Il giudizio delle cose

di

Lewis Berther


Lewis Berther - Il giudizio delle cose
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 66 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-1515

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina: «La quiete dopo la tempesta» di Giovanni Medusei

All’interno: illustrazioni di Giovanni Medusei


Tre brevi racconti le cui trame riprendono i temi del giallo con qualche accenno, nel primo e nel terzo racconto, al genere fantasy. I veri protagonisti delle storie narrate sono tre oggetti realmente esistenti; comunque, se si vuol provare a delineare un profilo comune dei personaggi che animano questi racconti, si può dire che i “cattivi” sono veramente tali, mentre i “buoni” sono persone ordinarie, consapevoli dei loro limiti, le cui sole forze non sarebbero sufficienti a risolvere la situazione senza l’intervento di un aiuto inaspettato. Un libro adatto anche ai lettori più giovani.


Il giudizio delle cose


A mio padre


A me la vendetta e la retribuzione,
quando il loro piede vacillerà!
Poiché il giorno della sventura è vicino
e ciò che li aspetta non tarderà.

(Deuteronomio 32:35)


LA SCURE


GLI INIZI

“N’goro è un uomo giusto, oltre che il nostro capo – stava pensando Afhardi, lo stregone – e merita che io lo aiuti.”
In quello scontro con la tribù dei Nhimiud, N’goro aveva perso la mano destra, tagliata poco sopra al polso da un colpo di accetta di un guerriero nemico. Ha una moglie, due figli ancora piccoli: Lerdhui, il più grandicello, è già capace di catturare i serpenti con il bastone biforcuto, e sta imparando a pescare nel lago, infilzando i pesci con la lancia di suo padre; il piccolo Ferdhui, quando non è impegnato a tormentare le lucertole che prendono il sole davanti alla capanna, aiuta la mamma a scavare le radici di manioca ed a raccogliere i frutti dell’albero del pane.
Come farà a difendersi ora, senza una mano? Non dai leoni o dai velenosissimi mamba, che N’goro sapeva ormai evitare, come tutti gli uomini della sua tribù, ma dalle imboscate che tendevano i Nhimiud, i Pelioth e le altre tribù confinanti, anche quando un gruppetto dei loro uomini si inoltrava nella savana senza intenzioni bellicose, ma solo per dare la caccia alle gazzelle.
Comunque anche dei suoi non poteva fidarsi completamente: la moglie, Reftha, era ancora bella, e qualcuno poteva anche pensare di ucciderlo, per prendere il suo posto e sposarne la vedova.
Tutto questo pensava lo stregone mentre, seduto per terra, pestava nel mortaio di pietra che teneva tra le gambe incrociate, alcuni frammenti di ossa dei suoi antenati che gelosamente custodiva in alcuni sacchetti di pelle che portava sempre con sé.
N’goro lo aveva difeso quando, molte lune addietro, la siccità aveva ridotto alla fame le popolazioni del territorio e tutta la tribù invocava il sacrificio rituale dello stregone per ottenere la pioggia. In quella occasione N’goro aveva dovuto usare tutta la sua influenza di capo tribù per placare gli animi ed invitare gli uomini a pazientare; dopo alcune notti la pioggia era finalmente arrivata ed Afhardi si era salvato.
“Non posso certo ridargli la mano che ha perduto, – pensava lo stregone, mentre aggiungeva altri ingredienti nel mortaio – questo non è in mio potere; ma gli costruirò un’arma con cui potrà difendersi. Mi dovrò servire di Lohén, lui ha imparato dal popolo che vive dalla parte dove sorge il sole, lungo il grande fiume, a sciogliere le pietre lucenti con il fuoco. È un abile artigiano e un uomo fidato; gli farò il disegno della parte che mi serve, lui costruirà la forma e vi colerà dentro il fuoco-lucente, al resto penserò io.”
Dopo alcuni giorni, l’artigiano portò ad Afhardi il manufatto: «Ti saluto stregone, ti ho portato quello che mi hai chiesto. Certo che è un attrezzo ben strano quello che mi hai fatto fare, non ne ho mai costruiti di uguali.» «Non ti preoccupare. Piuttosto, hai messo insieme al fuoco-lucente le polveri che ti ho dato?» «Sì, ho fatto come mi hai detto.» «Va bene, ti ricompenserò, puoi andare.»
“Speriamo che Lohén non abbia fatto sbagli, – pensava Afhardi – altrimenti gli spiriti del male che invocherò non resteranno imprigionati dentro l’arma e mi divoreranno l’anima. Domani è notte di luna nuova; andrò nella savana, lontano dal villaggio ed eseguirò l’incantesimo.”
L’indomani lo stregone lasciò la sua capanna di buon mattino e si incamminò nella savana. Camminò sino al calar del sole, per portarsi il più lontano possibile dal villaggio. Al tramonto, sfregando due pezzi di legno, accese il fuoco. “Questo terrà lontano gli animali durante la notte. – pensò – Domani, se possiederò ancora il mio spirito, potrò tornare con calma al villaggio, altrimenti sarà meglio per me essere divorato da qualche leone, che mi troverà a vagare nella savana come uno zombie.”
Si era fatta notte, il fuoco ardeva, tutto era pronto. Lo stregone prese il corto bastone che aveva intagliato da un ramo dell’albero sacro, lo avvolse strettamente con una delle pelli di mamba che aveva portato con sé, incastrò il pezzo di metallo nella fessura che aveva praticato nel legno, fissò il tutto con una corda di fibre intrecciate, e posò l’arma davanti a sé.
Da un sacchetto di pelle prese un pizzico delle erbe che gli consentivano di aprire il varco con il mondo degli spiriti ed iniziò a masticarle lentamente. Quando cominciò a sentirne l’effetto si sedette per terra con le gambe incrociate, impugnò l’arma ed alzò verso il cielo notturno le braccia scarne; poi intonò l’antica cantilena rituale.
Gli spiriti del male, attirati dalle invocazioni dello stregone, si rivelarono tentando di prendere possesso della sua anima. Al mattino, quando riprese conoscenza, lo stregone seppe che l’incantesimo aveva avuto effetto; per terra, accanto a lui, con i volti degli spiriti del male ora impressi nel metallo, giaceva l’arma che aveva costruito: una scure.


I GIORNI NOSTRI

«Ciao Augustus, come stai?» «Come vuoi che stia, oramai mi sono rimasti solo il mio cane e i miei libri; tu piuttosto, da dove vieni questa volta?» «Dal Ciad.» «Cos’è quel pacchetto che hai sottobraccio? Mi hai portato qualcosa?» «Sì, ho comprato in un mercato indigeno questa cosa, mi hanno detto che è antica, e volevo che tu la vedessi. So che sei un esperto di cultura e manufatti africani.» «Vediamo un po’… sembra ferro… il manico è in legno rivestito di pelle di serpente. Sembra una accetta o una scure, ma la foggia è strana, non ha l’aspetto di un attrezzo da lavoro, è troppo ben rifinita, e su questi bracci metallici che sostengono la lama ci sono raffigurati dei volti grotteschi. Comunque molto antica non può essere, è troppo ben conservata. Probabilmente è una riproduzione recente di qualcosa… forse un’arma sacrificale. Per ora non ti posso dire di più, se me la lasci per qualche giorno provo a consultare i miei libri e…» «Non posso, ho promesso a mio figlio che gli avrei portato un regalo e non voglio arrivare a mani vuote; anche se non è antica a me piace, penso potrebbe stare bene appesa al muro della sua camera, assieme alle maschere africane che ha già. Comunque ti farò avere delle fotografie dell’oggetto, così potrai studiarlo con calma.» «D’accordo, Ciao Lewis.» «Ciao Augustus.»
Alcune settimane dopo, Lewis ricevette la telefonata dell’anziano archeologo.
«Ciao Lewis, sono Augustus.» «Oh, finalmente ti risento! Sei riuscito a sapere qualcosa di quell’oggetto?» «Sì, anche se mi ci è voluto un po’ di tempo e ho dovuto consultare diverse fonti. Come ti ho detto, quella specie di scure, ha la lama in ferro. Ora devi sapere che la lavorazione di quel metallo nella zona sub sahariana dell’Africa, ad opera delle popolazioni del Niger orientale, è documentata sin dal 1500 A.C. Tuttavia, secondo i testi che ho consultato, fu solo intorno al V secolo A.C., quando gli Egizi iniziarono ad individuare giacimenti di minerali ferrosi lungo la valle del Nilo, che l’uso dei metalli si diffuse anche nelle altre regioni dell’Africa.» «Va bene, tutto qui?» «No, a dire il vero c’è dell’altro. Ho trovato su un libro la foto di una statuetta in bronzo, rinvenuta nei pressi del lago Ciad, che raffigura un guerriero che brandisce con la mano sinistra un’arma simile alla tua, mentre la destra è mancante.»
«A che epoca risale quella figura?» «Più o meno sempre al V secolo A.C. Potrebbe trattarsi di un oggetto commemorativo, forse dedicato ad un personaggio che in qualche modo si era distinto per il proprio valore. Ma chi te l’ha venduta cosa ti ha detto?» «Mah… l’interprete che era con me mi ha tradotto una storia… Insomma, quest’arma sarebbe stata creata da uno stregone che vi avrebbe imprigionato gli spiriti del male. Se un uomo giusto che avesse posseduto questa scure, come la chiami tu, si fosse trovato in pericolo, grazie ad essa avrebbe sconfitto il male.»
«Ah, Ah, Ah, allora sei a posto…» «Sì, bravo, prendimi anche in giro…» «Beh, in alcuni casi le tradizioni orali presso quei popoli hanno un qualche valore, perché erano l’unico mezzo, assieme alle raffigurazioni, per tramandare gli eventi storici, dato che non avevano la scrittura. Ma nel tuo caso probabilmente un qualche artigiano della zona, che conosce la statuetta raffigurata nel mio libro, ne ha preso ispirazione per fare una copia dell’arma che, come vedi, è troppo ben conservata per essere antica… a meno di non credere nella magia…» «Magari potrebbero aver sostituito solo il manico – obbiettò Lewis. – Sei proprio un testone, eh?»
Lewis sorrise, salutò e ringraziò il vecchio archeologo, e tornò ad occuparsi dei suoi affari.
Lewis Berther era un ingegnere minerario, e lavorava per le compagnie minerarie che negli ultimi anni avevano rivolto il loro interesse alla zona dell’Africa centrale, nella speranza di trovare qualche giacimento di minerali non ancora sfruttato, e magari anche qualche filone di roccia diamantifera. Lewis era consapevole che le escavazioni avrebbero rovinato il territorio, che la manodopera locale che veniva impiegata nelle attività estrattive veniva sfruttata, ma non sapeva che farci. Non che ora le popolazioni indigene stessero meglio… nel Ciad in particolare: nel corso degli anni il lago si era ridotto sempre di più, il territorio si era mano a mano inaridito, rendendo difficile sia l’allevamento del bestiame che le coltivazioni, e le popolazioni locali erano in balia dei sempre più frequenti periodi di siccità che producevano carestie e decimavano la popolazione. “Ci vorrebbe davvero la magia, per risolvere queste situazioni.” pensò.
«Ciao papà, dov’è la mamma?» «Ciao Gerard, credo si stia preparando per uscire, vuole andare nel bosco a cercare funghi, per usarli nello spezzatino che abbiamo per cena, sempre che ne trovi.» «Posso andare anch’io con lei?» «Sì, se hai finito i compiti.» «Mi sono rimasti da fare solo due esercizi di matematica, ma posso farli quando torno.» «E va bene…» «Tu non vieni?» «No, devo finire di scrivere questa relazione. Buona passeggiata; non allontanatevi troppo.» «No, ciao papà.»
Lewis abitava con la moglie Elisabeth ed il figlio Gerard in una casa nella campagna del Devon. Era una bella casa, che aveva ereditato dai genitori. Suo padre era un medico condotto con la passione per l’antiquariato ed una certa avversione per l’umanità, a meno che non si trattasse di persone malate; per cui aveva acquistato un vecchio cascinale in campagna, a circa 8 chilometri da Exeter, dove aveva lo studio, e lo aveva ristrutturato per andare a viverci con la moglie Ernestine. Poi era nato Lewis, che aveva subito preso dimestichezza con la vita all’aria aperta e con quella dimora dall’aria austera che il padre aveva riempito di mobili antichi, seguendo la sua passione. Alla morte dei genitori Lewis vi si era trasferito con la famiglia. Anche se non si poteva definire un uomo ricco, il lavoro che svolgeva per le compagnie minerarie gli consentiva una vita agiata. La moglie Elisabeth, casalinga, si occupava della casa e di badare a Gerard, cha allora aveva 10 anni.
La casa era ormai piuttosto vecchia, e di volta in volta aveva bisogno di qualche intervento di manutenzione. Quel giorno, ad esempio, si era rotto un tubo dell’acqua, producendo una vasta chiazza di umidità proprio nella camera di Gerard, che era stato costretto a traslocare temporaneamente nello studio di suo padre, dove aveva spostato il letto; anche le maschere africane e la scure, assieme a libri di scuola ed altri oggetti, erano finite ammucchiate in un angolo. Lewis allora aveva chiamato James, l’idraulico che conosceva da tempo e che aveva già fatto altri interventi nella sua casa, ma questi era partito per la Scozia, per andare a trovare i suoceri, e non sarebbe tornato sino alla metà del mese seguente. Lewis si era allora rassegnato a chiamare una ditta di pronto intervento, di cui aveva visto l’insegna a Exeter. I due tecnici erano venuti il giorno seguente e avevano terminato il lavoro in tre giorni. Erano tipi piuttosto taciturni, e parlavano con un accento che non sembrava della zona. Comunque avevano fatto un discreto lavoro, e anche se il conto era un po’ salato, Lewis aveva pagato senza trattare.
Due settimane più tardi Lewis ricevette una telefonata da Chicago, dove si trovava la sede centrale di una delle compagnie minerarie per cui lavorava: doveva recarsi di lì a pochi giorni in Sudan, per dirigere i lavori di costruzione di una nuova diramazione di una miniera d’oro.
Sarebbe stato via alcune settimane, per sovrintendere l’avvio degli scavi e dare le prime direttive.
Gli dispiaceva lasciare la famiglia, ma era il suo lavoro e oramai anche Elisabeth e Gerard si erano abituati alle sue periodiche assenze.
Il giorno stabilito si recò ad Exeter e salì sul treno per Londra, da dove avrebbe preso poi l’aereo per Khartoum.
Era ormai giunto a Londra, quando ricevette una telefonata della compagnia mineraria: vi erano stati dei disordini nella zona delle miniere e non vi erano le condizioni per operare in sicurezza.
I lavori sarebbero stati rimandati finché la situazione non fosse tornata accettabilmente tranquilla. Ormai però era tardi per tornare a casa: avvisò la moglie che si sarebbe fermato una notte in albergo a Londra e sarebbe tornato il mattino dopo. Dopo una notte relativamente tranquilla, prese il treno per tornare a casa ed arrivò alla stazione di Exeter; poiché non c’era nessuno ad aspettarlo, telefonò alla moglie perché lo venisse a prendere con la macchina. Non rispose nessuno, né al numero di casa, né a quello del cellulare. “Strano, – pensò – Elisabeth sapeva che sarei arrivato a quest’ora; deve essere accaduto qualche imprevisto.” Prese quindi un taxi e si fece portare sino al cancello della villa.
Con una fastidiosa inquietudine percorse il viale che portava all’ingresso principale della casa, e quando entrò lo accolse una sgradevole sensazione di freddo. Bastò un’occhiata per capire: c’era disordine dappertutto e una finestra era rimasta aperta. Allarmato corse per la casa chiamando in modo concitato Elisabeth e Gerard, fino a quando sentì dei rumori provenienti dal ripostiglio. Lo aprì e trovò la moglie per terra legata e con del nastro adesivo sulla bocca. Aveva una tumefazione violacea sulla tempia sinistra. Appena le liberò la bocca gli disse piangendo «Gerard… hanno portato via Gerard! Hanno detto che lo uccideranno se chiamiamo la polizia!» Lewis sentì come se qualcuno gli avesse strappato le viscere, mentre una sofferenza mentale lo sovrastava impedendogli di fare qualsiasi cosa; per diversi minuti non si mosse, incapace anche di liberare Elisabeth che continuava a singhiozzare sul pavimento, ancora con le mani ed i piedi legati.
Dopo un certo tempo, si diresse verso la cucina appoggiandosi alle pareti, prese un coltello e liberò la moglie dai legacci. Si sforzava di pensare in modo coerente, ma l’ansia legata al pensiero che potessero uccidere suo figlio lo assaliva troncandogli sul nascere qualsiasi tentativo. D’altra parte che fare? Non rivolgersi alla polizia significava rimanere senza aiuto di fronte alle minacce di gente senza scrupoli, la cui parola non valeva niente. Se invece avesse denunciato il fatto alle autorità, si sarebbe assunto la responsabilità di rischiare la vita di Gerard; e se i banditi lo fossero venuti a sapere o se qualcosa fosse andato storto… Alla fine si ricordò di Henry; si conoscevano dai tempi della scuola, poi lui era andato all’università a Cardiff, mentre l’amico era entrato in polizia. Si vedevano spesso il fine settimana per giocare a golf. Sì, avrebbe chiesto consiglio a lui.
«Pronto Henry? Sono Lewis… devi venire subito da me … No, ti spiego dopo. Lascia la macchina due tornanti dopo la mia casa, vicino a quella dei signori Madenbroke. Poi prendi il sentiero che passa per il bosco ed entra dall’ingresso posteriore. Fai in modo che nessuno ti veda. Ti aspetto.»
Henry arrivò, seguendo le istruzioni che gli erano state date. Quando Lewis gli aprì la porta rimase sconcertato; poi riprese il controllo di sé e cominciò a fare domande. Elisabeth teneva con una mano del ghiaccio sulla tempia; aveva gli occhi sbarrati e tremava, e riusciva a stento a balbettare qualche risposta: «Due uomini con il passamontagna… questa notte… avevano le pistole… hanno preso Gerard… io ho cercato… ho cercato di fermarli ma mi hanno colpita. Mi sono svegliata legata al buio, nello sgabuzzino.» Dalle sue scarne risposte e dall’esame della casa il poliziotto cercava di farsi un’idea di come si erano svolti i fatti. In sintesi sembrava fosse successo questo: la scorsa notte, Elisabeth e Gerard erano stati svegliati da rumori che sembravano provenire dal pianterreno, si erano alzati e si erano trovati di fronte due uomini armati e con il volto coperto che avevano rapito Gerard e rubato in modo confuso ciò che avevano trovato in casa: denaro, gioielli, argenteria, persino gli oggetti di manifattura africana che Lewis aveva regalato a suo figlio. Quando avevano preso Gerard, Elisabeth aveva cercato di reagire, e loro l’avevano stordita e immobilizzata.
«Non sembra un lavoro da professionisti. – disse Henry – Chi ha in mente un rapimento cerca di allontanarsi il più presto possibile dalla zona, e non perde tempo a cercare nella casa qualcosa da rubare; inoltre di solito i rapimenti avvengono fuori casa, dove le vittime sono più facilmente raggiungibili. Cercherò di occuparmi io della faccenda, con discrezione, s’intende. Metteremo sotto controllo il tuo telefono; dovrebbero farsi vivi nei prossimi giorni. Tu cerca di farli parlare e di assecondarli. Voi state qui; io ritorno appena possibile e mi porto un po’ di attrezzatura per scattare qualche foto e rilevare le impronte.»
Lewis si fidava di Henry, lo conosceva da tanto tempo, era una brava persona, capace nel suo lavoro. Avrebbe fatto tutto il possibile per salvare Gerard… ma questo non mitigava l’ansia.
Dopo un paio di giorni i rapitori telefonarono: «Vogliamo seicentomila sterline in banconote di piccolo taglio, altrimenti uccidiamo vostro figlio.» «Dovete darmi la prova che è vivo: voglio parlarci.» «Papà, aiuto, papà!…» «Gerard! Stai bene?» «Basta! Lo hai sentito. Ti diamo due giorni per raccogliere il denaro.» «Non ce la faccio in due giorni, non ho tutto questo denaro disponibile, mi serve più tempo…» «No, due giorni. Ti richiameremo per la consegna. E non avvisare la polizia se tieni a tuo figlio!» E chiusero la comunicazione.
Sentire Gerard gli aveva procurato una stretta al cuore, ma almeno sapeva che era vivo, e da come avevano parlato, i rapitori sembravano non sapere della polizia. Henry andò da loro la sera stessa, percorrendo il medesimo sentiero.
«La telefonata veniva dal distretto del Devon; anche se non sappiamo la zona precisa, è già un indizio. È probabile che sia gente dei dintorni. Magari sapevano che spesso sei fuori per lavoro – disse, rivolto a Lewis. – Non avete notato nulla di strano negli ultimi giorni? Gente che veniva a fare domande, o che si aggirava qui intorno?» «No, frequentiamo le stesse persone da molto tempo, e nessuna di loro farebbe mai una cosa simile… Le uniche persone sconosciute con cui abbiamo avuto a che fare qualche settimana fa sono i tecnici che ho chiamato per riparare un tubo dell’acqua che si era rotto in camera di Gerard; hanno la ditta in centro, a Exeter.» «Va bene, controlleremo anche questo.» «Hanno lasciato impronte?» chiese Lewis. «Purtroppo portavano i guanti, comunque stiamo analizzando i reperti che abbiamo trovato sul nastro isolante con cui hanno tappato la bocca ad Elisabeth, ed alcune impronte di scarpe nel terreno fuori casa e sul davanzale della finestra da cui sono entrati. Per il momento è tutto. Quando richiameranno, cerca di guadagnare un po’ di tempo se possibile, potremmo averne bisogno.»
I due giorni seguenti passarono lentamente; Lewis ed Elisabeth non mangiavano quasi nulla, la notte si coricavano senza riuscire a dormire, pensando continuamente a Gerard, incerti se lo avrebbero mai più rivisto. Il secondo giorno il telefono squillò; ma non erano i rapitori, come entrambi si aspettavano, era Henry: «Ne abbiamo preso uno. È uno degli idraulici che sono venuti da te qualche settimana fa. Tra l’altro sono fratelli. Quello che abbiamo fermato era ospite della sorella, che sembra essere all’oscuro del rapimento, comunque stiamo verificando la sua posizione…» «E Gerard?» chiese Lewis con ansia. «Purtroppo non lo abbiamo trovato. Ma ora non c’è tempo, ti spiegherò con calma. Devi venire con me, ti passo a prendere in macchina tra dieci minuti.»

[continua]


POSTFAZIONE

Ogni riferimento a fatti e persone descritti in questo libro è puramente casuale, e queste brevi storie sono soltanto frutto di un esercizio della fantasia; tuttavia gli oggetti che danno il titolo ai tre racconti sono reali.
La scure, che ho avuto appesa al muro della mia camera per molti anni, è un bell’oggetto di artigianato congolese, il cui aspetto corrisponde fedelmente alla descrizione che trovate nel libro, e la cui fattura porta impresse le tracce della cultura animista di quelle popolazioni.
La pianta che nel secondo racconto porta il nome (fasullo) di Xilenia è nota soprattutto per i suoi fiori profumati e per la sua tossicità; tuttavia c’è stato qualche svitato che, incurante degli effetti tossici, ne ha voluto provare le proprietà psicotrope, ed è finito in un reparto psichiatrico come il Sig. Storkiad.
L’ultima storia prende invece spunto da una stampa che mi è stata regalata dall’autore, in occasione di una recente mostra dei suoi quadri, e che ora abbellisce una delle pareti del mio studio.
Approfitto di questo spazio per ringraziare Margherita Disperati, Giacomo Nigido e Gabriella Mignani per l’incoraggiamento e per i preziosi consigli, Giovanni Medusei, senza i cui disegni questo libro sarebbe stato meno bello, e mia moglie, Federica, che si dà da fare per mandare avanti la famiglia mentre io mi dedico a questi inutili trastulli.

Lewis Berther


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine