La morte dopo la cura

di

Giuseppe Diomede


Giuseppe Diomede - La morte dopo la cura
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 300 - Euro 16,30
ISBN 978-88-6037-9306

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In Copertina: «Diabolik» © liorovati – Fotolia.com


Ascolta l’intervista a Giuseppe Diomede trasmessa da Radio 101


Prefazione

“La morte dopo la cura” di Giuseppe Diomede è un romanzo avvincente che contiene gli ingredienti narrativi per sorprendere ed appassionare il lettore dalla prima all’ultima pagina, senza lasciare spazio a momenti di latenza, mai dimenticando di seguire un ritmo incalzante che conduce a scoprire la “verità”.
Giuseppe Diomede, con la sua scrittura densa ed intensa, rende concreta l’intera architettura grazie a riferimenti psicologici relativi ai vari personaggi, utilizzando precise immagini intervallate da varietà di registri, prima drammatico con la misteriosa morte di una donna, passando poi a risvolti emotivo sentimentali, ed infine, seguendo la trama di una indagine investigativa che si dipana tra una serie imprevedibile di eventi e colpi di scena.
Tutto ha inizio con la morte sospetta di Sara, rappresentante farmaceutica, donna idealista e “pura di cuore”, che rimane vittima di un incidente stradale ma la sorella, Anita Canestri, famosa attrice, non crede a questa ricostruzione e chiede ad Angelo Sacchi, famoso investigatore privato, di indagare sulla morte di Sara.
Le ricerche si rivelano più pericolose del previsto e l’investigatore deve chiedere aiuto all’amico Roberto Locurto, ispettore di polizia, che avrà un ruolo determinante nel corso delle indagini.
Da questo tragico episodio inizia così una difficile indagine alla ricerca della verità che vedrà alternarsi la scoperta del sabotaggio ai freni dell’auto di Sara, la presenza di personaggi ambigui e spietati, il nefasto traffico illegale di farmaci contraffatti che vengono utilizzati nella Repubblica di Mali dove l’amica di Sara, Maria Buontempi, lavora come medico senza frontiere e scopre che alcuni farmaci, prodotti da una famosa casa farmaceutica, non contengono il principio attivo per curare la malaria ma semplicemente acqua e zucchero. Logicamente, Sara non riesce a credere che l’azienda farmaceutica per la quale lavora da anni, sia coinvolta in affari così loschi e terrificanti: per verificare questo sospetto si reca nel Mali in modo da accertarsi che i farmaci fasulli provengano effettivamente dall’Italia, dalla “sua” casa farmaceutica.
Ecco allora che il giallo sulle cause della morte di Sara, si rivela poco alla volta, grazie a sorprendenti riscontri, a connivenze che fanno capo ad affari illegali, a sabotaggi e omicidi, a personaggi oscuri e crudeli che sfruttano il traffico di farmaci falsi nei Paesi del Terzo Mondo, esclusivamente per profitto, per avidità di denaro, speculando sulla sofferenza di bambini innocenti che moriranno dopo la “cura fasulla” con medicine “fantasma”.
La trama del romanzo è saggiamente giocata su continue aperture narrative che mantengono costante la curiosità e l’attesa continua di un nuovo colpo di scena. La realtà, così intricata, difficile e contraddittoria, si miscela con gli sviluppi di un destino umano che sembra non avere possibilità di soluzione: come trovarsi davanti ad una scacchiera pericolosa sulla quale si muovono i protagonisti del romanzo. L’esito finale della pericolosa ricerca-ricostruzione della verità, così terribile e disumana, condurrà all’inevitabile epilogo senza concedere un momento di tregua.
Giuseppe Diomede, con la sua opera, “La morte dopo la cura”, pare riaffermare l’importanza della narrazione, alimentata dalle molteplici vicende in una crescente fabulazione che fa capo comunque ad un processo organico aperto al talento immaginativo e ad un filo conduttore sotterraneo che illumina il campo narrativo con la volontà di mettere in piena luce l’umana responsabilità davanti alle atrocità commesse sulla pelle dei più deboli e dei più indifesi: esseri umani innocenti che diventano vittime sacrificali.

Massimiliano Del Duca


La morte dopo la cura


Dedico questo mio primo lavoro ai miei genitori che sarebbero stati felici di vederlo realizzato.
A mio fratello Giovanni, a mia moglie Livia, ai miei figli Aurora e Manuele.
Una dedica particolare va a tutti i medici dell’associazione “Medici senza frontiere», che si impegnano nel sociale affrontando avversità di ogni tipo, sono gli angeli di tante, tantissime persone, e si impegnano nel loro lavoro sacrificando loro stessi, a voi tutti grazie per ciò che fate.


1.

Venerdì, 3 novembre 2009, dalle ore 2:00

Quella notte era buia e nera, la luna sembrava essersi nascosta assieme a tutte le stelle del cielo, il silenzio dominava per le strade di Milano, un silenzio innaturale in quella città, un silenzio squarciato solo dal rombo dei motori delle auto di Sara Canestri e del Mercedes che la stava seguendo.
Sara era una rappresentante farmaceutica di trentotto anni, in quella notte correva veloce in cerca della salvezza; solo attraverso di essa infatti avrebbe potuto rivelare al mondo la verità, verità che tanti conoscevano, ma che nessuno aveva il coraggio di affrontare di petto, ed alla gente arrivava solo come un sussurro sterile, come se non li riguardasse, ma che in realtà riguardava tutti e Sara voleva trasformare quel sussurro in un grido, un grido talmente forte da non poter essere ignorato mai più.
Il pedale dell’acceleratore premuto a metà, ma il gas emesso faceva saettare abbastanza veloce la sua automobile sulla rampa d’ingresso della tangenziale Est di Milano, all’entrata di Cascina Gobba, la rampa la immetteva sulla carreggiata che andava in direzione Bologna.
Le sue mani erano sudate ed il suo cuore batteva talmente forte che tra un battito e l’altro Sara temette che le saltasse fuori dal petto, i suoi occhi erano colmi di lacrime, lacrime di paura che le rigavano le gote dopo aver abbandonato l’orbita dei suoi occhi verdi.
Guardò nello specchietto retrovisore, la sagoma dell’auto dietro di lei era sempre più vicina, qualunque sforzo lei facesse per guadagnare terreno sembrava inutile. La sua Croma era troppo lenta rispetto al bolide che la seguiva.
Schiacciò ancora di più il pedale, la risposta dell’auto fu immediata, ed avanzò ancor più spedita sullo strato d’asfalto gelato; il tachimetro segnava i centoquaranta.
Con la coda dell’occhio vide la borsetta sul sedile posteriore, maledisse mentalmente il momento in cui la buttò dietro. Il cellulare sarebbe stata la sua salvezza, ma non riusciva a raggiungere la borsetta e per via della velocità dovette abbandonare ogni tentativo di recupero.
Appena il tempo di riportare l’altra mano sul volante e l’auto che la seguiva la tamponò decisa, facendole fare un balzo in avanti, questa spinta la fece trasalire, arrivò inaspettata e lei urlò spaventata. Le sue mani tenevano saldamente il volante cercando di mantenere il controllo dell’autovettura, nel contempo diede ancora più gas nel vano tentativo di seminare l’auto, ma il Mercedes restava ancorato alla sua Croma senza problemi, anzi si distanziava e la recuperava a suo piacimento, si rese conto di essere completamente in balia di quell’uomo.
La sua attenzione era tutta sulla guida, sapeva che se avesse perso il controllo della Croma a quella velocità l’impatto sarebbe stato quasi certamente fatale.
L’isteria, la paura, il terrore si impossessarono di lei e crescevano di secondo in secondo sempre di più, queste intense sensazioni fecero sì che lei pigiasse sempre di più sul pedale, per aumentare la sua velocità nella insperata speranza che il Mercedes rinunciasse all’inseguimento, ma era ovvio che questo non sarebbe avvenuto; il tachimetro segnava i centocinquanta chilometri orari.
I metri venivano mangiati velocemente uno dopo l’altro dalle ruote della sua Croma mentre il suo volto veniva illuminato ad intermittenza dai lampioni dell’autostrada.
Tutto sembrava orrendamente fermo, quando inaspettatamente un nuovo barlume di speranza invase il suo cuore; davanti a lei, a circa cinquanta metri, si materializzò la sagoma posteriore di un’auto, la prima che incontrava da quando era cominciata la sua fuga, alla quale lei si avvicinava rapidamente per via della sua velocità, il tachimetro segnava ormai i centosessantacinque chilometri orari; una velocità insolita per Sara che nella sua vita aveva sempre rispettato i limiti che il codice della strada imponeva, ma il fatto di sentire la sua auto stabile la rilassava, per il momento riusciva a mantenere il controllo della Croma senza troppi affanni.
Guardò nello specchietto retrovisore e si accorse di aver guadagnato qualche metro, ne fu sollevata, ma il suo sollievo svanì ancor più veloce di come era arrivato; infatti non appena toccò il pedale del freno si accorse che dopo un primo leggero rallentamento la sua auto smise di rispondere al comando, udì un suono strano, impercettibile, come il suono della pentola a pressione quando butta fuori il vapore acqueo accumulato al suo interno, un forte sbuffo, ed il pedale si abbassò di colpo. Le si accapponò la pelle scossa da brividi di terrore mentre prendeva coscienza del nuovo grande pericolo che avrebbe dovuto affrontare, non le ci volle molto a capire che i freni della sua auto erano stati manomessi.
Come aveva potuto fidarsi di quell’uomo? Quanto era stata ingenua? Gli aveva affidato la sua auto per portarla a fare il tagliando quella mattina. Ora si rendeva conto che era stata l’idea più stupida di tutta la sua vita, certo non avrebbe mai immaginato un epilogo del genere, non poteva credere che sarebbe arrivato a tanto.
Cercò di tranquillizzarsi, in fondo nulla era perduto ed era convinta, nel suo profondo, di avere ancora una possibilità: l’auto davanti a lei.
Inspirò a fondo dal naso ed espirò rumorosamente dalla bocca, facendo uscire tutta l’aria dai polmoni, ripeté questa operazione più volte nel banale tentativo di calmarsi. Ma era ovvio che la calma l’aveva persa già da tempo e che la situazione peggiorava con lo scorrere lento di quel momento infinito che non avrebbe mai voluto vivere.
Cercò di non pensare a nulla che non fosse l’auto che procedeva davanti a lei e si concentrò solo su di essa, mentre entravano in un tratto della tangenziale non illuminato dai lampioni ma solo dai fari accesi delle loro automobili che procedevano su quell’asfalto freddo e nero, come il cuore di chi voleva porre fine alla sua vita.
Fari abbaglianti e clacson furono le uniche armi che Sara aveva per attirare l’attenzione di quell’autista e li utilizzò a più non posso, tanto che il clacson della sua auto quasi si scaricò per via dell’abuso che ne stava facendo, ma sapeva che lo avrebbe incrociato solo qualche secondo, e sperava che quel secondo sarebbe bastato a quell’autista per capire la gravità della situazione che lei stava vivendo e si comportasse di conseguenza, cercando per prima cosa di ostacolare il Mercedes, e per seconda che avvisasse la polizia. Se fosse riuscito almeno nella prima cosa, lei avrebbe guadagnato tempo e lo avrebbe sfruttato per tentare di frenare in qualche modo la pazza corsa della sua auto.
Il problema più immediato per lei era come farsi capire in quel poco tempo, forse una frazione di secondo. La paura e la tensione non le davano il tempo di pensare con lucidità, ma doveva trovare un modo e l’unico che le venne in mente era quello di urlare, urlare più forte che poteva con tutta l’energia, con tutta la forza che aveva in corpo e doveva concentrarla sulle corde vocali fino a bruciarle se doveva.
Nonostante la sua Croma corresse spedita ed al triplo della velocità della piccola Panda che la precedeva, Sara ebbe l’impressione che il tempo che serviva per coprire quei pochi metri che la separavano dalla stessa non passasse mai; poi finalmente si trovò di lato al veicolo. Abbassò il finestrino anteriore del lato passeggero, una ventata di aria gelida che aveva l’odore della notte invase la sua auto, facendole sventolare i lunghi capelli biondi e pungendole la faccia. Guardò l’uomo che stava alla guida, era un ragazzo sui venticinque anni, si mise a gridare aiuto con tutta la voce che aveva in gola nella vana speranza che quel ragazzo la udisse.
Sara immaginò le sue grida che prendevano forma prima di disperdersi nel vento e sparire nella notte, una notte tremendamente nera, che diventò ancor più scura quando le fu chiaro che il ragazzo non aveva capito nulla, che era stata fraintesa e questa errata interpretazione segnò irrimediabilmente il suo destino.
Vide il giovane, girato nella sua direzione, con il braccio destro alzato ad ombrello, la sua mano era chiusa a conchiglia, come per dire “Che cazzo vuoi!” e probabilmente quelle erano le parole che si stavano materializzando attraverso la sua bocca.
In un attimo la sua auto schizzò avanti, lasciandosi la Panda, il suo autista, e probabilmente la sua vita, alle spalle; il tachimetro segnava i centottanta chilometri l’ora.
Con la morte nel cuore, la sua ultima speranza svaniva insieme ai fari accesi della Panda che diventavano sempre più piccoli fino a trasformarsi in due piccoli pallini che scomparvero all’orizzonte.
Il rombo del motore era la sua unica compagnia, i suoi occhi verdi scrutarono la strada dietro di lei attraverso lo specchietto retrovisore e ciò che videro non le piacque, la sagoma scura del Mercedes si avvicinava velocemente a fari spenti. Era come avere uno squalo alle calcagna che si avvicinava silenzioso e minaccioso alla sua preda.
Per un breve istante ebbe l’impressione di non essere seguita da un’auto, ma dalla morte stessa, e questa sensazione le procurò una scarica di paura talmente intensa che la sentì attraversare tutta la spina dorsale, le sue gambe cominciarono a tremare, come il suo labbro inferiore, un tremolio leggero ma costante, pensò che in vita sua non aveva mai avuto tanta paura.
Nella sua mente apparvero nitidi, quasi come averli davanti agli occhi in quel momento, i volti dei suoi genitori e di sua sorella Anita, e desiderò, con tutta se stessa, di tornare bambina per essere avvolta dall’abbraccio rassicurante di suo padre, quell’abbraccio potente che faceva svanire le paure come per magia, e ti faceva sentire sicura come se nulla al mondo potesse farti del male, almeno finché restavi tra quelle braccia calde, forti e potenti.
Le lacrime continuarono ad uscire dai suoi occhi verdi, ma erano lacrime diverse adesso. Prima piangeva per paura, per disperazione; ora il suo pianto si era tramutato in qualcosa di diverso, di profondo, arrivava direttamente dal profondo del suo animo; fu invasa da un’intensa malinconia e sentì un dolore acuto dentro il suo cuore. In lei c’era la consapevolezza che non avrebbe mai più potuto riabbracciare suo padre, sua madre e la sua amata sorella Anita, era per questo che piangeva adesso.
Poi, la nostalgia venne sostituita dalla rabbia e le sue mani si strinsero al volante talmente forte che le sue nocche diventarono bianche, e per un attimo credette che le ossa potessero strappare la pelle.
In quella gelida notte scura e nera di inizio novembre, la sua Fiat Croma sfrecciava ormai a più di centonovanta chilometri orari, senza freni e senza speranza. Sara prese la sua decisione: se doveva morire avrebbe reso la vita difficile al suo inseguitore, avrebbe lottato come poteva.
Chiese l’aiuto di Dio, la sua ultima speranza e cominciò a pregare ad alta voce mentre il suo piede schiacciò a fondo il pedale dell’acceleratore.

L’assassino fischiettava tranquillo, la melodia di una canzone che si era inventato quando era un bambino, questa melodia lo aiutava a distendere i nervi ed a rimanere rilassato, oggi come ieri, quando le situazioni richiedevano di tenere i nervi ben saldi.
Se ne stava lì, comodamente seduto sul sedile in pelle chiara del suo Mercedes, l’aria calda dell’impianto di riscaldamento fuoriusciva silenziosa e costante portando l’abitacolo ad una temperatura gradevole e riscaldandogli la pelle.
Pensava alle riparazioni che avrebbe dovuto apportare alla sua autovettura nuova. Non era neanche una settimana che la sua azienda aveva consegnato ai dirigenti le nuove Mercedes, e lui, a causa di quella puttana che non si era fatta i cazzi propri, l’aveva già rovinata, per via dei piccoli tamponamenti che aveva dovuto effettuare ai danni della Croma in maniera tale da indurre Sara a dare ancora più gas aumentando ulteriormente la sua velocità. Doveva farla andare al massimo che poteva per essere sicuro che il suo piano riuscisse alla perfezione.
“La curiosità uccide.” Pensò con un ghigno malefico sulle labbra.
Osservava, quasi divertito, la Croma davanti a lui, che procedeva veloce sulla tangenziale; c’era ancora molta strada da fare prima di poter portare a termine il suo piano. Così si infilò una mano nella tasca della sua costosa camicia estraendone un pacchetto di sigarette, ne prese una con le labbra, ributtando il pacchetto sul sedile laterale prima di accenderla con l’accendisigari dell’auto, guardando sottecchi la strada davanti a lui.
Più ci pensava e più si incazzava con quella puttana, cosa voleva fare, denunciarlo? Rovinarlo? Ci aveva messo tanto, troppo tempo per riuscire a ritagliarsi il suo spazio in quel mondo, e non avrebbe permesso a nessuno di ostacolare il suo progetto, né a Sara né a nessun altro.
L’abitacolo si riempì di fumo subito dopo la prima sbuffata, tanto che dovette aprire leggermente il finestrino.
Tornò a concentrarsi sulla strada, fischiettando per scacciare via la rabbia fino a che lo stesso malefico ghigno di prima gli si disegnò nuovamente sul viso non appena vide gli stop della Croma che si accendevano e si spegnevano velocemente, segno indiscutibile che in quel momento Sara continuava a schiacciare il pedale del freno con la speranza che questi rispondesse, ma evidentemente a quell’ora si stava rendendo conto che i freni della sua auto non funzionavano e non lo avrebbero più fatto e con ogni probabilità ormai stava cedendo al panico e alla consapevolezza che la sua morte si stava avvicinando.
L’assassino immaginò gli occhi di Sara persi nel terrore, nella paura, e scosse la testa divertito…
«Eh già piccola mia!» disse con la sua voce calma e felpata.
I fari abbaglianti della Croma continuavano ad accendersi e spegnersi con frenetica intermittenza, mentre il clacson strombazzava all’impazzata, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione di una piccola utilitaria che viaggiava tranquilla sulla seconda corsia della tangenziale Est.
Osservò la scena, la Croma si avvicinava rapidamente alla piccola utilitaria, in men che non si dica la Croma affiancò l’altra auto, ma l’affiancamento durò il tempo di una frazione di secondo a causa della forte velocità della Croma e della troppo bassa velocità dell’utilitaria.
Buttò fuori il fumo dalla bocca, pensieroso, poteva darsi che in qualche maniera Sara fosse riuscita a far arrivare il suo messaggio di aiuto all’autista di quella autovettura. La possibilità era minima, ma comunque esistente e non poteva sottovalutare quell’ipotesi.
Rallentò appena, spegnendo i fari del Mercedes, si avvicinò lentamente alla Panda, ne memorizzò la targa, diligentemente illuminata, al contrario della sua che sarebbe risultata illeggibile per l’altro autista in quella notte buia, visto che si avviava a proseguire la sua corsa con i fari spenti, reputava importante memorizzare ogni dettaglio.
La prudenza non è mai troppa. Pensò.
Nonostante il Mercedes avesse rallentato ci mise pochissimo a percorrere quelle poche centinaia di metri che lo separavano dalla piccola utilitaria.
Quando fu di fianco alla Panda, capì subito che quel giovane alla guida aveva scambiato una disperata richiesta d’aiuto con una banale richiesta di lasciare libera la strada.
Il giovane infatti stava ancora insultando Sara, aveva il braccio alzato e proteso in avanti in direzione della Croma, la sua bocca si muoveva rapidamente, l’assassino immaginò un rapido susseguirsi di parolacce tra quelle labbra.
Ne fu divertito.
Il giovane, tra l’altro, era talmente concentrato ad inveire contro la donna che non si accorse nemmeno di lui, che nel frattempo aveva accelerato nuovamente per raggiungere la Croma che si stava allontanando.
Spense la sigaretta nel portacenere della sua auto, lo fece con calma, schiacciando con forza la sigaretta sul fondo.
Se avesse avuto abbastanza fortuna Sara si sarebbe schiantata da sola, così avrebbe risparmiato un colpo alla sua auto nuova, ma non poteva certo chiedere troppo alla sorte, era già stato abbastanza fortunato che la tangenziale fosse deserta, cosa abbastanza insolita, dunque era consapevole che l’ora di agire era vicina e di lì a poco sarebbe arrivato il momento più difficile della serata, e per distendersi bene i nervi ricominciò a fischiettare la sua melodia.
Tutti i suoi muscoli erano tesi, i suoi nervi pronti. Era assolutamente concentrato sulla difficile manovra che stava per compiere e sapeva che l’avrebbe dovuta eseguire alla perfezione, il minimo errore l’avrebbe pagato anche lui con la vita.
Il momento era vicino, stavano per superare la curva che li avrebbe proiettati nel tratto di strada dove c’era l’uscita di San Giuliano Milanese; ma, fatto più importante, l’ultima uscita prima del casello, cioè l’imbocco della tangenziale Ovest. Quel raccordo autostradale era la sua unica via di fuga.
Subito dopo la curva si spostò sulla seconda corsia, mentre la Croma occupava la terza, cioè l’ultima delle tre della carreggiata.
L’assassino cominciò a dare gas al suo Mercedes avvicinandosi alla Croma, dando inizio alla sua mortale manovra, ma fu costretto a decelerare quasi subito poiché la Croma si spostò a sua volta sulla sua stessa corsia, probabilmente intuendo la manovra che stava per compiere…
«Brava!!! Vuoi rendere il gioco più difficile eh?» disse l’assassino sempre col tono di voce calmo. Continuava a mantenere la sua freddezza, sempre presente nei momenti difficili o di tensione, era una sua caratteristica.
Dovette regolare la velocità in maniera corretta per avvicinarsi quel tanto che bastava alla Croma, per poi tamponarla, per l’ennesima volta, e costringerla a riportarsi sull’altra corsia.
Quella manovra portò subito i suoi frutti, e dopo che le due auto si separarono la Croma si spostò immediatamente sulla terza corsia. Questo permise all’assassino di sovrapporre il lungo muso del Mercedes con la parte posteriore della Croma.
Ora! È il momento! Pensò.
Saldò entrambe le mani sul volante, era al massimo della concentrazione, non poteva commettere errori. Sterzò con calma verso la Croma.
Le due auto entrarono in contatto.
Poi l’assassino diede un colpo deciso di sterzo verso sinistra, la Croma cominciò a perdere l’aderenza con lo strato d’asfalto freddo della tangenziale, l’assassino pigiò con forza il pedale del freno, l’auto ebbe un momento di sbandamento che durò pochissimo, mentre la Croma, che cominciava a piroettare, non colpì il muso del Mercedes per pochi millimetri.
Una volta recuperato in pieno il controllo dell’auto, l’assassino osservò il testa coda della Croma, la quale ad un certo punto impattò sul guardrail. L’urto provocò un assordante rumore metallico che riempì l’aria, spezzando il silenzio della notte, poi la Croma cominciò il suo mortale ribaltamento. I pezzi dell’auto cominciarono a staccarsi dalla Croma ed a riversarsi sulla strada, il fragore dei vetri che andavano in frantumi si unirono al boato della ferraglia dell’auto che si schiacciava sul manto stradale. Una innaturale nube, polverosa, di fumo, si sollevò da terra coprendo l’insolito spettacolo. Dovette aspettare che quel cumulo di polvere si dissolvesse nell’aria prima di riuscire a vedere la Croma che giaceva ribaltata tra la corsia di emergenza e la prima corsia.
Avanzò lentamente verso la Croma capottata, i vari pezzi sparsi per terra si schiacciavano sotto le ruote del Mercedes.
Strak. Statatrak. Scrrt. Spem.
Guardò attraverso lo specchietto retrovisore: dell’utilitaria nessuna traccia per il momento.
Poteva darsi che il ragazzo avesse abbandonato la tangenziale imboccando una delle uscite precedenti, ma poteva anche darsi che non fosse così; di sicuro non poteva starsene lì ad aspettare, doveva agire rapidamente non aveva molto tempo.
Scese dal Mercedes rapidamente, lasciando il motore acceso e la portiera aperta, si portò di lato alla Croma, dalla parte del passeggero, si sdraiò di schiena e si spinse con le gambe all’interno dell’auto, riuscì ad entrare solo per metà, ma tanto bastava per recuperare i documenti.
Sara era tutta compressa tra le lamiere, il volante le aveva sfondato lo sterno, era completamente cosparsa di sangue, doveva essersi lacerata l’aorta poiché dal collo il sangue schizzava fuori come se fosse una fontanella, persino i suoi capelli biondi erano intrisi del suo sangue. L’assassino non riuscì ad evitare di sporcarsi di quel viscido liquido rosso, ce n’era dappertutto. La testa di Sara era girata verso di lui ed i suoi occhi vitrei lo fissavano.
«Ciao amore mio.» Disse osservandola un istante.
Poi la sua attenzione andò al vano porta oggetti, lo aprì e recuperò la sua cartelletta gialla, la trovò esattamente dove si aspettava di trovarla.
La prese ed uscì dall’auto, la cartelletta era aperta ed i documenti erano stati messi dentro alla rinfusa.
Alzò lo sguardo, in fondo alla strada due piccoli fari si materializzarono, corse verso la sua auto, vi saltò dentro, chiuse la portiera e buttò la cartelletta sul sedile del passeggero, ingranò la marcia e partì a razzo, i fari sempre spenti almeno fino a quando non imboccò il raccordo che lo portava sulla tangenziale Ovest, verso la salvezza.
Nella fretta di salire in auto però non si accorse che uno dei fogli contenuti nella cartelletta volò via e si appoggiò delicatamente a terra cullato dal vento.
Il cielo era nero, niente stelle, niente luna, e solo i fari delle automobili ed i lampioni illuminavano la strada, Fabio Ghedini aveva trascorso una serata con gli amici giocando con la play station e bevendo alcolici, sua grande debolezza, ma quella sera era abbastanza sobrio, anche se pensava di farsi almeno un bicchiere di grappa prima di andare a letto, ma per il momento guidava tranquillo verso casa.
All’improvviso si accorse che un’automobile si avvicinava rapida verso di lui, continuando a fargli i fari abbaglianti e a suonare il clacson, il suono arrivò prima quasi impercettibile poi, a mano a mano che l’auto si avvicinava il suono si faceva più forte ed intenso.
Notò che l’auto che sopraggiungeva non accennava a rallentare, e nel contempo Fabio non capiva cosa volesse, visto che la corsia di sorpasso, dove tra l’altro stava viaggiando, era libera.
Questo è pazzo! Pensò.
Ma che cazzo vuole? Ma passa se hai tanta fretta, mica ti intralcio il passaggio. Pensò ancora.
Poi l’auto arrivò come una saetta al suo fianco.
«Ma che cazzo vuoi?» Urlò mentre guardava nella sua direzione, voleva vedere che faccia da pirla potesse avere quel tipo. Passò talmente veloce, che la sua Panda si spostò a causa del vuoto d’aria e si accorse appena che a guidare quell’auto era una donna che urlava come una pazza isterica, e doveva gridare anche piuttosto forte visto il colore paonazzo della pelle del suo viso.
«Ma vai a fare in culo, cretina. Ma dove credi di essere a Monza. Ma guarda te sta rincoglionita.» Continuò il suo sfogo, ma non fece in tempo a terminare le sue imprecazioni che un’altra auto lo superò, spostando ancora la sua piccola Panda.
«Ma che è!? La sagra degli imbecilli stasera… E accendi le luci coglione.» urlò notando che la seconda auto procedeva a fari spenti.
Quando finì le sue imprecazioni contro i due automobilisti decise di spostarsi in prima corsia, onde evitare di essere incrociato dall’ennesimo deficiente.
Il suo Pandino procedeva lentamente a settanta chilometri orari, alla radio passavano un brano di Vasco Rossi, così decise di alzare il volume per goderselo in tranquillità.
Era talmente assorto ad ascoltare la canzone che saltò l’uscita di Corvetto, batté il palmo della mano sul volante…
«Pirla!» si disse da solo.
Adesso doveva allungare la strada, decise che avrebbe preso la Ovest e sarebbe tornato indietro dalla Ripamonti, così avrebbe visto qualche battona.
Continuò il suo percorso eccitato, se avesse trovato una prostituta carina magari ci avrebbe fatto un pensierino. Ma la sua eccitazione ed i suoi pensieri di sesso erano destinati a morirgli dentro velocemente così come erano nati, e questo accadde subito dopo il curvone che lo avrebbe proiettato verso il raccordo per la tangenziale Ovest, infatti davanti a lui si materializzò una sagoma indistinta, sul momento non capì bene che cosa fosse quella sagoma scura, così pensò di accendere i fari abbaglianti per avere una migliore illuminazione.
Il tetro spettacolo gli si proiettò dinnanzi, il cuore gli si fermò un istante alla vista di tanto orrore. Vide un’auto ribaltata, mentre un’altra si stava allontanando velocemente dal luogo dell’incidente, intuì che si trattasse della seconda auto che lo aveva superato qualche minuto prima, per via dei fari spenti.
Mentre si avvicinava era indeciso sul da farsi: fermarsi per prestare soccorso o inseguire il pirata della strada, optò per la prima soluzione anche perché si ricordò della velocità con la quale le due auto procedevano e per la sua piccola Panda non ci sarebbero state possibilità di raggiungere quell’auto in fuga.
Non appena entrò nel tratto di strada immediatamente vicino al luogo dell’incidente le gomme della sua auto schiacciarono vari pezzi riversati in terra, accompagnati da un tetro scricchiolio.
Scese veloce dalla Panda.
«Ehi! Ehi! Sta bene, mi sente?» Urlò mentre correva verso il veicolo. Quel tratto di tangenziale era buio e la scena era illuminata solo dai fari della Panda, Fabio si abbassò per guardare all’interno dell’abitacolo:
«Oh mio Dio!!!» Esclamò inorridito, mentre lo spavento per quella visione lo fece cadere seduto in terra e continuò a spingersi indietro con le gambe e con le mani, ma senza mai togliere lo sguardo, era come ipnotizzato da quel corpo inerme e privo di vita.
Finalmente dopo un istante, che gli parve eterno, riuscì a spezzare quel macabro incantesimo che teneva il suo sguardo legato indissolubilmente alla donna morta. Scattò in piedi e corse a prendere il cellulare in auto, chiamò il 113 dicendo che c’era stato un incidente e dando la posizione dello stesso.
Chiusa la conversazione, si mise le mani sul volto abbassando la testa, fu in quel momento che vide un foglio di carta per terra, così, in maniera meccanica lo raccolse decidendo di aspettare la polizia in macchina.
Salì sulla sua auto e buttò il foglio sul sedile di fianco, mentre in lontananza poteva sentire la polizia che si avvicinava a sirene spiegate verso il luogo dell’incidente.
Qualche minuto dopo sul posto c’erano polizia, ambulanze, vigili del fuoco e tutta la zona era illuminata ad intermittenza da luci azzurre, che andavano e venivano.
Un agente della polizia stradale raccolse la sua deposizione, e più di una volta dovette ripetere che non aveva avuto la possibilità di leggere la targa del pirata della strada poiché lo stesso procedeva a fari spenti.
La cosa più orribile per Fabio Ghedini fu vedere i vigili del fuoco che tiravano fuori dalle lamiere quel corpo straziato, e anche se si costringeva a non guardare, di tanto in tanto l’occhio cadeva in quella direzione, e pensò che non appena sarebbe arrivato a casa non si sarebbe fatto un bicchiere di grappa, probabilmente si sarebbe scolato la bottiglia.

[continua]

Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine