Opere di

Liliana Paisa



L’INGANNO

Abito nei tuoi risvegli senza comprenderli.
Gli attimi si sgretolano come le paure
rimaste nel gelo.
La mia pelle copre la tua
e non sappiamo di chi sono le ferite.
La casa non ha più memoria,
la sua materia cade sulla nostra.
Nei meccanismi fini
la menzogna del tempo diventa legge.
Continuiamo ad abitare
uno nelle rinunce dell’altra.
I nostri gesti si confondono.




I MORTI ABITANO SOPRA

Mio padre annaffia l’erba nelle ossa,
comprende la natura della solitudine
e appende nelle crepe del cielo
una luna piena.
Di notte esce dalla sua terra,
canta con i grilli, attacca i nomi dei figli
alle foglie e pensa ancora di ritrovarli.
Gira mio padre nel suo orto.
I cespugli del rosmarino lo riconoscono
e fioriscono.
È già l’alba e lui sa che deve ritornare
nella rugiada.




TI VESTI DI ME

Ti vesti di me,
di parole evase nella terra di nessuno.
Lì, dove di notte, i deserti diventano Sinai da conquistare.
Ti vesti di me,
quando il tempo zoppica
e sai a memoria la storia ambrata
nei cuscini.




IL BUCATO

La signora del primo piano stendeva i panni
e la solitudine.
C’era tanto vento nel suo tacere.
Lei badava all’ombra appesa ai fili.
La signora del primo piano raccoglieva
i suoi panni asciutti insieme ai sogni.
Chiudeva la porta sui pensieri
e sapeva che doveva rifare il bucato.




LA SECONDA PELLE

Il mio tempo non comprendeva se stesso,
le lancette che giravano intorno ai sogni, ai silenzi.
Spiava un gesto appena svegliato,
le guerre, i trattati di pace di un corpo
e di quell’anima.
Aveva le ferite e sapeva usarle
come seconda pelle.




LE PARETI

Le pareti dormono in piedi
e quando lo fanno smettono di respirare.
Le cornici cadono,
i ritratti prendono forma del silenzio.
Il tempo si squaglia come i serpenti immaginari.
Sulla stessa linea della nostra gravità.
Lì, nella casa diventata giardino.




SENZA FERITE

Lo spazio cambia pelle
e me rimasta nelle sue pieghe.
Ho ancora sulle palpebre i ritratti remoti
dell’ultima parola, del silenzio messo all’asta.
Senza ferite il movimento delle molecole,
senza nome il corpo di paglia.
Lo spazio ingoia se stesso e me
fuggita dall’ultima utopia.




COME I FILI DI ERBA

Siamo come i fili di erba
nella gravità della rimanenza,
sotto e sopra una scarpa gigante
che cerca i suoi lacci smarriti.
I salti hanno il nome del cammino
e le distanze la stessa madre.
Noi, fili di erba rimaniamo legati
ad un paio di lacci nella ricerca
della loro scarpa.




I FANTASMI DEI PENSIERI

Non trovo più i pensieri al risveglio.
Giro il cuscino. Esso perde i sensi.
Forse i miei pensieri sono dei fantasmi
che dormono nelle piume.
Di notte vanno su e giù nella mia testa,
si mettono di traverso, urlano, danzano.
Battono i tamburi sulle tempie.
Forse loro lasciano la rugiada sulle palpebre.




IL CIELO IN TESTA

Oggi è caduto il cielo in testa alla gente.
Nessuno ha fatto caso.
Camminavano con la pioggia sotto la pelle
e pensavano ad un errore genetico.
Dormivano con le ferite della Via Lattea sul tetto
e pensavano alla sindrome dell’abbandono.
È caduto il cielo in testa alla gente
e pensavano che fosse la solitudine.




LO SPARTITO

Si sente la musica nelle ossa a quell’ora,
quando la campana fa stare zitto il cielo.
Si sente la musica dentro le mani fredde
rimaste incrociate sul cuore.
Il suono trasuda nel midollo,
passa tra le pareti, inganna.
La luna fa cerchi nel canto dei respiri,
sullo spartito di un corpo.
Esso non smette di suonare i suoi violini.




LE MIE TEMPESTE

Non sei mai stato nelle mie tempeste.
Il vento non ti ha mai strappato i bottoni.
Pensavi che dalla mia parte c’è sempre il sole
sul davanzale, sulle pareti.
Le mie porte te le immaginavi aperte,
con il cielo azzurro sulla soglia.
Non sei mai stato nelle mie tempeste.
Non hai mai saputo che ho lavato la faccia del destino
con l’acqua piovana.
Con la stessa acqua lavo adesso i tuoi piedi,
perché so che tu non cammini scalzo nei sogni.




FORME ILLUSE

Lo spazio trafitto dalla tua parola
era ancora mio.
Potevo cucire le sue ferite all’insonnia
e aspettare.
Giorno dopo giorno fiorivano il davanzale,
le pareti.
Ero lì, nel suo cadere,
nel ticchettio delle forme illuse.
Lo spazio copriva me
e la storia rimasta nel grembo.




IL CORPO

Come un rilievo emerso dagli abissi
con le forme ambrate nelle ossa.
Attesa del sole che diventa pelle
attaccata sui giorni, coperta con la notte.
Si sentiva il brusio degli attimi
tra le parole arse,
tra le mani immemori nel creato.




FRAGILITA’

Mi sgretolavo come le statue anonime
fatte d’argilla povera.
Forse era per le acque torbide
o le anime dei Cristi appesi nell’aria.
Quell’aria rubata dall’ansimante giorno,
dalla materia ingannevole.




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