Occhi persi nel vuoto

di

Ida Acerbo Rossi


Ida Acerbo Rossi - Occhi persi nel vuoto
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 144 - Euro 12,50
ISBN 978-88-6037-8460

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto autore finalista nel concorso letterario J. Prévert 2009


In copertina: fotografia dell’autrice


Introduzione

Non è facile presentare questo scritto per la complessità del tema trattato.
Sono consapevole che molti lettori hanno forse sperimentato dal vivo un dramma simile a quello di Luca, il protagonista della vicenda, e, di conseguenza, possono rivivere l’angoscia di un’esperienza in cui al dolore si unisce, costante, il senso dell’impotenza.
Mi riferisco a Luca perché è probabile che, nella lettura delle prime pagine, l’attenzione sia attratta dalla figura femminile: una giovane donna affascinante, laureata brillantemente in Informatica, il cui unico obiettivo sembra essere quello di emergere nel mondo del lavoro.
Luca se ne innamora la prima volta che la incontra. Il sentimento che prova per lei è così intenso e profondo che finisce con il coinvolgere anche Lidia.
Il fascino e l’intelligenza della donna nascondono, però, un nemico subdolo e insidioso: è affetta da una malattia mentale, probabilmente retaggio di un’infanzia infelice, che non tarda a manifestarsi nell’impatto con il mondo del lavoro.
Si rende conto che la realtà è diversa dai sogni della prima giovinezza e, al primo scacco, reagisce chiudendosi in se stessa, cercando rifugio in un universo fantasmatico, irrimediabilmente scollato dal quotidiano.
Luca non smette di amarla e le sta sempre accanto fino ad essere coinvolto nel suo delirio.
“Amore o ossessione?” gli chiede un amico d’infanzia, cercando inutilmente di indurlo a riacquistare il senso della realtà.
Non c’è risposta a questa domanda e lo sanno bene coloro che sono costretti a vivere con un malato di mente. L’unica speranza è quella di non abbandonare l’ipotesi, per altro improbabile, di un miglioramento o di una guarigione.
A poco a poco chi segue un soggetto affetto da psicosi finisce con il condividerne la sofferenza, anche più intensamente se, come nel caso del protagonista di questo racconto, si insinuano dubbi, incertezze accompagnate da una feroce autocritica.
Non è un caso raro. Quanti genitori, coniugi e parenti, vivono, ogni giorno, un dramma simile a quello di Luca, cercando disperatamente una via d’uscita?
C’è chi sostiene che la psicosi è una malattia del nostro tempo.
Preferisco pensare che i progressi della medicina, in questo caso della psichiatria, abbiano permesso di definire un quadro clinico preciso a fronte di una varietà di sintomi a cui, decenni fa, si davano le interpretazioni più disparate.
Resta il problema della sofferenza, resa ancora più intensa dal fatto che il malato raramente è consapevole della sua condizione e della necessità di cure, anche farmacologiche; si limita a osservare la realtà con un’ottica distorta, intrisa di diffidenza, ossessionato dal sospetto che i familiari o coloro che si prendono cura di lui possano incidere negativamente sul suo quotidiano.
La capsula impenetrabile in cui ha scelto di chiudersi diviene ogni giorno più spessa ed è difficile, a volte impossibile, instaurare una qualsiasi forma di dialogo.
Chi vive con una persona psicotica conosce bene questo calvario anche se la speranza di un miglioramento è una luce, sia pur fioca, che accompagna il cammino incerto in un tunnel di cui, troppo spesso, non si intravede l’uscita.

L’autrice


Occhi persi nel vuoto

Prologo

Luca si alza di scatto dalla poltrona dello studio per accendere una sigaretta, ma, dopo le prime boccate, la spegne. Entra in cucina. Il frigo è quasi vuoto, ma l’acqua minerale non manca. Il liquido freddo scende in gola, regalandogli qualche attimo di sollievo.
“A questo punto ci vorrebbe un caffè” ma rinuncia perché si rende conto di averne già bevuti troppi. Guarda l’orologio al polso: le quattro e un quarto. Cerca di ricordare con precisione quando Lidia è uscita. Forse intorno alle tre.
Gli è comparsa davanti all’improvviso mentre lui stava lavorando al computer, il corpo snello fasciato da jeans e maglietta. Una sinfonia di azzurro in sfumature diverse: un armonico contrasto con il rame dei capelli raccolti in un morbido nodo alla nuca.
Sul volto pallido la consueta espressione immota, come se aleggiasse in un’altra dimensione.
La totale mancanza di comunicazione è ciò che gli fa più paura. Anche quando sono vicini sembra che lei non si accorga della sua presenza.
“Vado a comprare le sigarette” la voce è dolce come un sussurro.
“Starai via molto?”
Nessuna risposta.
“Vuoi che ti accompagni? Potremmo andare a prendere un gelato o fare un giro a guardare le vetrine”. La voce di Luca è incerta, consapevole dell’inutilità del tentativo.
“Preferisco uscire da sola e, poi, tu stai lavorando”.
Lo scatto della serratura, il consueto brivido.
E adesso è lì ad attenderla e, a ogni istante, l’ansia cresce. Comincia a passeggiare nervosamente per la stanza.
“È pieno giorno, non c’è motivo di preoccuparsi” mente a se stesso ma non riesce a controllare la ridda dei pensieri che si agitano, come uccelli impazziti, nella mente.
“Dove può essere andata? Avrà preso la macchina?” Sente le membra rigide, consapevole che il corpo non riesce a seguire le idee che si affacciano nella mente.
Sarebbe semplice scendere nel box e controllare ma non ha il coraggio di farlo.
Le mani sono umide di sudore, le tempie pulsano così forte da fargli male e non ha la forza di prendere una iniziativa anche semplice. Inutile illudersi di avere la concentrazione necessaria per lavorare.
Lidia. Inconsapevolmente si è impadronita della sua esistenza e, ormai, costituisce il punto focale di ogni pensiero, di ogni progetto. Nei momenti di lucidità si rende conto di vivere unicamente in sua funzione. È una sensazione che non riesce a spiegare neppure a se stesso.
Improvvisamente percepisce il rumore dell’ascensore che si ferma al piano, poi la chiave nella serratura.
Sollievo. Le membra si distendono e ha l’impressione di essere uscito da un tunnel.
Vorrebbe correrle incontro, come se non la vedesse da anni. Riesce a stento a controllarsi.
Finalmente lei entra nello studio.
“Hai lavorato?” La sua voce: una musica senza note. Sente il desiderio di stringerla fra le braccia, di scuoterla da quell’ottuso sopore. Comprende che sarebbe un gesto avventato con l’unico risultato di metterla in allarme.
“Non ho combinato molto” risponde sorridendo “quando sei fuori non riesco a concentrarmi. Mi manchi”.
Sul volto di lei nessuna reazione quasi non avesse udito le sue parole.
“Vado a stendermi sul letto, sono stanca”.
“Per oggi non uscirà più” pensa Luca. Conosce gli effetti collaterali delle pastiglie che assume ogni giorno, fra questi una stanchezza profonda.
Rimasto solo si avvia verso la cucina. Con gesti automatici riempie la macchinetta del caffè.
“Uno di più non può farmi male” ha bisogno di una gratificazione e il caffè è la bevanda che preferisce. Amaro, ristretto.
Quando è cominciato tutto questo? Non è un episodio occasionale ma una costante che accompagna, istante per istante, la sua esistenza. Ogni volta che Lidia esce da sola, l’angoscia lo paralizza. Il motivo c’è, ma quel sentimento agghiacciante che prova, va al di là della preoccupazione, senza dubbio giustificata, per le condizioni di salute della moglie.
Ha l’impressione di essere sull’orlo di un baratro in cui, da un momento all’altro, potrebbe precipitare.
Una decisione improvvisa.
“Voglio scriverti, Lidia” pensa “voglio ripercorre i punti più significativi della nostra storia. Non è facile perché questi anni sono stati un avvicendarsi di fasi diverse. Abbiamo vissuto periodi di tenerezza struggente e di passionalità esaltante e momenti in cui la routine del quotidiano sembrava quasi intollerabile. Forse non leggerai mai queste righe, sento che ti stai allontanando verso sentieri che solo tu conosci. Non posso seguirti ma ho ancora nel cuore la speranza che tu possa comprendere e, soprattutto, aiutarmi a cercare la ragione per cui ci siamo allontanati. Il punto del non ritorno.
Non è stata soltanto la tua malattia a dividerci anche se non posso negare che abbia giocato un ruolo importante. Ci sono stati episodi apparentemente insignificanti, piccole e grandi incomprensioni ma, soprattutto, abbiamo scoperto, giorno dopo giorno, di essere diversi. Radicalmente.
Il mio è un tentativo inutile, lo so, ma sento la necessità di dare forma tangibile ai dubbi, ai timori, alle speranze per ritrovare quel filo sottile che lega, in modo imprevedibile, logica e sentimento”.


Oggi

Sei seduta sul divano del soggiorno, indifferente alla mia presenza. Non immagini che le parole che sto digitando sulla tastiera del computer siano dirette a te.
È tanto che desidero fare il punto della situazione, analizzare il nostro rapporto perché negli ultimi mesi la sofferenza che scaturisce dal non essere più in grado di comunicare è un peso che non riesco a tollerare.
Non ti accorgi di questo, chiusa in un universo di fantasie sofferte, di illusioni che si sgretolano a contatto con la realtà del quotidiano. Sei mia moglie ma ho l’impressione di avere vicino un’ombra eppure cerco con tutte le forze di farti sentire la mia presenza, di trasmetterti il messaggio che sono pronto a fare qualsiasi cosa, a mettere in gioco la vita se necessario per farti uscire dal limbo in cui ti sei rinchiusa. So che non stai bene, anche se non comprendo quanto sia grave la malattia che ti impedisce di condurre una vita normale. I medici parlano di psicosi(1), ma sono perplessi. Forse, nei casi come il tuo, è difficile formulare una diagnosi precisa e gli specialisti si limitano a prescrivere pastiglie, in dosaggi più o meno forti, nella speranza di aiutarti ad abbattere il muro che ti separa dalla realtà intorno.
Eppure a volte ho l’impressione che alcuni comportamenti, senza dubbio anomali, nascondano una rabbia profonda, un desiderio intenso di aggredire i fantasmi delle illusioni, di annullare, con un colpo di spugna, una realtà che non vuoi affrontare perché troppo diversa dai sogni della prima giovinezza.

––––––––––
Psicosi: disturbo mentale caratterizzato dalla perdita del rapporto con la realtà. Sono presenti il più delle volte disturbi del pensiero e del comportamento e difficoltà nell’adattamento sociale. Nei casi più gravi si manifestano allucinazioni visive e acustiche, delirio, comportamento anomalo.


5 marzo 2006
…una mattina all’Università

Ricordo il giorno in cui ti ho conosciuta, tre anni fa.
Eravamo davanti all’aula di Fisica della facoltà di Informatica e quello era uno dei nostri ultimi esami. Non ti avevo mai incontrata, ne sono certo. Come avrei potuto dimenticare il rame dei tuoi capelli che il sole accendeva di lampi dorati? Eri pallida. I lineamenti del viso contratti. Parlavi con uno studente ma avevo l’impressione che il tuo fosse semplicemente un monologo per scaricare la tensione.
Avevi grinta, determinazione e una luce intensa nello sguardo. Ascoltavo ciò che dicevi con apparente interesse ma ero attratto dalle labbra morbide e delicatamente rosa, dall’incarnato perfetto nel suo pallore.
Un’ora dopo sedevamo a un tavolo del bar dell’Università contenti di aver superato l’esame. Dicevi che avresti desiderato una valutazione più alta ma si intuiva che eri sollevata.
Da quel giorno avevo cercato ogni pretesto per starti vicino, come amico, come confidente, come spalla su cui piangere. Il tempo passava. Ci eravamo laureati. Noi due insieme, sempre. E il desiderio travolgente di fare qualche cosa di straordinario. Tu desideravi la fama, il successo, la carriera, io ero più orientato verso i problemi della ricerca. Non ero ambizioso.

Lidia si è improvvisamente alzata dalla sedia con l’espressione assente ma, al tempo stesso, tesa.
“Vuoi uscire?” le chiede Luca. La sua voce trema e solo lui sa il perché.
Non ha più voglia di scrivere ma si è proposto di continuare a farlo anche se prevede che le interruzioni saranno molte. Forse non avrà mai il coraggio di farle leggere quelle parole: per ora desidera soltanto riflettere e valutare se qualche cosa della loro unione si può ancora salvare. Ma Lidia è lontana… troppo. Talvolta ha l’impressione che intuisca appena la sua sofferenza. Una sollecitazione leggera che sfiora la pelle come una piuma.
Sono già cinque minuti che è uscita. Lo sguardo fisso sull’orologio si sente pervaso da un’ansia inspiegabile. Perché non gli ha permesso di accompagnarla? Perché questo spasmodico desiderio di solitudine? Non ha più la forza di continuare… con uno scatto secco chiude il computer ma è certo che, nei giorni successivi, riprenderà il discorso interrotto.


22 marzo 2006
… sboccia l’amore

“Sei appena tornata a casa e ancora non riesco a smaltire l’angoscia della tua assenza” pensa Luca “forse non sono solo io ad avere bisogno di uno psicoanalista”.
Gradualmente, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo è entrato nel suo mondo, con la paura di chi si avventura in un sentiero denso di incognite.
La guarda per cercare di ritrovare il sorriso della Lidia di qualche anno prima, della donna che ha amato e ama ancora come mai avrebbe creduto possibile.
È cambiata, tanto, e, a volte, fa fatica a riconoscerla ma il sentimento che prova per lei non è diminuito anzi cresce giorno dopo giorno. A volte la sua dolcezza gli fa pensare a un uccello implume, altre, invece, la ribellione esplode violenta e gli rivolge delle accuse terribili. Questo accade prevalentemente la sera quando è costretta ad assumere le pastiglie antidepressive.
“Vuoi che diventi simile a un vegetale, vuoi annullare il desiderio di emergere che ho sempre avuto? Guarda come sei ridotto, un programmatore che lavora a casa perché non ha il coraggio di uscire dal guscio. Da domani basta con i farmaci perché sono quelli che mi fanno stare male e mi tolgono qualsiasi forma di energia”.
In genere Luca lascia che sfoghi la sua rabbia. È il muro di gomma contro il quale si scaglia disperatamente per sfogare le frustrazioni. Si rende conto che non è lei a parlare ma i fantasmi che dominano la sua psiche impedendole di condurre una vita normale e, soprattutto, di avere una visione lucida di quello che accade intorno. Gli sembra di vederla fluttuare in una realtà che solo lei conosce, trasparente ma impenetrabile.
Non vuole continuare a parlare del presente perché si è proposto di ritornare, con la magia del ricordo, ai primi anni della loro vita insieme.

I giorni più belli sono stati quelli in cui ci siamo resi conto che l’amicizia che ci univa si stava trasformando in un sentimento diverso. Attimi magici. Bastava uno sguardo, un sorriso per accendere un tumulto di emozioni.
Una sera di primavera.
Io mi ero laureato all’inizio dell’anno ma tu avevi voluto attendere perché non eri pronta. Ti mancava soltanto un esame e continuavi a studiare con accanimento per ottenere il massimo del punteggio.
Stavamo passeggiando in un viale alberato di Parma, dove allora abitavamo. Ti cingevo la vita e sentivo il calore inebriante che emanava dalla tua persona. In quel momento eri fragile, desiderosa di protezione, un modo di essere per te non abituale.
I nostri sguardi si erano incrociati e mi avevi abbracciato a lungo, incurante dei passanti.
“Ti amo Luca”
“Ti amo Lidia”.
Da quella sera il nostro rapporto era cambiato. Dopo qualche mese avevamo deciso di trasferirci a Milano in un bilocale vicino all’Università ma, la cosa più importante, ti avevo proposto di vivere insieme. Dapprima eri rimasta sconcertata:
“È troppo presto e… se qualche cosa fra noi dovesse cambiare? Sarebbe ancora più doloroso separarci. Non hai pensato che il mio lavoro potrebbe costringermi ad abbandonare, per periodi brevi o lunghi, l’Italia… io non ho intenzione di rinunciare alla carriera, lo sai bene”.
Adesso capisco che aveva ragione. Ma ero troppo coinvolto per rinunciare a quel progetto a cui tenevo più di qualsiasi altra cosa.
“Non ti chiuderò in una gabbia dorata” avevo replicato “sarai sempre libera di restare o di andartene. Intanto viviamo questa splendida stagione, poi si vedrà”.
L’avevo convinta. L’attrazione fisica che ci univa era così intensa da offuscare qualsiasi altra considerazione. Non eravamo mai sazi l’uno dell’altro e, nell’amore, scoprivamo sempre qualche cosa di nuovo. Ripensando alla magia di quei giorni sento un nodo di rimpianto stringermi la gola. Vivevamo momenti irrepetibili e la nostra intesa diveniva più profonda.
Non eri ossessionata dall’esame che dovevi sostenere, e, forse per questo, l’avevi superato brillantemente e senza fatica.
Si avvicinava il momento della laurea, era maggio e faceva caldo, come fosse già estate. Inspiegabilmente una tensione acuta si era impadronita di te.
Eri incerta, satura di ansia, andavi quasi ogni giorno all’Università per mettere a punto la tesi con il tuo relatore e ritornavi a casa sempre di cattivo umore.
Ti stavi convincendo che il professore non era d’accordo con l’impostazione che volevi dare al tuo lavoro anzi manifestavi il dubbio che stesse sabotando tutto o in parte il progetto. Un’ipotesi assurda ma non volevi sentire ragioni.
“Su questo argomento ne so più io di lui” mi avevi detto una sera, quando, per l’ennesima volta, ti stavo aiutando a mettere a punto le correzioni. Poi mi avevi abbracciato singhiozzando:
“Sento che non ce la farò. Non riuscirò neppure ad avere il minimo del punteggio”
“Hai la media molto alta, nel peggiore dei casi dovrai accontentarti di quello che hai ottenuto fino ad ora e non avrai il massimo dei voti”.
Mi avevi guardato quasi con odio:
“Ti rendi conto che sono cinque anni che studio senza concedermi una pausa, tutte le mie compagne sono laureate e io sono ancora qui e non so che cosa mi riserva il futuro”.
Ero preoccupato perché mi rendevo conto che eri sull’orlo di una crisi.
Inutile farti presente che molte delle persone che avevano superato il fatidico traguardo non si erano preoccupate di ottenere un punteggio alto. La prospettiva di un posto di lavoro era più allettante.
Finalmente il giorno della laurea. Tutto era stato preparato con cura estrema, le copie della tesi rilegate in tela grigia insieme ai lucidi, per la presentazione dell’argomento. Con sollievo, a mano a mano che le ore passavano, mi rendevo conto che la tensione aveva ceduto il posto a una strana indifferenza, come se la prova che dovevi sostenere riguardasse un’altra persona.
“Preparati uno schema di quello che hai intenzione di dire, il tempo a disposizione è poco e potresti non riuscire a focalizzare l’attenzione sugli argomenti più importanti”.
“Quando la smetterai di recitare la parte del grillo parlante?”
Sorridevi e sembrava volessi prendermi in giro ma io non ascoltavo. Guardavo il vestito scuro che ti fasciava la figura snella e i capelli lucidi, raccolti in una coda morbida che ti sfiorava le spalle.
Quanto ti amavo!
Durante la discussione la Commissione aveva palesemente apprezzato la precisione con cui avevi esposto gli argomenti. Eri riuscita a illustrare con chiarezza alcuni punti, senza dubbio innovativi della ricerca. Il relatore, un uomo piuttosto giovane, ti guardava con aperta ammirazione.
Ero geloso e, al tempo stesso, felice. Durante il brindisi rituale, nel bar adiacente l’Università, ero seduto accanto a te ma facevi di tutto per ignorare la mia presenza. Non una parola, non uno sguardo complice, ti comportavi come fossi un conoscente occasionale.
Stavi vivendo il momento che attendevi da anni. Avevi ottenuto ciò che volevi, il massimo del punteggio e una proposta di lavoro da parte del docente più anziano della Commissione che ti avrebbe permesso di tarare su campo la parte innovativa del progetto che avevi illustrato con tanto entusiasmo.
“Quando vi sposerete?” La domanda era arrivata inaspettata e aveva creato un attimo di pausa incrinando l’allegria generale. Era stata la tua amica più cara a parlare, forse non si era resa conto che non era il momento più adatto per sollevare una questione del genere.
“Anche domani” avevo mormorato a voce bassa, troppo perché le mie parole fossero udite nel frastuono generale.
“Il matrimonio non è un’ipotesi che per il momento abbiamo preso in considerazione, per ora stiamo bene così, viviamo insieme senza essere oppressi dai vincoli di un legame strutturato. Siamo fortunati perché ci vogliamo bene. È come se, ogni giorno, rinnovassimo la nostra scelta senza alcun impegno preciso per il futuro”.
Quella risposta aveva sorpreso molti. Io ti avevo preso una mano per dimostrare che ero d’accordo ma tu, con un sorriso, ti eri allontanata per raggiungere un altro gruppo di persone. Avevi un’espressione radiosa e anche i tuoi genitori, che all’inizio non approvavano la nostra convivenza, mi avevano rivolto uno sguardo in cui potevo intuire un tacito consenso.
Un passo avanti.
La sera, a letto, ti avevo stretto fra le braccia. Eri dolce e, al tempo stesso sensuale, un mix che avrebbe fatto impazzire qualsiasi uomo. Ed eri mia. Eppure sentivo, in fondo all’anima uno struggimento strano, una sensazione oscura come se la simbiosi perfetta che ci univa non potesse durare a lungo.
Adesso comprendo che in un flash assurdo, forse un presentimento, avevo intravisto quello che sarebbe accaduto in un tempo relativamente breve.

Continua

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