Racconti di Guido de Marco


UNA STRAORDINARIA AVVENTURA

Mia madre e mio zio, suo fratello, erano, e sono, proprietari di due appartamenti ampi e molto eleganti, siti sullo stesso piano, nel centro di Roma. Mio zio, Mario, noto avvocato, e mia madre Lisetta si sposarono entrambi nell’arco di un mese: A distanza di un anno io venni al mondo, e dopo due mesi nacque Paolo, mio cugino. Purtroppo la sua mamma morì nel darlo alla luce
Questa tragedia influì molto sul nostro rapporto poichè mia madre, legatissima al proprio fratello, avendo montate latte abbondanti, volle essere lei ad allattare Paolo, e nel tempo che seguì se ne occupò come fosse un altro suo figlio. Noi, dunque, crescemmo sempre assieme: stesso asilo, stesse classi, perfino, stesso corso di lingue nella stessa università: Non ci consideravamo più dei cugini, ma proprio fratello e sorella, per cui il nostro affetto era profondo, e ciascuno era per l’altro il confidente e il consigliere. Io gli raccontavo le mie prime esperienze amorose, i miei flert, le mie passioncelle, con tutti i particolari, anche i più intimi, lui, invece, questi li evitava.
Ci laureammo assieme, con ottimi voti, e quasi subito ottenemmo la cattedra per l’insegnamento. Paolo a Viterbo ed io a Roma.
Avevo ventotto anni quando mi innamorai perdutamente di Andrea, avvocato nello studio dello zio, e, di lì a poco, ci sposammo. Naturalmente il mio testimone di nozze fu Paolo. Io mi sentivo completa nel rapporto d’amore e di sesso. La nuova condizione, tuttavia, non mi allontanò da Paolo, ed egli continuò ad essere il mio unico e caro confidente.
Un giorno, dovendo raggiungere mio marito a Parigi, dove si trovava per un affare importante, per trascorrere con lui qualche giorno di svago e d’amore, mi accadde una cosa straordinaria che non avrei mai pensato potesse accadermi:
Non amando i voli, ho optato per il treno, ed i lunghi percorsi ho sempre preferito farli di notte, in una comoda cabina letto, singola, per avere tutta l’indipendenza e la libertà che, in una situazione del genere, l’eesere soli consente. Ma quella volta, all’atto della prenotazione, non vi erano più cabine singole disponibili, per cui, non volendo rinviare la partenza, ho optato per un posto di prima classse in una cabina letto “doppio donna”.
Il giorno dopo, il taxi che mi accompagnava, causa un ingorgo stradale, mi lasciò all’ingrasso della stazione solo qualche minuto prima dell’orario previsto. Entrai proprio mentre l’altoparlante annunciava l’imminente partenza del mio treno. Di corsa, trascinandomi dietro la valigia a rotelle, feci appena in tempo a raggiungere la mia carrozza, salire e richiudere lo sportello, che il treno partì.
La giornata era stata una delle più calde di quel fine luglio e l’umidità rendeva ancora più sgradevole la sensazione di calore e di afa opprimente. La frescura dell’aria condizionata mi fece, per un attimo, rabbrividire, ma fu tonificante, come, sotto a una doccia, l’impatto del primo getto d’acqua ancora freedda che scivola lungo il corpo nudo e accaldato.
Ero ferma, valigia a terra, sulla piattaforma d’ingresso nel corridoio della vettura, a riprendere fiato. Mi venne incontro l’addetto alla w l, e mi chiese i biglietti di viaggio. Visualizzò il numero del
posto, e presa la valigia, mi fece strada fino alla cabina indicata dalla prenotazione. Bussò leggermente alla porta che immediatamente venne aperta dall’altra occupante che già si trovava all’interno. Posai la valigia a terra nella cabina, e all’addetto, che intanto era ritornato con una bottiglietta di acqua minerale ben fredda, ordinai la colazione per il mattino seguente; lo ringraziai e chiusi la porta. Mi girai e mi trovai di fronte ad una giovane donna che, avendo assistito dal finestrino alla mia corsa, mi sorrideva : era la mia compagna di viaggio. Mi invitò a sedermi per
riprendermi del tutto e, aperta con grazia la bottiglia, riempì la metà del bicchiere e me lo porse.
Gradii tanto quell’acqua fresca, ma ancor di più la delicatezza dl gesto.
Mi ero finalmente rilassata. Ringraziai per la cortesia e dissi che io andavo a Parigi. Mi rispose
con un sorriso e aggiunse che anche lei andava a Parigi, e si sedette di fronte a me sul lettino.
La giovane donna era davvero carina; aveva un corpo sinuoso, un didietro rotondo e perfetto,
delle gambe snelle e affusolate, lasciate, dalla ridottissima minigonna, all’ammirazione quasi completa della loro estensione. Pensai fosse una modella. Ma ciò che mi colpì, facendomi avvertire una specie di vibrazione interiore, furono i suoi occhi da cerbiatta, profondi e vivaci che sprigionavano uno sguardo non di incertezza, bensì di dolcezza e nello stesso tempo, di delicata aggressività, di ricerca, quasi interrogativa, in attesa di una risposta desiderata, di una reazione gradita.
Distolsi lo sguardo perchè mi sentivo confusa e stranamente eccitata. Cercai di non darlo a vedere
e finsi di cambiare posizione. Mi alzai e mi risedetti di fianco, poggiando una gamba piegata sul
lettino l’altra col piede a terra. Quel movimento, senza alcuna mia intenzione, aprì ampiamente lo
“spacco” laterale della mia gonna, mettendo in evidenza tutta la mia gamba, fin quasi al linguine.
L’espressione sul viso della giovane donna mi parve di sorpresa e mi portò ad abbassare lo sguardo,
e vedendo la mia gamba così esposta, istintivamente tirai su il lembo della gonna per coprirla. Lei
sorrise e disse: “ O su, non si preoccupi, siamo tra donne!”. Per quanto fosse gradevole la mia compagna di viaggio, anch’io non ero certo da buttar via. Non si notavano affatto i miei
trentadue anni appena compiuti. I miei seni erano ancora quelli di una ragazza, sodi e senza bisogno di sostegni, rotondi come una mezza grossa arancia su cui svettavano due capezzoli irti pronunciati come due more bianche. Le gambe, ben tornite, erano sostenute da due caviglie lunghe e sottili. Il mio giro vita era abbastanza decente ed i fianchi ben modellati.
Iniziammo, quindi, a parlare del più e del meno, scambiandoci i nomi. La chiaccherata durò a lungo tanto da indurci, nella reciproca simpatia crescente, a darci del tu. L’ora si fece tarda e noi riducemmo il nostro tono di voce per non disturbare gli altri viaggiatori,sino quasi a bisbigliare. Decidemmo, alla fine, di provare a dormire. Prima, però, – disse Eva (così aveva detto di chiamarsi) – desidero darmi una rinfrescata, come faccio sempre prima di andare a letto. Si alzò, si tolse la maglietta di cotone a mezze maniche che aderiva perfettamente al suo corpo. Ma non si fermò lì.
Con un movimento semplice e flessuoso sganciò il reggiseno, rimanendo a busto scoperto, e mostrando due piccoli seni, piacevoli e delicati, da cui sporgevano come due punte di lancia, capezzoli
turgidi e pronunciati. Tirò su lo sportello del lavabo, aprì l’acqua, si bagnò abbondantemente le mani e cominciò, con estrema disinvoltura, a lavarsi. I suoi movimenti non erano veloci ed energici,
ma delicate carezze sulle braccia, al collo e in fine ai seni, con una grazia ed una lentezza disperatamente eccitanti. Io la guardavo quasi ipnotizzata mentre sentivo delle sensazioni mai provate prima.
Alla fine si asciugò con la tovaglietta presa dall’armadietto e, rivolta a me, disse :”Vuoi farlo anche tu ?”. Senza rendermene conto, mi alzai e mi tolsi la camicetta. Eva mi fece posto e si sedette così
com’era, sul lettino. Aprii l’acqua e cominciai a lavarmi, quando sentii delle dita delicate sfiorarmi
la schiena e sganciarmi il reggiseno. “E’ meglio toglierlo – disse Eva – così eviti di bagnarlo”.
Io non risposi, ma mi impegnai a fare gli stessi movimenti che avevo visto fare a le i nel carezzarsi,
con le mani bagnate, il seno. Mi asciugai e mi voltai per andare a letto. Eva, intanto si era tolta la minigonna, restando in sole mutandine, ricamate sui fianchi, ma lisce e trasparenti al centro. Risaltava, così, un perfetto triangolo di riccioli neri sotto ai quali, quasi a voler emergere, si notava uno sviluppato monte di venere che faceva descrivere alla parte delle mutandine che lo coprivano, un’eccitante protuberanza. Eva si era alzata per lasciare libero il mio letto. Decisi di togliermi con indifferenza la gonna e, senza indossare nulla, sollevai il lenzuolo e mi sdraiai nel letto coprendomi.
Eva, allora, spense la luce centrale ed accese quella di notte. “ Non ho ancora sonno – disse – se ti
va, resto ancora un po’ qui a farti compagnia”. Avrei voluto riuscire a rispondere che avevo sonno
e che avrei gradito dormire, ma non era la verità : io desideravo che lei restasse ! Così dissi che avevo anch’io piacere che si fermasse ancora un poco. Eva sorrise e si sedette sulla sponda del letto
all’altezza della mia vita: Quel movimento fece scendere il lenzuolo fino a lasciarmi un seno scoperto. Non feci nulla per ricoprirlo, anzi desideravo che lei lo guardasse avidamente e lo carezzasse con quelle sue mani affusolate e con le sue dita agili e mobili. Quasi avesse letto il mio pensiero,
d’improvviso la sua mano si pose delicatamente sul mio seno scoperto. Rabbrividii e rimasi immobile; solo i miei occhi erano in grado di parlare ed Eva vi lesse subito il mio irrefrenabile desiderio. Con l’altra mano tirò giù, fino in fondo, il lenzuolo che mi copriva, e, con una tranquilla noncuranza, guardandomi negli occhi, mi sfilò lentamente le mutandine.
Quello che successe in seguito è quasi indescrivibile per le mille e mille sensazioni che quella strana e meravigliosa creatura mi aveva fatto provare e che ci coinvolse entrambe. Quell’estasi andò avanti per diverse ore, fino a quando, stremate, ci addormentammo abbracciate.
Al mattino, mancava ancora più di un’ora all’arrivo a Parigi, Eva si alzò, si lavò, si rivestì e, sfiorando con le sue le mie labbra, mi accarezzò per svegliarmi. Io ero sveglia già da tempo e non riuscivo a capacitarmi di quanto era successo. Non ero però dispiaciuta, nè, tantomeno, pentita, anzi,
pur volendo che restasse un’esperienza unica, perchè amavo profondamente mio marito, sarebbe stata la più bella e la più importante e indimenticabile.
Dopo essermi lavata e rivestita, mi sedetti accanto ad Eva, cercando di spiegarle, con imbarazzo, la
mia sorpresa per quanto era accaduto, e che tuttavia, era stata, sotto l’aspetto erotico, la più bella
notte della mia vita. Eva sorrise e mi disse : “vedi, cara, anche quando amano con sincerità, gli uomini sono, dal punto di vista sessuale, non per loro colpa, ma per natura, fortemente egoisti, e poi,
come hai potuto tu stessa constatare sta notte, solo una donna può sapere cosa desidera esattamente un’altra donna e quali siano le sue modalità ed i suoi punti erotici preferiti”. Alla luce di quanto
era accaduto, non potei che condividere quanto mi diceva.
Intanto il treno stava entrando nella stazione principale di Parigi. Mio marito era lì ad attendermi. Eva ed io ci salutammo, senza dir nulla, con un abbraccio. Ci accingemmo a scendere come se non ci fossimo mai conosciute. D’altra parte, oltre ai nomi, non ci eravamo scambiate nè indirizzi, nè
numeri telefonici. L’abbraccio con mio marito riportò le cose alla consuetudine.
Io non vedevo l’ora di ritornare a casa per raccontare tutto al mio caro cugino. Infatti, appena rientrata gli telefonai dicendogli di venire a trovarmi al più presto quando Andrea era in ufficio.
Nel pomeriggio Paolo venne a casa da me ed io gli raccontai, per filo e per segno, come di solito,
la mia straordinaria avventura. Alla fine, Paolo mi disse: “cara Ester, le esperienze sono sempre importanti e, in questo caso, ti possono aiutare a rendere più intimo e produttivo il rapporto sessuale con tuo marito, perchè potrai parlargli e guidarlo nella vostra intimità; ma guardati bene dal raccontargli la tua avventura : un uomo non accetterebbe mai di essere considerato, nel sesso, infriore a una donna!”.


Regalo di Natale

La vita, in una grande città, si svolge a ritmo costante e serrato, dà quasi l’impressione di un’enorme industria meccanica dove il movimento di ognuna delle sue parti è predisposto e sincronizzato.
La gente per via si muove con rapidità ed è incurante di ciò che le accade intorno, ha fretta! Le strade sono percorse da interminabili teorie di automezzi, interrotte, di tanto in tanto,dal lampeggiare di
un semaforo che permette, a pedoni impazienti, di passare da un marciapiedi all’altro. Improvvisamente, però, per un brevissimo periodo, la metropoli si trasforma, come per incanto, in una immagine quasi fiabesca. Le strade ed i tetti delle case si coprono di un candido manto; le vetrine di ogni negozio si colmano nell’esposizione degli oggetti più belli e costosi, mentre mille luci variopinte sembrano giocare a rimpiattino con le enormi insegne al neon che si
accendono e si spengono per attirare l’attenzione dei passanti.
Il Natale è nell’aria! Anche quest’anno l’incanto si è ripetuto con la solita puntualità. La gioia, l’aria di festa è palese sul volto di ognuno.
La gente s’incontra, si sorride; una ormai inusitata gentilezza rende più gaia la vita. Nella mia famiglia questa festività è particolarmente sentita. I miei si danno un gran da fare attorno all’albero di natale che, da spoglio, quasi informe, sta già acquistando un’aria gioiosa e brillante. Spesso, nel rincasare, qualcuno, dopo un saluto affrettato, va quasi di corsa a riporre nella propria camera le strenne che al momento opportuno compariranno ai piedi dell’albero.
Oggi uscirò anch’io per scegliere piccoli doni per i miei cari. Certo i miei pochi risparmi non mi permettono grandi spese.
Il freddo, nel pomeriggio, s’è fatto più intenso. Ha smesso di nevicare, ma grosse nubi scure s’addensano minacciose nel cielo. La gente comunque, incurante, si sofferma a rimirare le tante vetrine in cerca di ciò che le interessa, mentre molte persone escono dai negozi con espressione compiaciuta e soddisfatta per gli acquisti fatti. Anch’io cammino allegramente cercando di trovare ciò che fa per me. Ogni tanto mi fermo incantata al cospetto di vetrine con abiti da sogno, o affollate di ogni sorta di giocattoli, o colme fino all’inverosimile di dolciumi e leccornie squisite. Tutto a un tratto, con un assordante boato, il cielo si squarcia ed una pioggia scrosciante e fitta si riversa implacabile sulla città. La scena che ne segue ha dell’allucinante: la gente, come impazzita, corre da tutte le parti, chi cerca scampo nei negozi, chi dentro i portoni, chi si addossa al muro riparandosi sotto un balcone. Ci si urta senza neanche voltarsi o chiedere scusa; la cortesia sembra improvvisamente scomparsa. Pochissimi ancora non hanno trovato riparo e sembrano delle strane ombre in mezzo a tutte quelle luci lampeggianti alle quali si sono unite, meno frequenti ma più abbaglianti, quelle dei fulmini. Ormai i marciapiedi sono del tutto deserti ed anche le luci, per effetto dei forti lampi e dei tuoni, si spengono a brevi intervalli. L’effetto è veramente suggestivo. Io ho trovato riparo sotto il porticato di un negozio di giocattoli. Ad un tratto, la mia attenzione è attirata da un bimbo : non avrà più di nove anni, coperto soltanto da una maglietta a righe rosse e blu, piena di buchi
e da una giacchetta troppo piccola con le maniche che non arrivano a coprire del tutto le braccia, un pantaloncino corto sorretto da un’unica bretella e scarpe senza lacci e così malandate da far penetrare la fanghiglia in cui, ormai, si era trasformata la neve.
Lo vorrei chiamare, ma capisco che non sentirebbe. I suoi occhi sono inchiodati a rimirare la sequenza di giocattoli, ultimi successi della tecnica moderna, esposti nella vetrina accanto a me. A un tratto mi decido, faccio un passo lateralmente, lo afferro per un braccio e lo trascino al mio fianco. Non ti sei accorto che piove? – gli domando – No – mi risponde. E mentre tento di asciugarlo con la sciarpa di panno che mi ero sfilata da sotto il cappotto, – non hai freddo? – gli chiedo – si, ma sono abituato – mi risponde. Cosa stavi guardando? – gli domando – e lui, quasi con vergogna – quel trenino elettrico con tutte quelle gallerie e quelle luci. Una profonda commozione mi inumidì gli occhi, e, sperando che i miei cinquanta euro, disponibili per le piccole strenne dei miei, potessero bastare, presi il bimbo per mano e – vieni – gli dissi – entra con me! Il fanciullo, stringendo forte la sua mano gelata alla mia, mi seguì senza dir nulla. Il calore interno del negozio, al quale non era abituato, lo fece sussultare. Mi diressi verso un signore che stava dietro al banco e che pareva essere il proprietario, e gli dissi: mi dia un trenino elettrico come quello che è esposto in vetrina! Il signore mi sorrise e disse: ma lo sai quanto costa? Duecento euro, li hai? No – risposi – ho solo cinquanta euro; ma non è per me, è per questo bambino povero, lo vede com’è? Anche per lui è Natale. La ripagherà il buon Dio! Il proprietario, imbarazzato, sorrise disse: ma non ti preoccupare, vedrai che glielo comprerà il suo papà! Il bimbo, che fino ad allora era rimasto in disparte, timidamente e con gli occhi bagnati da un pianto senza più lacrime, disse: io non l’ho più il papà! A questo punto, il vocio degli astanti, che prima era quasi assordante, mutò in silenzio assoluto e tutti si volsero dalla nostra parte. Il proprietario, più imbarazzato che mai, continuò : e la mamma, l’avrai la mamma? – Si – rispose pianissimo il bambino, ma é da tanto tempo che sta a letto, ammalata; ho anche una sorella più grande che fa la serva e porta qualcosa a casa, ed un’altra, più piccola di me. Bene, soggiunse il proprietario, ormai al colmo del disappunto e non abbastanza umano da rimetterci il suo giocattolo, – allora corri a casa che la mamma, altrimenti, starà in pensiero! – il mio singhiozzo si confuse col pianto sommesso del bimbo che, lentamente stava avviandosi verso l’uscita. Un momento! Intervenne una voce alle nostre spalle. Un signore, trincerato dentro un cappotto dal collo ricoperto da una pelliccia calda e soffice, con un cappello di feltro che non bastava a nascondere la commozione nei suoi occhi, rivolgendosi al proprietario, disse: incarti quel giocattolo, lo pago io! Grazie – risuonò la fievole voce del bimbo – ma non fa nulla, a me è bastato vederlo. Ma no, ma no, insistette il benefattore, ma il bimbo interruppe, – allora – disse – se vuole essere tanto buono, mi regali quella bambola che parla; sa, io posso vederli nelle vetrine i giocattoli, ma la mia sorellina è ancora piccola per poter uscire da sola, e sarebbe veramente felice se potesse avere una bambola come quella; lo so, perchè ieri sera, nella preghiera a Gesù, ho sentito che chiedeva a Lui di portarle una bambola parlante per il Santo Natale. Il signore non riuscì a parlare; fece soltanto un gesto al proprietario che subito incartò la meravigliosa bambola e la porse al bimbo. Il bambino l’afferrò, corse dal benefattore, lo guardò negli occhi, gli prese la mano, la baciò e scappò via.
Io uscii dietro di lui, lentamente: lo vidi correre a distanza. Non pioveva più e le strade erano di nuovo invase dal trambusto natalizio. La gente sorrideva nuovamente: la cortesia era ricomparsa col cessare della pioggia. Ormai non avevo più voglia di fare acquisti: pian piano, mi avviai sulla strada del ritorno a casa. Mille pensieri mi passavano per la mente. Ad un tratto intravidi una chiesa dall’uscio aperto, vi entrai; era vuota. Mi sospinsi fino all’altare e mi inginocchiai di fronte al Santissimo. Perchè, perchè – Gli chiedevo – perchè i buoni ed i cattivi, i ricchi ed i poveri, i sani e gli ammalati…... mentre due piccole lacrime mi rigavano le guance, gelide per il freddo. Ma una voce, una strana voce, mi andava dicendo…....... suvvia, non piangere….......e ricorda: beati i poveri di spirito perchè di essi è il regno dei cieli, beati i sofferenti, gli ammalati, i giusti, perchè di essi è il regno dei cieli…...
Una gioia infinita m’invase. Mi alzai, ringraziando il Signore e corsi a casa. Mi aprì la porta la mamma; l’abbracciai e le dissi: buon Natale, mamma, buon Natale, il Signore è tra noi e non ci abbandona!


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