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Kahlil Gibran


(Articolo di Massimo Barile pubblicato nella Rivista Il Club degli autori 177-178-179-180 Aprile 2008)


Le parole sussurrate nel giardino del Profeta

Cosa vuol dire amare veramente? Cos‘è l’amore vero? È riversare sulla persona amata tutto il proprio amore seguendola anche all’inferno, con una fedeltà assoluta. L’amore è invisibile come il tempo, emozione divina che rende l’Essere veramente Umano. Pochi sono coloro che conoscono l’amore e, ancor meno, come dinosauri in via d’estinzione, coloro che sono capaci di amare.
A volte mentre scrivo guardo fuori dalla mia finestra, e vedo il cielo. Un meraviglioso cielo azzurro proprio come quello del pacchetto di Camel sulla mia scrivania. E penso. In alto c‘è la limpidezza, l’amore puro, in basso, al mio fianco, il veleno. Il fumo acre della vita che corrode e sgretola e soffoca il mio respiro. Ecco la dicotomia, l’antitesi, di questa nostra vita: il dolce e l’amaro, l’elisir e il veleno.
I giorni sono come gocce che distilliamo da personali ampolle e non rimane che l’entusiasmo come un brivido caldo che sale dalla schiena, la passione per ciò che si fa, l’amore che infiamma il nostro corpo.
Quante promesse e quante bugie dobbiamo ascoltare. Non è mica facile. Non basta essere belli “fuori”, si deve essere belli “dentro”.
Ed è in quei momenti che mi viene in mente un’antica storia. Un giorno, un uomo onesto, un uomo probo, dopo tanto lavoro divenuto ricco, volle capire quale delle quattro donne che aveva conosciuto lo amava veramente e dovesse diventare sua moglie. Con la scusa di un lungo viaggio in luoghi lontani si allontanò da loro. Scrisse quattro lettere e chiese ad ognuna cosa volesse in regalo. La prima donna, che era sempre stata di salute cagionevole, chiese gli ultimi ritrovati medicamentosi e le ultime medicine scoperte e assai costose.
La seconda donna che amava le letture, gli chiese edizioni di libri antichi e rarissimi. La terza donna che amava vestirsi in modo elegante e con tessuti pregiati, gli chiese vestiti alla moda assai raffinati e qualche gioiello con pietre preziose. La quarta donna gli scrisse:
«Non voglio nulla, è abbastanza se torni a casa sano e salvo». Quando lui tornò, consegnò ad ognuna ciò che avevano chiesto. E visse con la donna che aspettava solo il suo ritorno. Le altre tre donne chiesero indignate il perché di questa scelta. E lui rispose: «Perché vi meravigliate. Vi ho dato quello che volevate. Tu volevi le medicine e i medicamenti più costosi. Tu volevi libri antichi e rarissimi. Tu volevi vestiti raffinati e preziosi gioielli. Lei voleva solo me e nient’altro». L’amore deve essere messo alla prova. L’amore viene sempre allo scoperto, non si può fingere l’amore dove non c‘è. L’amore non contempla false maschere, artifizi o infingimenti. L’amore vero scoperchia gli inganni e le falsità così come le parole melliflue ed incantatrici. Amare una donna (o un uomo) significa volere solo il suo bene: preservarla dalle contaminazioni, sentirla come un essere unico, soffrire per la sua assenza e gioire delle sue carezze quando è al nostro fianco, accoccolarsi vicino e confortarla nel momento difficile, essere con lei o lui, essere in lei o in lui. Se non esiste questa fusione di due anime non v‘è amore vero ma solo sottile e tremendo inganno reciproco.
Ecco allora che leggere un poeta che parla d’amore può essere utile per molte donne e molti uomini.
La nostra vita è svelare l’enigma. La parola d’un uomo deve essere sciamanica, il suo pensiero deve essere taumaturgico. Solo in questo modo il suo amore rivela la bellezza senza tempo, la sua forza interiore fa esplodere il falso, la sua bocca domina il silenzio, la sua mano offre l’estasi.
Non vi sono parole più belle da dire ad una donna che: «Lascia che io possa fare rivivere il nostro amore tenendoti tra le mie braccia, giorno dopo giorno, come se il tempo non esistesse, come se il profumo della vita fosse dentro di noi». La “porta” da aprire è questa.
Anche se vi sono esperienze così dolorose al termine delle quali si sente che più nulla potrebbe avere un senso, non si deve mai rinunciare all’amore.
Ecco perché ricordo la gioia negli occhi, i gesti, i sorrisi: sono stati sempre con me. Sono stati un dono unico, capace di creare un incantesimo.
«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi» scriveva Marcel Proust.

«Quando l’amore vi chiama, seguitelo, anche se le sue strade sono ardue e ripide.
E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui, anche se la spada celata tra le sue piume vi potrà ferire. E quando vi parla, credetegli, anche se la sua voce può infrangere i vostri sogni e disperderli»: queste parole di Kahlil Gibran penetrano nell’essenza dell’amore, colgono nel segno, catapultano nella vertigine immane che l’amore porta con sé.
L’amore è una “sostanza” invisibile così come lo è il tempo eppure rappresentano le due colonne portanti della vita: il “tempo” che passa, inesorabile e spietato, non permettendoci di tornare indietro o di fare altre mille cose che avremmo voluto o desiderato fare eppure segna le stagioni della nostra esistenza e ci regala esperienze meravigliose ed irripetibili: l’“amore” che può innalzarci fino al settimo cielo e poi gettarci nella più dolorosa e lacerante perdita della nostra identità fino a renderci “malati d’amore”.
Queste mie parole nascono al suono di una cascata d’una sorgente d’acqua cristallina che diventa, simbolicamente, “fonte di vita”, e capita di ritrovarsi quasi ammaliati da una visione-illuminazione, di fermare la mente come a fissare un “istante eterno”, allo scroscio dello scorrere dell’acqua. E torna il ricordo, e rivivono frammenti dispersi della memoria, come ad alimentare le parole del saggio «non siamo che gocce d’acqua alla ricerca della sorgente».
E si rafforza la convinzione che nell’umano vivere non esiste una verità ma si devono fare i conti con le “verità”: ci affanniamo senza sosta ma non siamo che pulviscolo cosmico alla ricerca della felicità, seppure tutti noi sappiamo che, forse, non è altro che una “sottile astrazione”.
Eppure la ricerca è incessante: così nei sentimenti come nelle manifestazioni del vivere, così nel quotidiano divincolarsi tra le gioie e i dolori come nelle parole d’un poeta. Le porte della conoscenza vanno aperte, per scrutare ciò che esiste oltre il confine d’una visione squisitamente materiale. Sotto le nuvole, all’ombra di alberi secolari, accarezzati dall’aria fresca, come fanciulli inventiamo figure d’animali o segni del destino, ascoltiamo il fragore della vita e il frusciare dei giorni.
Asserragliati in un mondo che tenta disperatamente di rivitalizzare l’ennesima emozione, lottiamo per difendere, con energia e con tenacia, l’esistenza d’un lampo d’amore, di un nuovo entusiasmo che possa offrirci un approdo ad un “porto sicuro”, il raggiungimento d’una méta che ci siamo prefissati.
Ecco allora che ci rendiamo conto che è fondamentale rendere viva e coltivare la propria “oasi mentale”, il luogo del rifugio della mente, dove non esistono più le costrizioni, le limitazioni del tempo e le incombenze del quotidiano vila tragicità degli avvenimenti: il rifugio dell’Uomo. L’amore conduce alla fusione con la persona amata fino a creare una sola anima in due corpi e il poeta offre parole che bruciano: «Provo la più grande delizia quando sento l’anima affamata ed il cuore assetato d’amore.
L’anima che non nutre fame per ‘amore non naviga nello spazio dei sogni. E il cuore che non ha sete non si libra sopra i meandri della bellezza».
E Gibran guarda in ogni direzione perché la sfera dell’essere prende il sopravvento su quella della terrena realtà.
Fin dall’inizio del suo percorso Gibran ha venerato la Natura come una Dea che lo ha accompagnato e sostenuto nella speranza, nei sogni, nei desideri: la sua visione lo ha messo al sicuro dal padre alcolizzato e giocatore d’azzardo nonché finito in prigione per evasione fiscale a causa di traversie non ben chiarite; la sua concezione della vita lo ha aiutato ad affrontare a drammatica situazione del Libano, la sua terra d’origine, e poi a far fronte alle difficoltà quotidiane del vivere che lo hanno sempre visto barcamenarsi per tirare avanti in modo decoroso. Al contrario, nella Natura tutto parla d’amore e, per Gibran, si tratta di autentica sacralità della Natura come una rivelazione della divinità.
Una casa modesta e un piccolo terreno, poi l’emigrazione in America, prima a Boston e poi a New York: da artista ha trasportato nei luoghi dove ha vissuto, le atmosfere della sua infanzia e della sua terra, i colori dei suoi tramonti, le suggestioni e la bellezza del mondo naturale che ha sempre osservato con lo sguardo d’un poeta.
Gibran fu un poeta e un pittore fino a vere e dibattersi. Nel virtuale “giardino del profeta” ritroviamo noi stessi.
Una donna chiese al Profeta: «Parlami dell’Amore». E il Profeta le disse:
«Quando l’amore vi comanda, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese.
E quando le sue ali vi abbracciano, arrendetevi a lui, anche se la lama nascosta tra le sue piume, vi potrà ferire.
E, quando vi parla, credete in lui.
Anche se la sua voce può cancellare e sconvolgere i vostri sogni, come il vento del nord scompiglia il giardino».
Ecco allora che ci troviamo davanti all’amore, quello vero, senza limiti, senza regole, senza differenze ed è fondamentale accoglierlo. L’amore per
Gibran è armonia ed è la salvazione dell’Uomo che spesso deve combattere dire «amo le mie poesie e i miei disegni». Autentica fu la passione di Gibran per la letteratura ma anche per le opere d’arte come quando fu a Parigi e passò molto tempo ad ammirare le opere dei grandi maestri nei musei.
Uomo dal carattere individualista e fiero, conosce la sofferenza e il dolore, inietta nelle sue vene l’amore e l’amicizia, indaga nei segreti dell’esistenza, assapora la gioia della vita e deve fare i conti con la caduta nell’abisso. La sua vita è contrassegnata dal dolore: la sorella Sultana muore di tubercolosi così come il fratellastro Boutros e la madre morirà malata di cancro dopo poco tempo. E Gibran scriverà «in questa vita possiamo raggiungere la vera gioia solo tramite il dolore».
Scrive fino a tarda notte e, in una lettera indirizzata a Mary Elizabeth Haskell che lo stimola ad esporre i suoi quadri, gli offre una borsa di studio e un viaggio a Parigi per studiare all’Académie Lucien, lo aiuta in ogni modo possibile e rimarrà legata al poeta da un’amicizia che durerà tutta la vita, saranno proprio le parole di Gibran a rendere immortale il loro rapporto e il senso di gratitudine del poeta. «In una notte, in una sola ora, con un solo sguardo lo spirito è sceso dal centro di un cerchio abbagliante di luce e mi ha guardato attraverso i tuoi occhi, ha parlato con me attraverso la tua lingua. Da quello sguardo e da quella magica parola è spuntato l’amore che risiede nelle profondità del mio cuore. Questo grande amore ora è seduto nella parte vitale del mio petto»... «È l’amore che con la sua eco ha restituito vita ai miei giorni morti, ha fatto ritornare con il suo tocco la luce nei miei occhi arrossati dalle lacrime e ha sollevato con il suo braccio la mia brama dagli abissi della rassegnazione».
Mary Haskell contribuì alla formazione culturale di Gibran, corresse le bozze de Il Profeta e lo aiutò nell’uso della lingua inglese favorendo una svolta decisiva al percorso letterario del poeta che proprio in una lettera del 1923, anno della pubblicazione de Il Profeta, così scrive alla sua diletta Mary: «La nostra vita non è altro che un passaggio verso una vita immensa e profonda nella quale saremo più vicini allo spirito madre»...«Tu hai creduto in me e nella mia poesia»...«Ogni mattina e sera ti immagino seduta davanti a me mentre mi leggi l’ultimo articolo che ho scritto oppure l’ultimo tuo articolo che non è ancora stato pubblicato. Ti penso, Mary, allo spuntare del sole e di sera».
Dopo anni di continua elaborazione, Il Profeta venne pubblicato a New York nel 1923 e fu subito un successo che regalò fama e gloria al poeta Gibran.
La poesia in prosa, le parabole e le allegorie di Gibran riportano indubbiamente alla tradizione sufica e i ricordi sono legati alla sua terra, al significato biblico che le sue parole esprimono. Gli insegnamenti di Almustafà, l’Eletto e l’Amato de Il Profeta sono formulati con un linguaggio simile a quello biblico, sono i sermoni di un maestro illuminato, apologhi che si rifanno alle meditazioni arabe, parabole poetiche per scoprire la verità delle cose. Così le suggestioni della Natura, il continuo stato di visione, quel fluttuare poetico tra figurativo ed immaginario non sono altro che il faticoso viaggio dell’Uomo per perseguire la maturità spirituale, quello stesso uomo assediato dalle false apparenze, cieco davanti al mondo, soffocato dall’effimero rinasce nella visione gibraniana e assapora la felicità, la bellezza della vita, la gioia dell’amore nella parola del Profeta: «L’amore, quando è amore, annienta la misura e il calcolo del tempo» perché, paradossalmente, possono esistere «istanti che contengono secoli di separazione”. Ecco allora l’esistenza di mondi spirituali, il poeta come un profeta, il dominio del cuore sulla mente.
Sino a quando il cuore non ritroverà se stesso, la vita non tornerà mai sul piano dell’equilibrio né l’uomo si accorgerà che tutto quello che cerca, vagando e spasimando nel mondo, talvolta anche dimenticando la dignità, è quasi sempre in se stesso.
Kahlil Gibran, è un “cercatore di silenzi”, un affascinante visionario che ha speso i giorni della sua vita a poetare, dopo aver attraversato la nebbia della solitudine, quella che avvolge tutte le cose ma non si fonde con esse, dopo aver parlato d’amore come ad esser venuto alla luce solo per illuminare il cuore dell’uomo: «sognando i sublimi mondi dove abitano gli spiriti degli innamorati e dei poeti».
«A volte vago nello spazio dietro le nuvole… a navigare in luoghi appartati e sconosciuti» eppure ci sono notti in cui «l’anima diventa arida e la bellezza che esiste nel mondo durante il giorno non è sufficiente a saziarla».
Le sue parole sono permeate da una saggezza antica e da una profonda attenzione al quotidiano vivere e, come in una miscela poetica, riconducono alla passione dell’uomo, al suo attingere senza sosta alla verità dell’amore.
L’avvicinamento all’Essere per andare oltre la mera esistenza terrena, l’intuizione di una prosa idealistica, la costante difesa dei valori eterni dell’Uomo hanno fatto sì che la sua condizione sia stata quella d’un uomo che s‘è posizionato in una zona di confine, al limite tra questa realtà e “un’altra realtà”, una dimensione dove regna la sacralità della Natura, l’armonia divina. La stessa figura di Almustafà, l’Eletto e l’Amato, impersonifica la visione profetica e quel suo peregrinare terreno conduce al cuore della verità, parlando d’Amore, di Bene e Male, di Gioia e Dolore, di Conoscenza e Bellezza, di Vita e Morte.
Il fascino di Gibran è in questa sua visione simbolica che si fissa nel “silenzio eterno”, nella forza della Creazione, nel divenire dell’Uomo che deve sempre affrontare degnamente le difficoltà dell’esistenza. Esserne degno è la prova.
Tutto il resto non è che una lenta agonia come la malattia che farà peggiorare sempre più le condizioni di Gibran fino a dire «sono come un vulcano la cui bocca è stata chiusa».
Ecco il vero dramma dell’uomo che veglia sul palcoscenico eterno del tempo.

Massimo Barile



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