I nostri compagni di viaggio - Racconti di animali

di

Lilia Amadio


Lilia Amadio - I nostri compagni di viaggio - Racconti di animali
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
12x17 - pp. 36 - Euro 6,20
ISBN 978-88-6037-7876

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autrice è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2009


I nostri compagni di viaggio - Racconti di animali


Per non dimenticare Bernie


Bernie

Quando mi presero in quella casa – la mia casa definitiva – ero già adulto ed avevo una lunga storia alle spalle.
Probabilmente sono nato in California in qualche laghetto o sulle rive di un fiume che scorreva lento verso il mare. Non ricordo nulla. I miei ricordi risalgono al periodo in cui ero stato chiuso in un acquario in un negozio di animali.
Soffrivo molto perché quando nuotavo sentivo istintivamente che i miei erano movimenti sterili: l’acquario non era certo spazioso e finivo sempre con il musetto contro il vetro.
La signora che mi aveva comprato non era cattiva; aveva scelto me, per la mia vistosa e lucida corazza verde, ed un altro bell’esemplare, per fare un regalo ai suoi bambini. Non fu un bel periodo quello, purtroppo. I bambini erano piccoli e ci maltrattavano.
Ci avevano sistemato in un piccolo recipiente con una salitella che portava ad un’isola con una palma artificiale. L’acqua nel recipiente era sempre sporca e spesso i bambini dimenticavano di darci il nostro mangime. Che fame, ragazzi!
Il mio compagno di sventura si ammalò quasi subito; il suo guscio divenne molle e lui spesso saliva la rampa e rimaneva per ore fuori dall’acqua. Mi faceva molta pena perché era piccolo come me. Entrambi avevamo le dimensioni di una moneta da cinquecento lire.
“Devi resistere, – dicevo sempre al mio compagno – cerca di mangiare; se riusciamo a superare l’inverno, poi ci sentiremo meglio.”
“Non voglio mangiare, – mi rispondeva lui con un filo di voce – che vita è questa? Sono nato in un grande fiume e non posso continuare a vivere in questa piccola bagnarola.”
Dopo pochi giorni il mio compagno era morto. Ne fui addolorato perché sapevo che presto lo avrei raggiunto, con maggiore sofferenza forse dal momento che sapevo di essere più robusto di lui.
Invece sopravvissi all’inverno. I bambini, dispiaciuti per la morte del mio compagno, si occuparono un po’ di più di me: mangiavo quasi regolarmente e l’acqua del contenitore veniva cambiata tutti i giorni.
Passarono i mesi ed io crebbi vistosamente. La mia corazza ormai aveva il diametro di alcuni centimetri, almeno sei.
Un bel giorno, però, fui preso e chiuso in una scatola. Mi spaventai moltissimo, soprattutto perché al buio non riuscivo a capire né dove fossi né cosa volessero fare di me. Fui sballottato per una mezz’ora, forse in macchina, fino a che la scatola fu aperta ed io fui di nuovo gettato nell’acquario del negozio dove ero stato acquistato oltre un anno prima. I miei nuovi compagni di sventura mi guardarono con sospetto; qualcuno era molto più piccolo di me, ma qualcuno aveva le mie stesse dimensioni.
Prestai attenzione ai discorsi della signora con il gestore del negozio e il cuore mi si riempì di malinconia.
“Vede, signor Rossi, io le riporto questa tartaruga che è diventata troppo grande per la mia tartarughiera; in cambio ne vorrei due piccole per far giocare i miei bambini.”
“Va bene, signora – rispondeva il gestore – ma lo faccio solo per farle un favore perché per me è molto più difficile collocare tartarughe così grandi.”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Quella signora mi aveva tenuto con sé almeno per un anno ma con quel gesto aveva dimostrato di non avere per me un briciolo di affetto. Che fine farò, mio Dio?
La signora se ne andò poco dopo con due piccole tartarughine ed io rimasi nell’acquario, triste, per un altro anno. Ero troppo grande e nessuno mi voleva.
Poi un giorno qualcosa cambiò la mia vita. Già dalla mattina sentivo che quello sarebbe stato un giorno diverso dagli altri.
Nel primo pomeriggio entrò nel negozio una ragazzina accompagnata da una signora molto alta; nel mio cervello le chiamai, per i riflessi che le loro figure creavano nell’acqua, l’ombra piccola e l’ombra molto grande.
“Vede – stava dicendo al gestore l’ombra piccola – è morta la mia tartarughina che avevo da tanti anni, da quando ero molto piccola; la tenevo in una tartarughiera e il gatto l’ha presa. Il suo guscio non era molto duro e lui l’ha ferita. È morta dopo qualche giorno. Ora voglio due tartarughe nuove. Ho preparato un acquario con il depuratore dove il gatto non potrà arrivare. Posso sceglierne due?”
“Certo, – rispose il gestore – come le vuoi? Molto piccole o ne vuoi una un po’ più grandina?”
Il mio cuore cominciò a battere.
“Prendi me! Prendi me!”; cercavo di guardare negli occhi l’ombra piccola per riuscire a catturare la sua attenzione: l’ombra piccola sembrò percepire il mio richiamo perché disse al gestore:
“Mi piacerebbe quella, sì, quella un po’ più grande delle altre. Com’è carina! Che cos’è? Un maschietto o una femminuccia?”
Il gestore rispose sicuro:
“Quello è un maschietto, te lo posso assicurare, ed è anche un po’ prepotente.”
“Adesso mi cerca una femminuccia? Mi piacerebbe avere la coppia!”
L’attenzione dell’ombra piccola si puntò su una creatura minuscola il cui guscio poteva avere al massimo un diametro di due centimetri.
“Che ci faccio io con quella tartarughina! – le gridai – Trovami una moglie degna di me!”
Ma l’ombra piccola aveva scelto. Senza troppi complimenti fummo presi entrambi e chiusi in una scatola.
“Speriamo che questo strazio duri poco – pensai – qui dentro mi manca l’aria!”
Il nostro viaggio non durò molto. L’ombra piccola parlava felice con l’ombra molto grande.
“Come sono contenta! Hai visto com’è bello il maschietto e com’è dolce la femminella?”
Arrivammo finalmente a casa – la mia casa definitiva – e fummo poste subito nell’acquario. Mi guardai intorno: un acquario grande con un depuratore che terminava con uno zampillo alto che sembrava una fontanella. C’era una penisola e in mezzo all’acqua una bella roccia che emergeva di alcuni centimetri come un altipiano.
Mi tuffai felice e feci una bella nuotata intorno alla roccia. La mia “fidanzata” si era invece rifugiata sull’isola e sembrava spaventata.
Davanti all’acquario l’ombra piccola e l’ombra molto grande guardavano estatiche.
Mi accorsi all’improvviso che alle due ombre se ne era aggiunta un’altra, che chiamai istintivamente ombra grande.
L’ombra grande parlò rivolta all’ombra piccola:
“Sono molto belle, soprattutto il maschietto; sembra robusto ed ha già superato il periodo in cui possono morire. La femmina però è troppo piccola per essere la moglie di quel bestione. È come una moneta da dieci lire ed è certamente molto delicata. Bisognerà essere sicure che mangi anche lei e che non subisca la prepotenza del maschietto.”
“Femminista!” le gridai in faccia.
“Ti prometto, mamma, – diceva l’ombra piccola – che starò attenta alla femminuccia; la farò mangiare per prima.”
Questo privilegio non mi piacque troppo; comunque mi augurai di avere anch’io con regolarità un pasto sicuro ed abbondante.
I giorni che seguirono furono di adattamento. Mi resi conto che eravamo in una grande cucina, vicino ad una finestra luminosissima, soprattutto di mattina. Di fianco all’acquario un ciuffo di piante grasse, tra cui un cactus, che nell’insieme mi davano quasi l’idea della mia terra di origine.
Nella cucina non eravamo sole: c’erano due altri acquari pieni di pesci rossi, qualcuno con pinne appariscenti.
“Come li chiamiamo? – chiese alla mamma l’ombra piccola – Al maschietto vorrei mettere il nome io; lo chiamerò Bernie. Come chiameremo la femminuccia?”
“Vediamo, – disse la mamma – mi piacerebbe chiamarla Sammy Lee.”
Non volevo commuovermi, ma avere un nome era importante per me; non ero semplicemente una tartaruga, un essere indefinito, ma un individuo preciso, Bernie.
Il nome mi piaceva e tutto sommato mi stava bene addosso. Quando, secondo la posizione della luce sull’acquario, riuscivo a specchiarmi mi trovavo bello: il guscio verde muschio, gli occhi neri vispi e grandi, le due fasce rosso-fuoco che partendo dagli occhi arrivavano fino al collo, le lunghe zampine a righe gialle e verdi. Sì, ero proprio bello. Bernie.
Sammy Lee invece mi innervosiva. Era piccola e stava sempre sullo scoglio; ogni volta che decidevo di sistemarmi lì ci trovavo lei, minuscola e prepotente. Allora per me non c’era che la soluzione di salirci sopra, cercando un difficile equilibrio con un gioco di zampette sospese nel vuoto.
La prima volta che salii sopra Sammy Lee sentii le ombre ridere; se ne stavano tutte e tre davanti all’acquario vociando rumorosamente.
“Guarda, mamma! – diceva l’ombra piccola – Come sono buffi! Bernie sembra un ombrellone!”
“Non farà male alla piccolina? – chiedeva la mamma – Non le peserà troppo sul guscio ancora delicato?”
Quello che mi dava più fastidio però era la precisione con cui sia l’ombra piccola che l’ombra grande si preoccupavano di garantire a Sammy Lee la giusta quantità di cibo giornaliero.
Quando Sammy Lee mangiava io dovevo stare rintanato in un angolo dell’acquario senza potermi muovere. Dovevo aspettare che la signorina Sammy Lee si saziasse. È vero però che, se le ombre non avessero instaurato questo rigido sistema di regole, io avrei mangiato tutto; le prime volte, infatti, ci avevo provato lasciando la “signorina” a bocca asciutta. Lei era effettivamente molto piccola e doveva essere protetta dalla mia prepotenza, ma debbo confessare che in quei giorni ero molto nervoso, oserei dire molto geloso. Sembrava che le ombre volessere bene solo a quel piccolo essere odioso.
Quello che mi spinse all’atto efferato non so se fosse odio o attrazione sessuale. In quest’ultimo caso, però, sarei stato un pedofilo, per cui penso che fosse solo furore e gelosia.
In un momento in cui nessuno poteva vedermi – era l’alba di un giorno grigio, infatti – cominciai a mordere il guscio di Sammy Lee con forza. Forse non mi aspettavo che fosse così morbido o forse fu proprio la sensazione di questa morbidezza a rendermi più cattivo. Le rosicchiai quasi tutto il guscio, lasciandola praticamente “nuda”. Poi mi ritirai in un angolo aspettandomi il peggio.
La mattina l’ombra grande entrò in cucina e si avvicinò all’acquario per salutarci. Il suo grido terrificante mi spaventò:
“Corri, corri! – gridava chiamando l’ombra piccola – Bernie si è mangiato Sammy Lee! Assassino!”
L’ombra piccola, che accorse subito, rimase sconvolta.
“Mamma, guarda, Sammy Lee è ancora viva!”
“Non potrà vivere in questo modo, le sono rimaste solo la testa e le coscine! Prendi una catinella, mettici un po’ d’acqua e sbàttici dentro quell’assassino!”
Così dicendo l’ombra grande prese in mano Sammy Lee per constatare i danni. Devo ammettere che la piccina era ridotta proprio male!
L’ombra piccola arrivò di corsa con una catinella piena d’acqua e con mala grazia mi afferrò e mi ci scaraventò dentro gridandomi:
“Brutto assassino! Uxoricida!”
Ero disperato, un po’ per Sammy Lee, un po’ per la mia situazione precaria. La catinella aveva contenuto probabilmente qualche detersivo e cominciò subito a crearmi dei problemi: un grande prurito agli occhi e un senso totale di disagio.
Gli occhi, nei giorni successivi, si gonfiarono e si riempirono di pus; ormai non vedevo più nulla.
Sammy Lee non visse a lungo. Nonostante i bagnoli quotidiani di acqua bollita e sale, la piccina spirò. Lo capii dalle grida dell’ombra piccola.
“Mamma, Sammy Lee non si muove più, corri! È morta!”
Poi rivolgendosi finalmente verso di me, che ero digiuno da parecchi giorni, disse:
“Guarda gli occhi di Bernie, mamma, guarda come sono gonfi. Curamelo, per favore, non farmi morire anche lui. Non voglio perderlo!”
Quelle parole mi risollevarono il morale anche se non vedevo più nulla. La voce della mamma mi raggelò:
“Non voglio saperne nulla di quell’assassino. La cecità sarà la sua espiazione.”
Sentii molto rumore quel giorno; probabilmente l’acquario era stato pulito e disinfettato.
Ormai i miei occhi erano diventati talmente gonfi che disperai di guarire.
La mattina successiva – ero ancora nella catinella – l’ombra piccola mi accarezzò la testa e rivolta alla mamma disse:
“Mamma, io l’ho perdonato. La colpa è nostra perché lo abbiamo ingelosito e poi Sammy Lee era troppo piccola per lui. Ti prego, perdonalo anche tu, curalo e guariscimelo. Mi è rimasto solo lui!”
Un senso di colpa mi prese il cuore; quell’ombra piccola, non so perché, aveva della considerazione per me.
La mamma mi sollevò e mi toccò gli occhi molto gonfi; preparò dell’acqua e camomilla e mi fece dei lunghi bagnoli. Non parlò, ma mi rimise nell’acquario pulito.
I bagnoli agli occhi durarono parecchi giorni, più volte al giorno.
Piano piano gli occhi si sgonfiarono ed una bella mattina mi sentii meglio e, quando entrò in cucina, vidi distintamente l’ombra grande che si chinava su di me.

[continua]

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