ci spiace che la…signorina sia caduta proprio mentre stava per tagliare il traguardo” fu la risposta di Diego che, intanto, cercava di prodigarsi nel tentativo di aiutare la ragazza a rialzarsi.
Questa, per la prima volta dopo l’inopportuno atterraggio, sollevò il viso grazioso ma sporco di terra, fissò il giovane che la sovrastava e, strizzando gli occhi, mormorò:
“Grazie per l’interessamento, anche se mi vergogno un po’ per la rovinosa caduta, che forse avrei potuto evitare se fossi stata più attenta…”
“La colpa è stata tutta di quel birbone di cane, invidioso della vittoria, che ormai avevi in pugno…” scherzò il simpatico Diego, “giuro che se lo dovessi rivedere nessuno potrebbe trattenermi dal rompergli il collo.”
“Più che al cane, la colpa la darei al padrone, che gli ha lanciato quel fischio di richiamo nel momento meno opportuno” intervenne Claudio.
“Allora vuol dire che romperò il collo sia al cane sia al padrone, non appena mi capiteranno a tiro” replicò l’amico.
“Oddio, non mi fate ridere…” disse la ragazza, mentre con la mano sinistra si toglieva il terriccio dal volto e col palmo della destra inchiodato a terra faceva sforzi per rialzarsi. Vedendo che non vi riusciva, i due giovani la presero per le ascelle e la tirarono su delicatamente, non senza preoccupazione per i gridolini di dolore che andava emettendo.
“Ahi!… Ahi! piano, per favore, sento dolore al ginocchio sinistro”
“Penso che sia, più che altro, l’effetto dell’imbatto sul terreno…”azzardò Claudio.
“Ecco, possiamo stare tranquilli, ora che il grande ortopedico ha emesso la diagnosi” affermò con un sorriso beffardo Diego, che poi con mutato e più affabile tono di voce chiese alla giovane se ce la facesse a camminare.
“Sento dolore ad appoggiare il piede a terra” rispose.
“Allora è meglio portarti da un medico, non sarà nulla, ma in questi casi, chi si preoccupa non è detto che sbagli” sentenziò deciso Diego che, dopo aver dato le chiavi al compagno, gli chiese di andare a prendergli l’auto, parcheggiata a circa un duecento metri di distanza e di portarla sul bordo della strada. Poi, mentre Katia si avviava anche lei verso l’auto, Diego senza indugio si caricò sulle braccia la bella infortunata e s’incamminò in direzione del prato, ove stazionavano quattro o cinque auto ed una mezza dozzina di biciclette.
“Ma, cosa fa?…” protestò la fanciulla, “mi metta subito giù… Chi le dà tanto ardire da prendermi in braccio, visto che non la conosco nemmeno.”
Uno sconosciuto che, occasionalmente, si trovò ad assistere a quella scena, pensando che la ragazza si trovasse alle prese con un malintenzionato, si avvicinò e disse:
“Signorina, ha forse bisogno di aiuto?”
“Di che s’impiccia lei, la signorina è una mia amica” fece bruscamente Diego, guardando l’intruso di traverso.
“Sì, siamo amici, quindi non si preoccupi. Comunque grazie” fu la risposta di Dalia.
“Così l’hai pure ringraziato” borbottò sarcasticamente lui, dopo che lo sconosciuto si fu allontanato.
“Beh, è stato gentile a preoccuparsi…”
“Brava, con quello ti mostri cortese e a me chiedi chi mi dà l’ardire di… aiutarti. Ebbene sai chi me lo dà quest’ardire? lo stato di necessità, considerato che non sei in grado di camminare da sola. Quanto al fatto che non mi conosci, mi presento subito, ma prima devo dirti che non ti permetto assolutamente di darmi del lei, capito?” aggiunse in tono che non ammetteva repliche, “ho solo venticinque anni, per cui non penso di essere un vecchio bacucco.”
“No, non è un vecchio bacucco, ma penso che solo tra amici ci si possa dare del tu… a prescindere dall’età.”
“Accidenti, come sei schizzinosa! Ma, visto che ti ho soccorsa e che ti sto portando in braccio, ti costa molto considerarmi tuo amico?”
“Vedo che con… te c’è poco da discutere. Comunque grazie per l’aiuto che, spero, sia disinteressato… Io mi chiamo Dalia Vallesi, ho vent’anni e frequento il secondo anno della Facoltà di giurisprudenza.”
“Ottima presentazione; ora tocca a me: mi chiamo Diego Mastronardi, sono geometra al Comune e frequento, a tempo perso, la Facoltà di Architettura.”
La conversazione tra i due, piacevole e stimolante, non ebbe modo di proseguire a seguito del sopraggiungere dell’auto, una Panda di colore blu metallizzato, che l’amico Claudio era andato a prendere dal parcheggio e che arrestò ad appena un metro di distanza da loro.
I due amici sollevarono quasi di peso la ragazza azzoppata e la sistemarono sul sedile anteriore di destra, che era stato spostato all’indietro per consentire all’ospite più spazio per le gambe. Con Diego al volante e Katia e Claudio seduti sul divanetto posteriore, l’auto, lasciatasi alle spalle la valle del lago, iniziò la sua corsa attraverso la strada provinciale, in leggera salita, per arrestarsi dopo un paio di chilometri davanti ad un edificio in mattoni rossi, ove aveva sede il Poliambulatorio che, dopo l’ospedale civico, era il solo presidio sanitario di cui gli abitanti di Carco disponevano. Con le stesse precauzioni usate per farla salire in macchina, Dalia fu accompagnata all’interno e fatta accomodare su una delle panchine antistanti lo studio dello specialista in ortopedia. Qui, i pazienti in attesa erano tre, di cui una donna, un ragazzo accompagnato dal padre ed un uomo anziano con un piede ingessato.
“Cara, non ti sembra che dovremmo avvisare i tuoi?” suggerì Katia ponendo una mano sulla spalla dell’amica.
“Sai bene che sono entrambi a scuola, impegnati con i preliminari delle imminenti operazioni di esame. Li avviserò quando torneranno a casa” rispose l’interpellata.
Mentre aspettavano il loro turno, il giovane dai capelli sfumati di rosso, guardando soprattutto Katia, si presentò dicendo:
“Scusate se non l’ho fatto prima, mi chiamo Claudio Neri e sono un collega, oltre che un amico di Diego”
“Ed io sono Katia Valeri, amica e compagna di studi di Dalia” precisò la ragazza bionda, stringendo la mano ai due ragazzi.
“Sono contento di conoscerti, Katia. Io, come ho già detto alla tua amica, mi chiamo Diego Mastronardi” fece il ragazzo bruno “e ti autorizzo a darmi del tu.”
Risero e chiacchierarono fino a quando la signorina Vallesi non fu invitata ad entrare nello studio dello specialista.
A casa, quel giorno, Dalia fu riportata in macchina dopo le ore quattordici, con la gamba sinistra ingessata dal ginocchio al piede, quale rimedio alla lussazione femore-tibiale, che le era stata riscontrata.
Il professor Ugo Vallesi e sua moglie, professoressa Stefania Loriero da poco rientrati dalle rispettive scuole, accolsero la figlia con una serie di esclamazioni, che esprimevano tutta la loro apprensione:
“Mio Dio, che cosa ti è successo, figliola?”
“Perché hai la gamba ingessata? Sei caduta?” continuava a chiedere mamma Stefania che, notando i tre accompagnatori della figlia, rivolse la stessa domanda anche a loro ed, in particolare, a Katia che conosceva da molto tempo.
Dalia, dopo aver presentato ai suoi i due volenterosi soccorritori, prese posto sulla comoda poltrona, che la madre le aveva avvicinata e raccontò, alternando espressioni di rabbia ed umorismo, il buffo incidente che le era occorso quella mattina.
“Papà, non ti arrabbiare, so che poteva succedermi di peggio, ma per fortuna è andata bene.”
“Non sono arrabbiato, mi rincresce per te, che dovrai trascorrere buona parte delle vacanze, mezzo immobilizzata.”
“Non ti preoccupare, papà, me la caverò comunque e poi potrò sempre contare su Katia e su…”
“E su di noi…” la prevenne Diego che, insieme all’amico Claudio, si stava apprestando a salutare ed andare via.
“Veramente, intendevo riferirmi a mia cugina Chiara…” lo corresse Dalia lanciandogli uno sguardo indagatore, che il giovane ricambiò con un sorriso ammiccante.
Poco dopo, andati via gli ospiti, Dalia pranzò con i genitori e, prima di ritirarsi in camera sua, ebbe cura di prendere, sciolto in mezzo bicchiere d’acqua, il contenuto della prima delle venti bustine di un medicinale antinfiammatorio, che le era stato prescritto. Passò il resto della giornata distesa sul suo lettino, a guardare la televisione e a meditare su quello stupido incidente che le avrebbe impedito di recarsi, con la cugina e con Katia, a visitare la Grecia, così come avevano programmato sin dalla scorsa estate. Intanto, mentre la mamma rimase a farle compagnia, nonostante avesse impegni fuori casa, il babbo uscì per andare a comperare un paio di stampelle canadesi.
L’ortopedico, come Dalia confusamente ricordava, aveva detto che il gesso non poteva essere tolto prima di un mese e non aveva dato affatto per scontato che, una volta rimosso, lei avrebbe potuto riprendere subito a camminare.
“Dovremo fare una nuova radiografia ed applicarle, eventualmente, un gesso più leggero” aveva sentenziato il professionista in camice bianco che poi, per tranquillizzarla, aveva aggiunto: “se, come mi auguro, la tibia riprenderà la sua naturale collocazione, dovrà sottoporsi, per quindici-venti giorni, ad una terapia di massaggi, dopo di che potrà riprendere, gradualmente, a correre.”
A ben pensarci, forse il medico non si era espresso negli stessi termini, ma il succo del discorso era sostanzialmente quello, cioè una bella scocciatura. Alla mamma, che cercava di rincuorarla, rispose sospirando:
“Pazienza, vuol dire che, per una quarantina di giorni, invece di darmi alla bella vita, mi dedicherò allo studio e alla…meditazione vale a dire all’ozio creativo.”
“Brava, mi fa piacere che tu la prenda con spirito, ma l’ozio creativo, come tu lo chiami, non ti sembra una contraddizione in termini, ossia una specie di ossimoro?”
“No, mamma, perché io intendo l’ozio del corpo, non quello della mente e dell’immaginazione…” Risero entrambe di quella battuta e di altre facezie, che si scambiarono fino a quando la mamma ritenne di lasciarla riposare.
“Scusami cara, vado di là a completare i verbali, che dovrò consegnare a scuola entro la prossima settimana. Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. Sappi che ti voglio un mondo di bene, tesoro.”
“Anch’io, mamma, te ne voglio tanto” le rispose ricambiando l’abbraccio materno.
Sdraiata sul lettino, con due cuscini sotto il capo, la giovane, una volta sola, si concentrò nella visione di un film d’azione, che la televisione stava mandando in onda, ma, via via che le immagini scorrevano gli occhi le si appannavano e, senza che se ne accorgesse, fu presto sopraffatta dal sonno.
Si svegliò, con un fastidioso prurito alla gamba ingessata, che erano già passate le sei del pomeriggio. Dopo aver scambiato qualche frase con i genitori – che erano venuti a chiederle come si sentisse – il suo primo pensiero fu quello di telefonare alla zia Evelina e alla cugina Chiara. Queste, messe al corrente dell’incidente, vollero sapere ogni particolare e promisero che l’indomani mattina sarebbero venute a trovarla. Ebbe appena il tempo di riposizionare il telefono sul comodino, che uno squillo la costrinse a riprenderlo in mano e a portarselo all’orecchio:
“Ciao, come va l’infortunata? ”la voce di Katia la subissò di domande e di impressioni su quei due simpatici ragazzi che, a suo dire, erano stati molto gentili e premurosi, tanto che, prima di accompagnarla a casa, avevano insistito perché prendesse qualcosa con loro alla “Tavola calda” di Via Oberdan, la strada nella quale abitava Diego.
“E… tu hai accettato?”
“Beh! sì… Non vedo perché avrei dovuto rifiutare… mi sono sembrati due ragazzi per bene.”
“Certo… però, poche ore non bastano per conoscere le persone…”
“Vedrai che ti ricrederai… Anzi, a proposito di Diego, volevo dirti che mi ha chiesto il tuo numero di cellulare…”
“E tu gliel’hai dato?…” chiese, interessata.
“Naturalmente no. Gli ho detto che avrebbe dovuto chiederlo personalmente a te.”
“Hai fatto bene. Comunque, se vuole mettersi in contatto con me, non gli occorre il mio numero di cellulare. Conosce ormai l’indirizzo di casa, per cui sa dove trovarmi…”
“Sono certa che si farà vivo presto” affermò con un sorrisino Katia, che concluse la conversazione con: “A presto, cara.”
Quella sera Dalia, non riuscendo a prendere sonno, a causa soprattutto del fastidio che le procurava la rigidità in cui era costretto il suo ginocchio sinistro, ripercorse mentalmente gli avvenimenti della mattinata, rodendosi dalla rabbia per essere inciampata in quel grosso cane, che le aveva compromesso le vacanze. Di chi la colpa? Forse di se stessa, che non aveva saputo resistere alla vanità di battere ancora una volta Katia. Ma, forse, si disse, così doveva andare. In compenso, però, aveva conosciuto due nuovi amici e, in particolare Diego. A dire il vero, quest’ultimo le era sembrato, in un primo tempo, piuttosto indisponente e spocchioso, anche se poi si era mostrato premuroso nel prenderla in braccio e portarla sino alla macchina. Per quanto non volesse pensarci, non riusciva a dimenticare la sensazione provata quando l’aveva sollevata da terra, con forza e delicatezza nello stesso tempo e le mani di lui erano venute in contatto con il suo corpo. Ma che tipo era davvero? Forse uno dei tanti bellimbusti, che vogliono solo far colpo sulle ragazze? Avrebbe avuto modo e tempo di scoprirlo se, come aveva detto Katia, si fosse fatto ancora vivo.
La mattina successiva, la prima dopo il lieve infortunio, fu abbastanza movimentata: per primo, arrivò il dottor Franco Geraci, medico di base ed amico del professor Vallesi, il quale le diede, tra l’altro, utili consigli tra cui quello di esercitarsi a camminare con le stampelle per evitare che le s’indebolisse la gamba sana. Poi, fu la volta della cugina Chiara e della zia Evelina (sorella maggiore della mamma), seguite ben presto da Katia, che era venuta con una comune compagna di studi.
Le effusioni, le premure, gli abbracci e gl’incitamenti a non abbattersi, cui si abbandonarono zia e cugina, ebbero il deciso sopravvento sul tentativo di approccio delle amiche, che rimasero in paziente attesa del loro turno. Quando il trambusto, con il conseguente scambio di notizie, sembrò essersi calmato, Chiara e Katia aiutarono Dalia nelle pulizie personali e poi le fecero indossare un pantalone, opportunamente adattato dalla signora Stefania.
Mentre questa discuteva animatamente con la sorella intorno al tavolo del soggiorno, Dalia ammiccò verso Katia e le chiese a bassa voce:
“Ti ha più chiesto mie notizie?…”
“Non ancora, perché non l’ho più visto ma, ti ripeto, se veramente è interessato a te, come ho potuto capire…”
“E chi ti dice che io sia interessata a lui?”
“Santo cielo! Ma, allora… perché mi chiedi sue notizie?”
“Così… Sì zia, grazie, ma senza fretta” rispose poi, confusa, ad Evelina, quando s’accorse che le stava chiedendo se gradiva, per il giorno dopo, uno dei suoi dolci caserecci.
Fu soltanto nel tardo pomeriggio, quando le visitatrici se n’erano andate da un pezzo ed il babbo era uscito per delle commissioni, che Dalia ebbe modo di rivedere il suo intraprendente soccorritore. Andò ad aprirgli, dopo un flebile trillo del campanello della porta, la Signora Stefania.
“Buongiorno, Signora” esordì con un inchino il visitatore, “se non disturbo, vorrei chiedere notizie della signorina…”
“S’accomodi… un attimo solo che chiedo a mia figlia…”
“Mamma, fallo entrare…” rispose l’interessata dalla sua camera, chiudendo il libro che stava leggendo.
“Mi segua, prego” fece la padrona di casa, guardando di sottecchi il giovane, elegantemente vestito, che recava in mano un fascio di garofani bianchi.
Quando fu alla presenza della ragazza, che sedeva su una poltrona di velluto cremisi con un libro in mano e la gamba ingessata appoggiata su uno sgabello, Diego si curvò leggermente in avanti e, con fare artatamente cerimonioso, disse:
“Questi fiori sono un modesto omaggio alla bravura d’una bella e sfortunata atleta, cui un esecrabile cagnaccio ha negato la vittoria…”
“Se mi avesse negato solo quella sarebbe stato niente, il fatto è che mi ha… azzoppata” poi, rivolgendosi alla mamma, riprese seria: ”mamma, questo signore, subito dopo l’incidente, si è prodigato per me, tanto che senza il suo aiuto e quello del suo amico, che tu hai già conosciuto, Katia ed io avremmo dovuto chiamare l’ambulanza.”
“Ma quale signore… Sono solo Diego, Diego Mastronardi e non ho fatto nulla di eccezionale, Signora. Comunque, le faccio i miei complimenti per essere, così giovane, la madre di una gran brava e bella ragazza…”
“Grazie… Ma non occorrono complimenti” fece Stefania, prendendogli i fiori dalle mani “li vado a mettere in un vaso e, intanto, vi preparo un tè.”
“La ringrazio dei fiori e d’essere venuto a trovarmi, anche se non ne aveva alcun obbligo” fece Dalia, quando la mamma fu uscita dalla camera.
“Vedo che ci risiamo! Hai già dimenticato che ti avevo proibito di darmi del lei?”
“Scusami, ma ci conosciamo da così poco tempo…”
“Non è il tempo che conta in certi casi e… poi hai ragione che non avevo alcun obbligo di venire…”
“Allora, perché l’hai fatto?” chiese, alquanto risentita, la ragazza gettando sul lettino il libro che aveva in mano.
“Perché, vuoi sapere? Ma perché ne avevo voglia, perché altro? Desideravo soprattutto rivederti per avere la certezza che fossi proprio tu la fanciulla, che ieri si è lasciata prendere in braccio da me…” rise il giovane guardandola intensamente negli occhi.
“Non essere ipocrita, sai bene che non sono stata io a chiedertelo…” rispose in tono volutamente sostenuto.
“A dire il vero, non ricordo di chi sia stata l’iniziativa…” scherzò Diego “ma quello che conta è che tu mi conceda d’ora in avanti la tua amicizia. Chiedo troppo?”
“Volentieri, se me lo chiedi in modo disinteressato. Se non altro ti devo della riconoscenza…”
“Accidenti, ricominciamo con le sciocchezze. Non mi devi proprio niente e, poi è la seconda volta che sospetti, nei miei modi di fare, chissà quale interesse. Ma chi credi che io sia?…”
“Voglio solo credere che tu sia davvero un bravo ragazzo e, presto, un buon amico.”
“Te lo dimostrerò, se me lo consentirai.”
“Dalia, spero che il tuo… amico voglia gradire una tazza di tè” annunciò la signora Stefania, rientrando nella stanza con un vassoio recante due tazze, una cuccuma ed una zuccheriera.
“Grazie, signora… è davvero molto gentile” esclamò, compito, Diego servendosi solo dopo avere riempito una tazza, che porse a Dalia.
Passò così anche la seconda giornata di relativa immobilità della signorina Vallesi la quale, dopo la visita del nuovo amico, si sentì più sollevata e più decisa ad affrontare quella piccola avversità.

[continua]

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