Psicologia del delitto

di

Luigia Bimbi


Luigia Bimbi - Psicologia del delitto
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 122 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-8453

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In copertina illustrazione dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autrice è finalista
nel Concorso letterario «J. Prévert» 2009


Da questi sei racconti, scorrevoli e ben strutturati, emerge la totale ambiguità di alcuni comportamenti umani, difficili da decifrare. Chiara emanazione di passioni negative quali: il furore, l’esaltazione, la sete di vendetta, la noia di vivere. In ciascuna delle storie, il pathos, che la fa da padrone, fornisce le armi idonee al crimine.
Furore arma ministrat (Virgilio/Eneide)

Fabio Matteuzzi
Direttore responsabile della rivista “Fuorivista”


Psicologia del delitto

L’APPARTAMENTO

L’Ada osserva dalla finestra della sua camera la sorella impegnata nella cura del giardino.
Guardala! Mai stanca. Non sente né la fatica, né questo caldo bestiale. E sì che oggi si soffoca. La prossima estate voglio l’aria condizionata. Che la paghi lei. Ha più soldi di me e nemmeno se li guadagna. Cristo! E il signorino che è una settimana che non si fa vedere.
Si ritira dalla finestra e si sdraia sul letto.
Che domenica schifosa! Non che siano migliori le altre.
L’Ada pensa a Marco. Si chiede cosa possa combinare di giorno mentre lei è al lavoro.
Ma la domenica, almeno… piccolo intrigante da strapazzo.
Pensare a Marco le provoca un tumulto di sensazioni che non riesce nemmeno a decifrare: voglia… questa sì… voglia del corpo giovane, eccitante… voglia di morderlo… di usarlo…
Che ci trovo? Ne potrei avere cento meglio di lui… sciocchezze. Lui è lui. Non me ne serve un altro. Mi piacerebbe andare di sotto a cercarlo. Sai quei due?… mammina e paparino… gli dico: dov’è quello stronzo di vostro figlio? Lo voglio nel mio letto, subito, adesso. Te l’immagini la faccia?
L’Ada si accartoccia, dimenandosi, e ride, ride di gusto.
Sono matta, matta da legare. Come la vecchia, che Dio l’abbia in gloria.
Il ricordo della madre le stronca la risata. Benché quella donna non sia più di questo mondo, lei la sente vicina a rovinarle la vita. Non riesce a liberarsi dell’odio che prova per lei da quando l’ha scacciata da casa. A volte ne risente la voce e le parole: «Fuori. Tuo padre ha bisogno della tranquillità che tu gli neghi. E anche la bambina. In quanto a me, se rimani un solo giorno ancora, non rispondo più delle mie azioni.»
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e scatenare l’ira della madre, era stata la sua butade ai festeggiamenti per il secondo compleanno di Maria, la sorellina.
C’erano i parenti, gli amici e i vicini di casa. Tutti a far festa alla piccola monca, come la chiamava lei. La bimba era nata priva dell’avambraccio sinistro. Bellina davvero, ma disabile, mutilata.
La nascita della sorella aveva ulteriormente compromesso il già difficile rapporto che la figlia maggiore aveva con i genitori.
Nell’occasione del festeggiamento per quel compleanno, l’Ada se ne stava incupita in un angolo, bevendo senza troppo controllo. Nel pieno delle chiacchiere e delle risate, si era fatta avanti attirando l’attenzione dei presenti con la scusa di un brindisi all’indirizzo della festeggiata. Quello che uscì dalla sua bocca mise tutti in imbarazzo.
Altro che brindisi!
Accennando alla malformazione di Maria, ne imputò l’onere alla madre rimasta incinta di lei a quarantasei anni, età da menopausa, non da procreazione, e al padre, il quale soffriva di cirrosi a causa dell’abitudine inveterata al vino.
Nella stanza era già sceso un silenzio costernato, quando lei aggiunse rivolta ai genitori: «Vi auguro di vivere a lungo per poter crescere questa poveretta, perché io, quando morirete, non ne vorrò sapere mezza.»
La madre, superato l’attimo di stupore, sospeso fra l’incredulità e la collera, le si era buttata addosso schiaffeggiandola.
Il giorno seguente la ragazza usciva, valige in mano, dalla casa che l’aveva vista nascere e ospitata per quasi ventidue anni.
L’accompagnava un odio profondo, distruttivo, caparbio, un odio che, prima di andarsene, le aveva fatto pronunciare, all’indirizzo della mamma, una frase lapidaria: «Spero tu muoia di un brutto male.»
L’augurio si era avverato circa quattordici anni dopo, quando la vecchia se ne andò a causa del cancro. L’Ada partecipò al funerale. Non lo aveva fatto per quello del padre, avvenuto molto prima. Ma a questo ci teneva. Voleva godersi il piacere di vedere la cassa che ospitava il corpo senza vita di sua madre finire sotto terra in pasto ai vermi.
I due soli parenti presenti, cugini materni venuti da fuori, la guardavano con uno sguardo sfuggente e bisbigliavano fra loro. C’erano anche vecchi amici e conoscenti dei genitori, che si guardavano fra loro, lanciavano occhiate a lei e ammiccavano. Le pareva di sentire il vagare di domande inespresse: che voglia tornare a casa? Ne avrebbe tutti i diritti. Però quella poveretta della Maria come la metterà con quella strega?
È certamente così che mi chiamano i vecchi imbecilli.
Sua madre non aveva di certo lesinato cattive chiacchiere su di lei.
Per l’Ada la cosa non aveva importanza alcuna.
Questo era il giorno della rivincita: tornava a casa.
Le due sorelle, fisicamente, non si somigliavano affatto.
L’Ada, di diciannove anni più grande della sorella, possedeva una bellezza severa. Era alta e slanciata. Aveva un viso spigoloso, dove campeggiavano due grandi occhi di un verde intenso e poco comune. Erano soprattutto gli occhi che davano al suo volto un fascino indiscusso. Maria, invece, era bassetta, aggraziata come una bambolina. Stesso colore d’occhi, forse più sfumato. E diciassette anni vicini al compimento.
In quanto a carattere, stavano ai due opposti: la maggiore era passionale fino all’eccesso. Dava al piacere un bordo tagliente. Una passionalità intensa, mal vissuta. Facile all’ira e al disprezzo, difficilmente sapeva governare i propri impulsi distruttivi. Pur godendo di buona intelligenza, aveva rifiutato di frequentare studi superiori, che l’annoiavano. Era impiegata come commessa in un negozio di abbigliamento maschile. Proprietari bavosi, secondo lei, e clienti abituali, per lo più anziani, ancora in caccia. Spesso la infastidivano.
La minore era una ragazza studiosa, intelligente e dolcissima. Se aveva un difetto, era quello di essere eccessivamente timida, un tantino chiusa e solitaria nonostante il carattere apparentemente gioviale e la disponibilità ad aiutare gli altri. Forse la tratteneva il suo handicap. All’età di tredici anni le avevano applicato una protesi bionica al braccio mutilato. Per quell’aggeggio la madre non aveva badato a spese. Era ciò che di meglio si potesse trovare in commercio. Lei imparò ad usarlo con grande disinvoltura.
Morta la madre, le due sorelle si misero a vivere insieme.
Dopo il funerale, Maria aveva parlato all’Ada a cuore aperto. Con un lungo discorso chiarificatore:
«Questa è anche casa tua. Io non conosco bene le ragioni per le quali l’hai abbandonata, così come hai abbandonato noi. Quando te ne andasti ero troppo piccola per capire. Dopo, mamma non ha voluto parlarne. Diceva soltanto che tu cercavi una libertà che la famiglia non ti poteva concedere. Devo riconoscere che mamma era possessiva e forse tu non lo sopportavi. Ci sono state molte chiacchiere cattive su di te, ma io non ho mai voluto ascoltarle. Proviamo a stare insieme e a conoscerci. Io studio e mi interesso della casa. Non ho grilli per la testa. Mi basta avere accanto qualcuno che mi voglia bene. Spero me ne vorrai. Come tu avrai saputo, godo di una buona rendita patrimoniale che i genitori mi assegnarono. Fino alla mia maggiore età il patrimonio è gestito da un tutore, uomo onesto, amico di papà. Poi ne entrerò in totale possesso. Per quanto mi riguarda, non ti sarò di ingombro. Sarai libera di fare quello che vorrai. Se per caso il mio modo di condurre la faccende domestiche sembrasse inadeguato alle tue esigenze, e tu volessi farle a modo tuo, io non avrò nulla da eccepire.»
Questa secchiona parla come un libro stampato. Non me ne frega niente di quello che dice.
L’Ada si era messa a ridere: «Se ti piace fare la serva, accomodati. Io ne faccio volentieri a meno. L’unica cosa che mi è andata a fagiolo di ciò che hai detto è che non interferirai nei fatti miei. Guai se tu lo facessi! Non riuscirei a perdonartelo.»
Sembrava un modo di dire, ma venne il giorno che si rivelò una verità assoluta.
Mentre l’Ada è stesa sul letto, dopo essersi ritirata dalla finestra, i ricordi le si affollano nella mente come covoni di grano.
Intanto Maria rientra dal giardino. Bussa alla porta delle sua camera e chiede: «Cosa vuoi per cena?»
«Fa come ti pare. Il caldo mi toglie l’appetito.»
Non è solo il caldo, ma l’assenza di Marco. Un’assenza più lunga del solito. È stata una settimana di notti insonni, cariche di dubbi, di attese inutili, di rodimento di fegato che le lascia la bocca amara.
Marco è il coinquilino giovane del piano di sotto. Ventidue anni, quattordici meno di lei.
Si sono capiti subito, al primo incontro davanti al portone.
Lui farfallone e demotivato. Attratto come una calamita dalla bella donna matura e invitante.
Lei, reduce da amorazzi inconcludenti e bisognosa di sesso generoso. Lui gliene dà. Anche se ultimamente è piuttosto tiepido e assente.
L’Ada s’addormenta.
La svegliano le voci provenienti dalla cucina. Insieme all’odore di cibo.
Marco è tornato.

Il ventilatore muove l’aria grassa e fa rumore. Lui si alza pigramente dalla seggiola e lo va a fermare.
Devo chiedere a Maria se mi dà una mano per l’inglese. Lei lo parla e scrive quasi correttamente. Come faccia non lo so. È ancora così giovane! Sarà perché aveva quel parente inglese che frequentava la sua casa.
Marco, che è studente fuori corso, ha deciso di rimettersi a studiare. Non può più permettersi di tirare a campare. L’università va finita. Lo zio è stato chiaro: «Se non ti decidi a laurearti non ti prendo. I tuoi ci tengono e anch’io. Dal momento che ti passerò la gestione della ditta, preferisco avere accanto un dottore piuttosto che uno scansafatiche incapace di avere in mano un pezzo di carta che lo qualifichi. Sarei costretto a pensare che non faccio un buon affare ad associarti alla mia impresa.»
«Ma tu il pezzo di carta non ce l’hai.»
«I miei erano tempi diversi. Bastava sacrificio e buona volontà. Servono ancora, ma ci vogliono anche il diploma o la laurea. Meglio quest’ultima.»
Vediamo di farlo contento lo zio. Mi sta offrendo un futuro di comodo e soldini in abbondanza. Cosa voglio di più? Non che adesso faccia la fame. I miei sono abbastanza generosi. Ma è ormai tempo che la smetta di fare lo scansafatiche. Una bella rottura di palle però. E i miei devono riconoscere che ho un bel coraggio a mettermi a studiare in piena estate. Ma se aspetto l’autunno, magari mi passa la voglia.
Il giovane continua a parlare fra sé e sé, finché decide di salire al piano di sopra.
L’idea di vedere Maria lo eccita.
Si è stancato della sorella. Più che stanco (entrare nel letto di quella tardona è pur sempre un’esperienza interessante), è preoccupato. L’Ada rappresenta un concentrato di sesso, passionalità, violenza che, dopo le cavalcate notturne, gli lasciano il segno sulla pelle. E inoltre la trova strana. Difficile da decifrare.
A me non sembra del tutto a casa. E poi è cattiva e presuntuosa. Per quanto la Maria si dia da fare a starle dietro (le lava persino la biancheria intima), lei non le vuole affatto bene. Ed è così sfrontata che me lo viene a raccontare: “quella lì mi è d’ingombro. Sono convinta che origli dietro l’uscio quando noi due facciamo l’amore.” Cretina! Finisce che mi si ammoscia.
È ormai trascorso un anno durante il quale Marco ha frequentato l’appartamento delle due sorelle con generosa assiduità, sia per consumarvi la cena che per godersi le grazie dell’Ada, quando, nel disertare sempre più le visite serali, dà un certo impulso a quelle diurne.
Cerca di convincere Maria che non c’è niente di male.
Lei insiste: «Non vorrei offendere mia sorella. Cerca di capire. Se lo venisse a sapere non me lo perdonerebbe. Ultimamente è nervosa. Tu la stai trascurando. E poi mi sono accorta che i tuoi genitori non hanno piacere che tu venga da me. Non mi salutano nemmeno più.»
Le frequentazioni serali e notturne del Marco, al piano di sopra, avevano già sollevato le proteste della mamma.
La donna cercava di sapere che razza di relazione avesse con quelle due. Un’idea ce l’aveva, ma sperava di sbagliarsi.
Prendendo in giro la madre, peraltro bigotta e timorosa, Marco le diceva: «Indovina. La più giovane è una cuoca eccellente. Meglio di te, che cucini sempre le stesse cose.»
«Cosa vuoi che me ne freghi? A tuo padre i miei piatti vanno benissimo. E non fare il furbino con me. Passi la notte a mangiare?»
«Più o meno. Cibo per il corpo e per l’anima.» e rideva di gusto.
«Cerca di essere serio. Io sono preoccupata. Te le fai tutt’e due?»
«Per essere una donna d’altri tempi, timorata di Dio, hai la mente sozza, mammina. Per tua norma vado a letto solo con la maggiore. È un gioco. Niente responsabilità, niente promesse di amore eterno.»
«È tanto più vecchia di te. Non si vergogna? E l’altra che le tiene bordone! Cosa fa mentre voi…?»
«In camera sua, stai tranquilla.»
Adesso la mamma ha un altro problema: le visite del figlio in pieno giorno. Si sono diradate le notturne e intensificate le diurne.
E lei torna alla carica: «Mi sa che ti stai impegolando con quella povera handicappata. Di notte, una visitina qua e là alla vecchia, di giorno alla giovane.»
«Oh! Insomma! Piantala! Non sono un bambino da tenere per mano. Ho ripreso gli studi e Maria mi è di aiuto. È talmente intelligente! Se mi rompi ancora le scatole con questa storia me ne vado di casa.»
La minaccia non avrebbe dovuto spaventare la madre (Marco se ne sarebbe andato solo quando si fosse reso finanziariamente indipendente, cosa che, per il momento, non era) eppure lei stava male ogni volta che glielo sentiva dire.
Così smise di interferire.
Durante il periodo degli incontri fra Marco e Maria, il giovane si sentiva sempre più attratto dalla ragazza, fino a credere di esserne innamorato.
Giorno dopo giorno cercava di tessere una trama di tenerezze, complimenti e affettuosità, per convincerla a contraccambiare in modo concreto il suo sentimento. Malgrado lei mettesse in campo tutte le scuse possibili per sfuggirgli, venne il momento che finì per cedere, sia pure senza permettergli di arrivare più in là di qualche effusione innocente. Lo faceva con immenso rimorso e paura. Se l’Ada fosse tornata dal lavoro prima del solito orario, avrebbe potuto scoprirli. Questa era la paura, mentre il rimorso le derivava dal tradire la sorella con l’uomo di cui la sapeva innamorata.
Marco ci scherzava sopra: «Innamorata di me? Quella lì non sa nemmeno cosa sia l’amore. Non protestare, è così. La tua ingenuità meriterebbe il Nobel. L’Ada conosce solo il possesso, mio… mio… mio… la devi sentire. Con te si controlla. Ma con me non si trattiene. Dal momento che mi ritiene un oggetto di sua proprietà.»

Un lunedì, nel pieno dell’estate, prime ore del pomeriggio, l’Ada dovette lasciare il negozio a causa di uno dei suoi terribili mal di capo. Prese la macchina e corse a casa. Quando entrò, trovò i due piccioncini in intimo colloquio sul divano di cucina. Non l’avevano sentita arrivare. Maria alzò lo sguardo su di lei e portò le mani alla bocca. Marco si alzò di scatto, cercando di chiudersi la patta dei pantaloni. Nessuno dei due disse una parola. L’Ada invece urlò. Un urlo di animale ferito. Si buttò sull’uomo e prese a menargli sberle sul viso. Marco cercava di proteggersi con le braccia alzate.
Maria si interpose fra loro e prese la sua parte. Poi la donna si girò e, raccolta una caraffa dal tavolo, la lanciò verso il divano gridando parolacce all’indirizzo dei due ragazzi. Con l’arma improvvisata colpì il giovane di striscio sulla fronte che prese a sanguinare. Maria scivolò a terra e Marco riuscì a raggiungere l’uscio che dava sulle scale.
Attraverso la finestra aperta, le grida dell’Ada e il rumore di oggetti infranti arrivarono sulla strada.
Di sotto la gente si radunava incuriosita. Proprio in quel momento rientrava da una passeggiata la madre di Marco. Guardò su e prese a salire le scale della palazzina col fiato in gola. Temeva che il figlio fosse in quella casa dove stava capitando qualcosa di grosso. Lo vide scendere e venirle incontro col sangue che gli colava dalla fronte.
La donna gridò: «Cosa t’hanno fatto, figlio mio?»
Il giovane le prese un braccio e la trascinò nel loro appartamento.
Di sopra era subentrato il silenzio.
Maria, seduta per terra, piangeva piano, a singhiozzi brevi.
Quando alzò il capo e guardò la sorella, ebbe paura. La vide immobile, al centro della stanza, con una espressione allucinata e la bava alla bocca. La ragazza trovò la forza di scappare nella sua camera e vi si chiuse dentro.
Nei giorni che seguirono l’Ada cercò di riprendersi e di fare mente locale.
Dopo la reazione terribile di quel pomeriggio e quella strana assenza che l’aveva colta subito dopo, aveva provato un bisogno impellente di sonno che qualche pillola per il mal di testa era riuscita ad indurre fino allo sfinimento. Ingoiate le pastiglie, era corsa anche lei nella sua camera e si era buttata sul letto, dove rimase, del tutto incosciente, fino al mattino.
Maria, allorché si rese conto del silenzio che regnava in quella stanza e del troppo tempo che passava, si mise a picchiare i pugni contro la porta chiusa e a chiamare a tutta voce la sorella, senza peraltro ottenere risposta. Ebbe paura, ma non osò chiedere aiuto ad alcuno. Non sapeva cosa fare. Passò buona parte del tempo a girare per la cucina, fino a che si addormentò con le braccia sul tavolo. Il mattino seguente, verso le sei, si svegliò di colpo e corse verso la stanza dell’Ada. La sentì muovere e borbottare. La chiamò, pregandola di uscire: «Ti devo parlare, spiegare… non è come credi… sì… ma io non volevo… forse… ti prego…»
L’altra non rispose. Verso sera lasciò la camera, vestita di tutto punto e persino truccata.
Senza rivolgere nemmeno uno sguardo a Maria, che cercò invano di attirare la sua attenzione, prese l’uscio e se ne andò. Aveva con sé la borsetta.
Erano le diciannove del martedì.
Raggiunse la trattoria sotto casa dove consumò una cena abbondante, innaffiata da vari bicchieri di vino.
Appena terminato il pasto, si era guardata attorno. I commensali erano per lo più facce conosciute. Gente del quartiere.
Si rese conto di essere osservata con curiosità, anche se non apertamente. Quella era una zona periferica della metropoli. Vi si viveva ancora in modo corale: ognuno sapeva tutto di tutti.
Per quanto la riguardava, non poteva essere diversamente. La piazzata che aveva messo in atto il pomeriggio prima, era diventata di dominio pubblico.
Già da tempo il gossip dilagava, investendo gli abitanti della casa a due piani dove vivevano, al primo, i componenti della famiglia di Marco e, al secondo, le due sorelle. Si mormorava che il giovanotto di belle speranze e poco costrutto se la faceva con ambedue. Era facile tesserci sopra il pettegolezzo più goloso.
Ora si aveva la conferma che lui godeva dei loro favori a tempi alterni: una la notte e l’altra il giorno. Salvo che la più vecchia delle due era all’oscuro della tresca diurna.
Averla scoperta aveva procurato quel popò di burrasca.
Alla fine del pasto il cameriere le si era fatto vicino chiedendole: «Desidera il caffè?»
Lei rispose con un ampio sorriso: «Grazie. Corretto per favore.»
Fu in quel momento che le venne in mente il progetto.
Doveva elaborarlo con calma e precisione.
Andiamo per gradi. La prima cosa da fare è recuperare la fiducia di Maria. Non sarà difficile. Lei non desidera altro. Si sente colpevole e invoca il mio perdono. Lo avrà. O almeno crederà d’averlo. Devo parlarle subito, stasera.

[continua]

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