Cû gruopp a la gaula (Col nodo alla gola)

di

Giuseppe Mazzullo


Giuseppe Mazzullo - Cû gruopp a la gaula (Col nodo alla gola)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 110 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-8323

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In copertina: diploma del 1108 col quale la contessa Adelaide dona all’Abate Ambrogio di San Bartolomeo le decime degli ebrei di Termini (con sigillo di ceralacca).
p>. (Per gentile concessione dell’Archivio Capitolare di Patti)

Introduzione alla poesia di Giuseppe Mazzullo

Questa raccolta di poesie nel dialetto galloitalico di Giuseppe Mazzullo si sviluppa su diversi livelli di lettura. Il leitmotiv dei ricordi d’infanzia e della nostalgia dei tempi andati è ricorrente. Il paese di San Fratello, con i suoi molteplici problemi che l’hanno portato al degrado, è un elemento costante e, con l’eccezione di alcune liriche, su di esso si forgia quasi tutta la poesia di questa raccolta. Da questo stato di cose nasce la pulsione per individuarne le cause:
«Quando il nostro paese
somigliava al paradiso […]
Tutti avevano qualcosa da fare
e nessuno parlava di depressione.
Ora siamo tutti annoiati
frastornati dalla televisione»
(Poveri e contenti)*.

La divisione del libro in due sezioni non porta a considerare le liriche a scomparti separati in senso stretto perché nella realtà non lo sono. Nella sezione “Tra le crepe della memoria” non troviamo solo poesie legate ai ricordi, così come quelle assegnate alla sezione “Speculazioni” non contengono solo spunti di carattere sociologico o filosofico, poche sono in effetti quelle di carattere introspettivo.
L’andamento delle liriche in generale si propone abbastanza variegato. La poesia è matura e corroborata dell’esperienza umana del poeta, che vi riversa il suo vissuto e tutto ciò che egli considera necessario affinché si affermi la giustizia e la solidarietà. Non usa mezzi termini quando i suoi versi vogliono essere un atto d’accusa; ma diventano concilianti e sommessi quando vuole esternare il suo affetto verso le persone e le cose care.
L’Eden perduto si ripropone di continuo e il poeta che non ha abbandonato i luoghi dell’infanzia si accorge che questi non sono più gli stessi di prima, si sono evoluti e ora pure la civiltà digitale li ha colonizzati. Difficile quindi preservarli del tutto. Ma ancora c’è una possibilità: tornare alla campagna e vivere secondo i cicli della natura a beneficio della salute mentale.

Il fenomeno dell’emigrazione è visto come necessità, in cerca di una vita migliore, e il poeta abbassa lo sguardo quando parla di gente proveniente dall’Africa, in cerca di pace, e che spesso finisce i suoi giorni in tragici naufragi:
«Gente senza patria
senza nome
che fugge lontano dalle guerre.
La pace l’hanno trovata nel mare.»
(Senza nome).

La voce si alza spesso verso la politica dissennata che ha obbligato i giovani a lasciare il paese per mancanza di lavoro, ma non manca la rampogna verso questi, perché correi di non aver saputo rinunciare alla chiamata migratoria. Il poeta continua a ripetere, quasi un mantra, l’invito ai giovani emigrati affinché tornino al paese dove potranno ritrovare la serenità e la liberazione dagli assilli del vivere quotidiano.
I politici sono la parte sotto accusa, in particolare perché non hanno saputo creare le condizioni affinché i giovani trovassero lavoro, ma anche perché hanno portato allo sfascio i sistemi pensionistici dei lavoratori:
«Ora sono cambiate le epoche
e quattro arraffoni
di politici improvvisati
hanno sfasciato comuni e regioni
riducendo in miseria / intere popolazioni. […]
hanno mangiato le pensioni,
– quelle degli operai –
le loro non si toccano»
(Applaudiamoli);

e ancora:
«E le lotte che si sono fatte
per un po’ di dignità
una politica scellerata ha cancellato ogni cosa.»
(I tempi tornano).

I disastri idrogeologici che nel tempo hanno colpito il paese di San Fratello sono una presenza costante, così pure le accuse verso gli amministratori locali che nel tempo hanno curato solo i loro interessi:

«Tutti gli stessi […]
ancora una volta ci rendiamo conto
che in questo paese non c’è nulla da fare:
quasi tutti vanno là per mangiare.»
(Tutti gli stessi).

Non mancano i riferimenti alla stupidità umana,
«Ma non vedi cosa combinano?
Inquinano l’acqua e la bevono
avvelenano anche i loro terreni,
inquinano l’aria e la respirano
si uccidono per motivi religiosi.
Aspettiamo!
Se continuano così
si distruggono da soli.»
(Il parere degli uccelli).

I mezzi moderni della tecnologia sono visti con distacco perché non permettono più la comunicazione de visu, quella vera, tra le persone e al valore delle parole il poeta dedica più di una lirica:
«Promesse di una vita futura
nell’inganno delle parole, […]
Ma una forza vince
e scioglie le ombre:
è l’amore e la fede
che porti nel cuore. (Ombre);
«[…] le parole sono preziose,
non dobbiamo sprecarle
tengono in piedi il mondo
e possono abbatterlo.»
(Le parole);

e ancora:
«[…] Parole false che promettono il bene
crollano addosso a chi spera
e frantumano i sogni.»
(Certe parole)

Non manca la ripulsa su alcuni usi e costumi del paese, considerati obsoleti e controproducenti:
«[…] Stai attento figlio mio
a non scendere il gradino,
non prenderti una qualunque
perché tu sei un gran proprietario:
abbiamo le mucche ed anche le campagne
perciò puoi pretendere le ragazze migliori.»
(Il gradino)

Mazzullo ci presenta alcune poesie legate alle tradizioni e feste locali e non si sottrae a considerazioni esistenziali attraverso l’osservazione del creato e sull’irrisolto problema delle contraddizioni tra fede e ragione; proprio in queste liriche non sfuggirà al lettore che il dialetto diviene meno fluido e abbonda di prestiti della lingua nazionale, volti secondo le regole del dialetto. A tale proposito mi viene in aiuto quanto affermava il mio amico e maestro Giuseppe Miligi: «In dialetto puoi parlare con Dio, ma non puoi parlare di Dio».
Nelle poesie di Mazzullo c’è una continua ricerca del ritmo, indipendente dalla rima di cui il poeta molto spesso si avvale. Il linguaggio è reso attuale rispetto a quello in uso nella prima metà del Novecento e va detto che questo, come tutte le lingue di questo mondo, inesorabilmente nel futuro tenderà a volgersi sempre di più verso la lingua predominante e quella tecnologica.
L’ironia aleggia continuamente e il poeta “Castigat ridendo mores” sferzando di continuo con critica costruttiva la moralità individuale e in particolare di chi è delegato ad amministrare la cosa pubblica.
Concludendo, nel panorama della poesia galloitalica di San Fratello, Giuseppe Mazzullo occupa un posto preminente poiché sa coordinare argomenti della tradizione con altri legati alle istanze di carattere sociale ascrivibili alla civiltà del nostro tempo.

Benedetto Di Pietro


Per facilità di lettura riporto solo la traduzione dei versi.


  • Per approfondire l’argomento → S. C. Trovato, Sul sistema ortografico del dialetto galloitalico di San Fratello, in B. Di Pietro, Â Tarbunira, Il Lunario, Enna, 1999: 5-20, e G. Foti, Fonetica storica, fonologia e ortografia del dialetto galloitalico di San Fratello, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo, 2013.

Cû gruopp a la gaula (Col nodo alla gola)


TRA LE CREPE DELLA MEMORIA


Pavir e cuntant

Quänn u nasc paies
arsumighjieva ô pararies
cu li saui campegni cultiväri
e cini di frutti di mil manieri,
tucc i stäbu eru abitei
di li pirsauni e dî suoi animei.
Ogni mattina la giant sbiläva
ognun avaia chercausa da fer,
schieri di fomni ch’accampävu olivi
cantann i sturnell cun tänta passian
e li vanedi cini di giant
chi paraia na purzian.
Tänta giant avaiu li vigni
e si nciuraiu scium di vìan,
li ciausi ara schiepu eru siminäri a frumant
e u nasc basch cian di animei.
I carusgì mi nvintämu i giuogh
li ciausi eru cini di ozziei,
e palangäni di tucc i culaur.
Li fomni anzieuni assitäri fuora
fasgiaiu quazzota e cunvirsazzian.
Tucc avaiu chercausa da fer
e nudd pardäva di depressian.
Ara suoma tucc annuij
frastunei di la televissian
e di li munzagni dî guvirnänt.
Mi la avuoma passea bauna
e avuoma cchjù cumirtei,
ma cam mei nin ghj’è cchjù nudd cuntant?
È pruopria quossa la vita chi vulimu,
o la stuoma distrugiann prima dû tamp?

Poveri e contenti
Quando il nostro paese / somigliava al paradiso / con le sue campagne coltivate / e piene di frutta di ogni specie / tutti i poderi erano abitati / dalle persone e dai loro animali. / Ogni mattina la gente usciva / ognuno aveva qualcosa da fare / schiere di donne che raccoglievano ulive / cantando gli stornelli con tanta passione / e i sentieri pieni di gente / che sembrava una processione. / Tanta gente aveva la vigna / e imbottavano fiumi di vino / i terreni ora incolti erano coltivati a frumento / e il nostro bosco pieno di animali. / Noi bambini ci inventavamo i giochi / le campagne erano piene di uccelli, / e farfalle multicolori. / Le donne anziane sedute fuori della soglia di casa / facevano la calza e conversavano. / Tutti avevano qualcosa da fare / e nessuno parlava di depressione. / Ora siamo tutti annoiati / frastornati dalla televisione / e dalle menzogne dei governanti. / Ce la siamo passata bene / e abbiamo molte comodità, / ma come mai non c’è più nessuno contento? / È proprio questa la vita che volevamo, oppure la stiamo distruggendo anzitempo


Parti nciausi

Parti nciausi,
vaneddi accianchieri di rrachi,
sant i pesc ch’arribaumbu
nta n suffirant silenziu.
Nta l‘äria n profum d’antiegh,
cantunieri chi cauntu la stuoria.
Parti nciausi,
i vilicott son mut,
ni ghj’è cchiù nudd chi bätt,
chiesi vachienti
abitäri dî rrigard duntei,
i fighjuoi di ‘ssa terra emigrei
sparpaghjiei pî paisg dû maun
a zzirchers n pezz di pean.
Parti nciausi:
partu scur e scunfart
nta n paies meutrattea e scunfitt
dî suoi stisc abitänt

Porte chiuse
Porte chiuse, / vicoli con selciato / ascolto i passi che rimbombano / in un silenzio sofferente. / Nell’aria un profumo d’antico, / muri che raccontano la storia. / Porte chiuse, / i catenacci sono muti, / non c’è più nessuno che bussa / case vuote / abitate dai ricordi lontani, / i figli di questa terra emigrati / sparsi per i paesi del mondo / in cerca di un pezzo di pane. / Porte chiuse: / portano buio e sconforto / in un paese maltrattato e deluso / dai suoi stessi abitanti.


Rraccafart

Cam na moma steanca e scunfurtära
t’affecci pi talier d’orrizaunt
aspietti cû pälpit ntô cuor
pi virar cumparir i tuoi fighjuoi.
La mälasart s’i purtea duntean
e cuscì a tu dî tuoi trisar ti spughjiea.
Onaur e gralia avist ê tamp antiegh
purtest saura li späddi u ta castieu
uardest criesgi e chiesi dî nimisg.
Apuoi si cunchjuriva u ta distìan
u tamp si rurò i tuoi sustiegn
e ogni giuorn vei cascann a pezz.
Ara sai vecchja e quoi chi ti taliju
apruovu pana e na spiecia di sgumant.
Iei stät sampr u nasc munumant.
Ntô sa cuor ti partu i sanfraridei
ara arristest saula a d’eua e ô vant,
ma nudd vau pinser ô ta tramaunt:
se ti n vei ti parti la memuoria
di tutt cau chi fu la nascia stuoria.

Roccaforte
Come una mamma stanca e sconfortata / ti affacci per scrutare all’orizzonte / attendi con ansia / per vedere apparire i tuoi figli. / La malasorte se li è portati lontano / e così ti ha spogliata dei tuoi tesori. / Onore e gloria hai avuto nei tempi passati / hai portato sulle spalle il tuo castello / hai difeso chiese e case dai nemici. / Poi si è avverato il tuo destino / il tempo ha rosicchiato i tuoi sostegni / e ogni giorno cadi a pezzi. / Ora sei vecchia e quelli che ti osservano / provano pena e una sorta di sgomento. / Sei sempre stata il nostro monumento. / I sanfratellani ti portano nel cuore / ora sei rimasta sola all’acqua e al vento, / ma nessuno vuole pensare al tuo tramonto: / se te ne vai porti via con te la memoria / di tutto ciò che è stata la nostra storia.


San Frareu meartir

Quänta ciai ti iean appizzea,
ti spughjien di cau ch’avii,
tucc ti tirean i piei
e la freuna ti purtea via.
Guvirnänt sanza scrupul
pirsunegg ntitulei
si ndurdean li saui mei,
ti divean la dignitea.
Ndurdean la taua fecc
e u ta carp u marturien,
puru i mieghj paisei
ti iean sampr trascurea.
Ara päri cam n vecchj sdamusea
e caschiest accuscì n besc
chi t’abbiju puru la rumanta nta la fecc.
Ma tu arrisisti pi ni dascer i tî fighjuoi
chi cu la saua ncuscianza
stean arristann pavir e suoi.

San Fratello martire
Quanti chiodi ti hanno infissi, / ti hanno spogliato di ciò che avevi, / tutti ti hanno tirato i piedi / e la frana ti ha portato via. / Governanti senza scrupoli / personaggi titolati / si sono sporcate le mani / ti hanno levata la dignità. / Hanno sporcato la tua faccia / e martoriato il tuo corpo / anche i migliori paesani / ti hanno sempre trascurato. / Ora sembri come un vecchio malridotto / e sei caduto così in basso / che ti gettano anche i rifiuti in faccia. / Ma tu resisti per non lasciare i tuoi figli / che a causa della loro irresponsabilità / stanno restando poveri e soli.


D’urtim scarper

Si sus a la mattina e vea nta la butieia di bauna aura
prima d’accumunzer mott a madd la saua suola
pi ferla arrimuder e pularla mudiller
nta i piei dritt e start pi ferm camminer.
M’arriciv curdialmant e schiengia dì batturi,
si pearda dû paies e sea tutt di tucc.
Cu n muoru dilizziaus s’assetta a la banchitta
cumanza a travaghjer e täcch e piet nzippa;
si fea la viscarina e u rradiulìan s’adduma,
ni peard mei di vista cau chi ghji nteressa.
Peard di mestr Dävi, u nasc scarper,
di tutt u sa talant e la saua simpatia.
È d’urtim dî mestr assei prufissiuneu,
chi vea ana rau iea chercausa di mparer.
Trania ch’u prugress ni uerda ch’a rau stiss
privannim sampr di cchjù di cau ch’auoma ncadd;
divea u carusìan chi prima anäva ô mestr,
a rau ni ghji nteressa se ni ghj’è cchiù u scarper;
se sfesci i tuoi quazzer, ti ng’acchietti neutr per,
ma iea ni suogn d’accardij cun quossa rrialtea:
se sfesc i miei quazzer, i uoghj aggiuster,
aner nta la buttieia e pular chjachjarier
di fätt di pulitica e di quänt ieutr ghj’è.
E tu Fisch malefich, egoista e usurer,
rrinuncia a cherca causa e däm arrier u nasc scarper.

L’ultimo calzolaio
Si alza la mattina e va alla bottega di buonora / prima di cominciare mette a mollo la sua suola / per farla ammorbidire e poterla modellare / sui piedi dritti e storti per farci camminare. / Ci accoglie cordialmente e scambia due battute, / si parla del paese e sa tutto di tutti. / Con maniera elegante si siede al deschetto / comincia a lavorare e inchioda tacchi e suole; / si fa la fischiatina e accende la radiolina, / non perde mai di vista ciò che gli interessa. / Parlo di mastro Davide, il nostro calzolaio / di tutto il suo talento e la sua simpatia. / È l’ultimo dei mastri [calzolai] assai professionale, / chi va da lui ha qualcosa da imparare. / Peccato che il progresso non guarda che a se stesso / privandoci sempre di più di ciò che abbiamo addosso; / levò il ragazzo che prima faceva l’apprendista, / a lui non interessa se non c’è più il calzolaio, / se rompi le tue scarpe, te ne compri un altro paio, / ma io non sono d’accordo con questa realtà: / se rompo le mie scarpe le voglio riparare, / andare alla bottega e poter chiacchierare / di fatti di politica e di quant’altro c’è. / E tu Fisco malefico, egoista e usuraio, / rinuncia a qualcosa e dacci ancora il nostro calzolaio.


U cànsul

Passean quässi sissant’egn,
iea avaia siei o sett’egn,
ma m’arrigard trapp ban
tutt cau ch’assuciriva
quänn chercun muriva.
Viraia giant chi ciangiaia
e li fomni chi ghirdävu,
eru vausg ch’attirrivu
e nieuc carusgì mi n scappämu.
Si fasgiaia u funireu
e apuoi quänn turnämu
li pirsauni cchjù cunfirant
cui duvar accumunzävu.
Ntastimantr i carusgì m’assigurämu
e cu la scusa chi ghj’eru li nasci momi
puru ô vissit m’assitämu
e pi l’amaur d’acchjaper cherca frusgiota
mi fasgimu la fecc ngustiera
cam se erimu puru parant.
Tutt quoss m’arristea a la mant
accumunzea a arriver sarau quänta giant;
un purtea la pastina cû bruò
puoi la marsäla e li frusgioti
brioches dät e miscutei,
granita uovi e at di vìan
e i parant ulant o nulant
farzacanà avaiu acciter.
Quoss cravälij duräva trai giuorn
e taliann li causi cû sonn di iuoi
quossa ni ngh’era na cunsulazzian,
giea la suffranza era abbastänza
pircò aggiaungirghj n dulaur di pänza?

Il consolo
Sono passati quasi sessant’anni / io avevo sei o sette anni, / ma ricordo molto bene / tutto ciò che avveniva / quando qualcun moriva. / Vedevo gente che piangeva / e le donne che gridavano, / erano voci che terrorizzavano / e noi bambini scappavamo. / Veniva fatto il funerale / e dopo il ritorno / le persone più vicine / cominciavano con i doveri. / Nel frattempo noi bambini ci rasserenavamo / e con la scusa della presenza delle nostre mamme / ci accomodavamo alla cerimonia del lutto / e per l’amore di impossessarci di qualche biscotto / facevamo la faccia angustiata / come se fossimo anche noi parenti del morto. / Tutto ciò mi è rimasto in mente / cominciò ad arrivare un sacco di gente; / uno portò la pastina in brodo / seguì marsala e ciambelline / brioches latte e biscotti, / granita uova e bicchieri di vino / e i parenti volenti o nolenti / erano obbligati ad accettare. / Questo calvario durava tre giorni / e osservando le cose col senno di ora / questa non era una consolazione, / già la sofferenza era molta / perché aggiungere un mal di pancia?


I trai giuorn dî giuriei

Accumanzu n mas prima
a alliners pû sciea
la sara ntê tumpuoi,
e puru suotta di dampiuoi,
giea si santu li sunäri
di passäri canusciuri.
Suoma nieucc:
quosc suoma i sanfrardei
ch’aspittuoma tutt d’änn
i trai giuorn dî giuriei.
Roi ravvivu la purzian
e culauru sträri e chjiezzi
cu li rrabi arracamäri
chi cumpanu li diviesi.
Mengiu e bavu a chiesi chiesi,
saunu nfina ô sfinimant
pi plesgir a la giant,
specialmant a quoi di fuora
chi fean sampr tänta strära
p’ascuter la sunära
di li trumi dî giuriei,
chi cun amaur e tänta passian
tienu viva,
quossa nascia tradizzian.

I tre giorni dei giudei
Cominciano un mese prima / ad allenarsi per il fiato / la sera fuori porta, / e pure sotto i lampioni, / già si sentono le suonate / di motivetti conosciuti. / Siamo noi: / questi siamo i sanfratellani / che aspettiamo per un anno intero / i tre giorni dei giudei. / Loro ravvivano la processione / e colorano vie e piazze / con gli indumenti ricamati / che compongono le divise. / Mangiano e bevono per le case, / suonano fino allo sfinimento / per far piacere alla gente, / specialmente ai forestieri / che fanno sempre molta strada / per ascoltare il suono delle trombe dei giudei / che con amore e tanta passione / tengono viva / questa nostra tradizione.


A San Miniritu

San Minirtìan gluriaus
patran di ‘ss paies,
di zzea partì la strära
chi ti purtea ô pararies.
Pearda la taua stuoria
di viegg e schiavitù,
e giant di pedd ascura
vignura da duntean.
Giant di ‘ss paies
si disg chi t’aduttean
ti divean li carani
e ti dotu nam e pean.
Sirvist i tuoi patruoi
cun fò e umiltea
di zzea accumunzäva
la taua santitea.
Dasciest ‘ss paies
e firrijest mär e maunt
pi purter la fò
nta i cuor di la giant
a tu s’avvisgiunean
i pavir e i putant.
San Minirtìan gluriaus
t’apriguoma i sanfrardei
ara arristämu suoi,
di tucc abbanunei,
ara cchjussei di prima,
suntuoma ‘ss bisagn
Svoggia la nascia fò
cunveart i meupinsänt,
tu sau mi pai airer
tu chi ara sai Sänt.

A San Benedetto
San Benedetto glorioso / Patrono di questo paese / da qui iniziò la via / che ti portò in paradiso. // Racconta la tua storia / di viaggi e schiavitù / e gente di pelle scura / venuta da lontano. // Gente di questo paese / si dice che ti adottò / ti levò le catene / e ti diede nome e pane. // Hai servito i tuoi padroni / con fede e umiltà / da qui cominciava / la tua santità. // Hai lasciato questo paese / e girato mari e monti / per portare la fede / nel cuore della gente / a te si sono avvicinati / poveri e potenti. // Glorioso San Benedetto / ti preghiamo noi sanfratellani / ora siamo rimasti soli, / da tutti abbandonati, / ora più di prima / sentiamo questo bisogno: // Sveglia la nostra fede / converti i malpensanti, / tu solo puoi aiutarci / tu che ora sei santo.


U cian dû munumant

Quättr bässuli sculpiri nta ghj’iengul apusäri,
li valäti tutti scritti cui nam dî surdei mart.
Nta la zzima ghj’è apusea, p’arrigurderm u passea,
chi pirdò la saua vita cu li iermi dû surdea.
Ghj’è na stätua di braunz, cû muscott a mean spianea
e la baiunotta n chiena p’affrunter i suoi nimisg.
Ma la giant chi spassia nin ghji fea cchjù meanch chies
ai turmant chi passea cau caraus valuraus.
Quänta momi chi ciangion, cu sa cuor fätt a pezz
quänta pätri frei e suor si dascien sanza savar
se chi partiva turnäva o ana anäva a rrumassir.
Cumbattò cauntra i nimisg cui suoi schient e i suoi curegg
patì fäm sagn e frodd, cu la mart ntê suoi uogg.
Chercun arrivea a turner cui suoi trägich pinsier
tenc ieucc arristean dispersc, chissea ana arpaussu n pesg,
si pirdon puru li assi nta li fassi sanza crausg.
Suoma crui quänn passuoma e ni taliuoma cau surdea
chi pirdò la saua vita pi quoi chi ara suoma zzea,
e ni pinsuoma a li tragedii chi la uerra cunsumea.
E ai carusgì d’adaura nin ghji fu nudd chi ghji mparea
chi fu pi tucc ghj’ieucc cau eroe di surdea.
Ara m’assuvienu i tamp di quänn era carusìan,
e cû giurizzi di l’etea mi rrimard la cuscianza,
mi cunfarta la nnucianza di chi savaia pach e nant
ch’acciamämu cau surdea
“u pup dû munumant”.

La piazza del monumento
Quattro pietre scolpite, sistemate agli angoli, / le lastre di marmo scritte per intero coi nomi dei caduti. / Sulla parte alta c’è sistemato, a ricordo del passato, / chi ha perduto la sua vita in armi da soldato. / C’è una statua di bronzo, col moschetto in mano spianato, / e la baionetta in canna per affrontare i suoi nemici. / Ma la gente che passeggia non vi presta più attenzione / ai tormenti che avrà passato quel giovane valoroso. / Quante madri hanno pianto, col cuore fatto a pezzi / quanti padri fratelli e sorelle si sono salutati senza sapere / se chi partiva sarebbe ritornato o dove sarebbe andato a finire. / Combatté contro i nemici con le sue paure e il suo coraggio / patì fame e freddo, con la morte negli occhi. / Qualcuno riuscì a tornare coi suoi pensieri tragici / molti rimasero dispersi, chissà dove riposano in pace, / si sono perdute pure le ossa nelle fosse senza croci. / Siamo senza cuore quando passiamo e non guardiamo quel soldato / che ha perduto la sua vita per noi che ora siamo qui, / non pensiamo alle tragedie che la guerra ha consumate. / E ai bambini di allora nessuno insegnò / che morì per tutti gli altri quell’eroe di soldato. / Ora mi sovviene quand’ero bambino, / e con il senno dell’età mi rimorde la coscienza, / mi conforta l’innocenza di chi non sapeva quasi nulla / che chiamavamo quel soldato / “il pupo del monumento”.


La rriunian

Iea n’u suò se è trania
se si peard ‘ssa ginia
di ‘ss papul taneard
chi ghji pansa sampr teard
a rrissurvir questiuoi pi pular ster buoi.
Ni si trova mei d’accard
meanch ntô muoru di parder
e se chercun vau custruir
d’eutr pansa a sdirrupper.
Dai! Scrivuoma u sanfraridean…
Ara fuoma accuscì…
Ma chi dij, nin ghj’è bisagn…
giea ghji fu chi u scrivì…
Nà! accuscì pi iea ni è ban,
mi mangiuoma trappi “i”.
Arrispaun d’eutr e s’alitica
chi ntô scalan ghji vau la “ch”,
n’eutr ancara vau a Frareu
cu la “a” prima di la “u”,
arrispunò chi stea scrivann:
ma se la “a” la vau Frareu
u stiss veu pi miscuteu,
pi caveu e pi pusteu.
A la fini m’accurdämu, dicirimu pi Frareu.
Iea ni mi maravoghj pi ‘ssa indoli nviriausa
suoma fätt accuscì
prisuntausg e vanitausg,
tantìan spagnuoi e tantìan frangiasg,
tantian ierab e saracì,
tantìan rrumei e puru grech;
ni mi n fuoma maravoghja
se n’arrivuoma a ster mpesg.

La riunione
Io non so se è una sfortuna / se si perde questa stirpe1 / di questo popolo ottuso / che ci pensa sempre tardi / a risolvere i problemi per potere star bene. / Non si trova mai d’accordo / neanche sul modo di parlare e se qualcuno vuole costruire / l’altro pensa a demolire. / Dai! Scriviamo il sanfratellano… / Ora facciamo così… / Ma cosa dici, non c’è bisogno… / No, così per me non va ne, / ci mangiamo troppe “i”. / Risponde l’altro e di litiga / che in scalone (gradino) ci vuole la “ch”, / un altro ancora vuole Frareu (Filadelfio) con la “a” prima della “u”, / risponde chi sta scrivendo: / ma se la “a” la vuole Frareu / lo stesso vale per “miscuteu” (biscotto) / per “caveu” (cavallo) e per “pusteu” (postale). / alla fine ci siamo accordati, abbiamo deciso per Frareu. / Io non mi meraviglio per questa indole invidiosa / siamo fatti così / presuntuosi e vanitosi, / un po’ spagnoli e un po’ francesi, / un po’ arabi e saraceni, / un po’ romani e pure greci; / non meravigliamoci / se non riusciamo a stare in pace.


1 Ovviamente parla con ironia dei suoi concittadini e si riferisce in particolare ad una riunione conseguente alla pubblicazione di “Â tabunira” di B. Di Pietro (Progetto galloitalici – Università di Catania, 1999) in cui venivano dati i primi elementi sulla scrittura del dialetto locale.

[continua]


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