Un angolo del Paradiso

di

Marcos Mazzuka P.


Marcos Mazzuka P. - Un angolo del Paradiso
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 250 - Euro 15,50
ISBN 978-88-6037-8521

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In copertina: «Soldato e casa» illustrazione di Blanca Ana Palou de Comasema


Prefazione

Nel romanzo “Un angolo del Paradiso”, Marcos Mazzuka racconta la storia di un uomo che, tenacemente, insegue la donna amata, consapevole che l’amore unico provato per lei non può avere eguali, non può essere sostituito e, attraverso i tragici eventi della seconda guerra mondiale, le alterne vicende familiari, il susseguirsi delle difficoltà della vita, si dipanerà la vita del protagonista Michele che sempre ricercherà, pervicacemente, l’amore per Margherita: leggerà migliaia di volte la sua lettera, sentirà il suo profumo pur essendo lontano, immaginerà le sue carezze e desidererà averla tra le mani, quasi in un costante unico pensiero, in un’amorosa ossessione che lo vedrà inseguire Margherita per tutta la vita.
Nel dipanarsi del racconto, emergerà una sorta di dualità nella figura del protagonista che, da un lato, assumerà le sembianze di un uomo profondamente innamorato, disposto a mettere tutto in gioco anche a rischiare la sua vita o arrivare ad estreme conseguenze esistenziali pur di poter vivere insieme alla donna amata e, dall’altro lato, l’immagine di un uomo quasi soffocato dalla ossessione per una donna, incatenato ad una visione egoistica del sentimento che lo pervade, capace di abbandonare ogni persona pur di poter riavere una donna “tutta per sé”, “solo per sé”.
L’autore alimenta, con mano sapiente, la figura del protagonista, un uomo che diventa simbolo della condizione stessa dell’umano vivere e sentire, della complessa moltitudine d’intenti che assediano la mente: incarna la visione e la concezione dell’Amore, il tormento e la passione, la dolcezza ma anche l’ossessione d’amore quasi a ricordare che niente è così semplice e chiaro, anzi, proprio nelle zone d’ombra, nelle contraddizioni, inquietudini ed errori, si possono scorgere gli spiragli della verità. E, proprio perché la verità non è mai una sola, ma esistono “le verità”, si potrà ritrovare, nel suo percorso esistenziale, tutto ciò che può lambire la coscienza d’un uomo, che può lacerare la carne e ossessionare la mente.
L’autore cosparge il romanzo di illuminazioni creative e di visioni evocative mettendo sempre in primo piano le evidenze d’una scelta d’amore. In fin dei conti, enuclea da un contesto la sostanza che diventa energia propulsiva nel percorso del protagonista e la innalza a simbolo della vita stessa: l’Uomo diventa la vita e la vita una costante ricerca.
Espande la visione narrativa, muovendosi su due piani temporali: nel presente che vede il protagonista muoversi in una condizione di sofferenza e nel ricordo del tempo vissuto, delle scelte fatte, dell’amore unico per una donna.
Le alterne vicende si snoderanno lungo il suo percorso, in un difficile e periglioso cammino che attraverserà il periodo della seconda guerra mondiale facendo i conti con il dolore e la morte, l’ostilità della famiglia della donna amata, il piccolo paese di Santa Severina e il primo bacio rubato sotto la finestra di Margherita, la partenza per l’America, e poi, la condizione di misero alcolizzato, rannicchiato sotto i cartoni, il ricordo di Margherita insieme a lui, seduti all’ombra del vecchio ulivo e il dolce sorriso di lei e le sue parole “Il mio amore ti condurrà a me, ti proteggerà”.
Ecco allora, davanti ai nostri occhi, la visione della vita come una incessante ricerca di se stessi e dell’amore: il viaggio di ricerca, di conoscenza, forse, la vera essenza di questo romanzo dell’autore che possiede l’intensità narrativa e la capacità di rendere viva e pulsante la storia d’un uomo che si muove nelle difficoltà della vita sospinto dalla bramosia d’amore per una donna.
Il romanzo ha un ritmo incalzante e non lascia spazio a pause, anzi, Marcos Mazzuka apre continuamente nuove porte narrative, immagini evocative ed inaspettate prospettive, in un crescendo rossiniano, fino all’inevitabile epilogo che segna la carne e sconvolge il cuore.

Massimo Barile


Un angolo del Paradiso


Prologo

«È stata tutta colpa mia! Sono arrivato a questa conclusione dopo aver raggiunto la consapevolezza che molte cose si sarebbero avverate. Ma è anche certo che più volte ho cercato di dirlo, di parlare, ma non ne ho avuto mai il coraggio. Di sicuro so che a molti che conosciamo non importerà nulla di questa storia… forse solo a voi due. Credo però che il fatto di averla vissuta questa vita, rappresenta un motivo per considerarla qualcosa da raccontare, anche se continuo il mio peregrinare cercando di placare il dolore profondo che mi strugge l’anima e che mi indica una sola via di scampo. – Sentii gli sguardi di Marco e Rosina su di me – Tutto per un amore perso, che più volte potei afferrare e di cui più volte mi vidi privato.
Non so come mi considerate voi, fratelli miei, né cosa pensassero papà e mamma del mio atteggiamento di fronte a quello che successe, ma arrivato a quest’età, mi sono lecite diverse cose, e una di queste è poter raccontare la storia così com’è successa, senza nascondere nulla per timore di rappresaglie. – Feci una pausa per schiarirmi la gola, poi continuai – Cari fratelli, cercherò di essere conciso nel mio racconto ma, vi prego, siate tolleranti, perché gli anni e l’alcool hanno fatto della mia mente qualcosa di poco affidabile; molte volte confondo i fatti ed intreccio i pensieri. Vi prego anche di essere pazienti se qualche parte di questa storia è piena di particolari, ma furono i momenti più felici della mia vita, e ancora adesso mi sostengono. Siate perciò condiscendenti e poco portati alla critica. Perché credo di aver sofferto molto in questa vita e non so quanto potrò ancora reggere.» Mi sentivo stanco, deluso, con una gran voglia di farla finita per sempre.
Il bianco delle pareti dell’ospedale dove ci trovavamo, non era la cornice che io avevo sognato per queste rivelazioni. Marco e Rosina sembravano due bambini, seguivano ogni mio movimento con gli occhi spalancati, in attesa della mia storia, ma era molto difficile immaginare cosa pensassero di me, un vecchio mendicante alcolizzato.
Il tempo e le sofferenze avevano scolpito sul volto di mia sorella dei solchi profondi. Sapevo bene che gran parte di tutto ciò, era stata colpa mia.
Ne era rimasta ben poca della giovinezza di un tempo, che faceva sognare i giovani del paese, la nostra cara Santa Severina. Marco invece sempre sobrio ed elegante non aveva perso le sue belle maniere. Lo amavo per la forma come faceva diventare tutto facile, bello, possibile. Era sempre stato la musica e l’allegria della famiglia. Si mise a sedere incrociando le gambe, dopo aver aiutato Rosina ad accomodarsi sul divano.
Cominciai a parlare andando avanti e indietro nel tempo, cercando di sbrogliare quella matassa di ricordi, miscela di passione, affanni e sofferenze. A volte davo un senso logico alla sequenza dei fatti, ma altre mi era impossibile, sentivo come l’alcool aveva sciolto certi ricordi fondendoli in un unico pensiero: Margherita.


CAPITOLO I

“Camminare, camminare, sì, camminare. Ecco una pietra, sasso, pietra, pietra… piede”. Queste parole mi frullavano in mente come una giostra senza fine, che mi spingeva avanti. Era diventata ormai l’unica forma di semicoscenza che mi connettava con il mondo circondante.
«Cammino bene, cammino dritto!», gridai; riuscivo a seguire il marciapiede senza inciampare molto, e questo mi sorprese.
«Levati di mezzo, ubriaco puzzolente!», quell’urlo mi sembrò un tuono, ma non mi sconvolse.
«Ubriaco? Ubriaco… puzz… io? Ahh!!!»
Un colpo sulla testa mi fece cadere a faccia in giù sul ruvido asfalto di quella affollatissima via di New York. Le persone si scostavano come se stessero evitando un animale pericoloso, qualcosa di viscido, di sudicio e schifoso che doveva essere tolto di mezzo al più presto.
«Ti faremo vedere noi, questa è una zona decente! Vai via, sporco ladro!»
Non mi fece tanto male la bastonata sulla testa quanto il calcio nello stomaco. Mi girai rantolando e strisciai fino ad un vicolo scuro… se non ci fossero vicoli scuri a proteggerci dagli sguardi d’odio della gente, non ci sarebbero barboni… saremmo morti tutti sotto i colpi della “giustizia” umana.
Mentre strisciavo mi sorprendevano varie cose: il sapore acre del mio sangue, che continuavo a vomitare; la forza che ancora avevo per scappare dalla brava gente; e soprattutto che riuscivo a pensare, – grazie a Dio! –, quindi non ero un animale, no, non lo ero… perlomeno così credevo.
Nel vicolo raggiunsi il deposito dei rifiuti e mi gettai dentro; nessuno mi avrebbe dato fastidio lì. L’odore insieme dolce e rancido mi sembrava familiare e a poco a poco mi assopii.
Non so quanto dormii ma mi svegliai con un sussulto: delle voci ecchegiavano nel vicolo. Ero lì, tra l’immondizia, con la puzza fetida che era ormai parte della mia vita. Stordito dal pestaggio, alzai la testa dolorante fino al bordo del bidone e fu allora che vidi il motivo del mio risveglio: una coppia raggiungeva l’ombra complice del vicolo, baciandosi e accarezzandosi, senza tregua.
Li vidi un attimo, poi sprofondai nuovamente… “Baci e carezze”, pensai cercando di fermare il vortice dei pensieri che avevo in testa… Quando era stata l’ultima volta che avevo sentito la carezza dolce d’una mano?
Questi pensieri mi tormentavano mentre la testa girava e il dolore allo stomaco diventava insopportabile. Fu allora che sentii un grido straziante, e mi ci volle un po’ di tempo perché mi rendessi conto che non veniva dalla mia mente confusa.
Di nuovo alzai la testa e potei vedere come l’amore di prima era diventato una belva feroce, l’uomo le strappava i vestiti e la colpiva con pugni e calci.
«Noo!!!» Gridai con tutte le forze che mi rimanevano, ma il mio fiato era così debole che mi sentii solo io, e persi conoscenza dopo un conato di vomito.
Quanto tempo ero rimasto incosciente non lo sapevo, ma una goccia di pioggia dopo l’altra, come un torrente, cominció a cadere su di me svegliandomi di colpo, cercavo di uscire da quella specie di bara, tossendo e tremando dal freddo. Il passato e il presente non avevano senso per me da ormai molti anni, ma stranamente in quel momento mi sembrava che la notte non fosse ancora finita. I miei dolori erano lì a farmi compagnia, mi ricordavano come buoni amici che ero vivo.
In qualche modo riuscì ad afferrare il bordo del bidone «Sì, Mike, con forza!» Era da tempo che non pronunciavo il mio nome.
«Con forza, Mike!»; sì, suonava bene.
Misi fuori la testa, appoggiai un piede sul bordo e finalmente uscii…
Poggiai la mano sullo stomaco e mi sedetti sulla strada mentre una poltiglia di rifiuti colava da tutto il mio corpo. Alzai il viso al cielo, per sentire l’acqua fredda che penetrava gli stracci, la pelle, le ossa ed arrivava in profondità purificando tutte le mie pene e tutte le mie debolezze.
Un lampo illuminò il cielo disegnando nel nero un’opera d’arte… e fu così che la vidi. Era un’ombra, che s’illuminava a scatti con la luce dei lampi, per poi cadere nell’oscurità più assoluta. I miei occhi grondanti d’acqua gelida rimasero inchiodati in quella direzione, come ad aspettare che qualcuno accendesse un lume per poter vedere cosa c’era laggiù.
E in quell’istante un altro lampo meraviglioso, ma spezzato in due, diede vita solo per un attimo a quel vicolo putrido dimenticato da Dio.
C’era qualcosa o… qualcuno che rifletteva pallidamente la luce sotto le gocce di pioggia che cadevano incessanti. Strisciai come un animale ferito fino ad esserle accanto. Era una giovane donna, dal collo le sgorgava un filo di sangue che veniva lavato via dal diluvio che ci cadeva addosso.
Rimasi in ginocchio per qualche minuto senza azzardarmi a toccarla, aveva un viso perfetto. Le mie dita tremavano e i miei guanti sudici e stracciati non erano certo adatti a sfiorare quella bellezza. Finalmente, facendomi forza e controllando il disprezzo che provavo per me stesso, mi avvicinai di più per rubarle una carezza. “Come sei bella”, pensai. Presi la sua testa e la girai lentamente.
Vidi il lungo taglio che aveva sul collo e fu in quel momento che lei aprii gli occhi.
Due grandi smeraldi mi fissarono, ma solo per un attimo, quanto bastava per ridarmi la vita. Non emise nessun gemito, nessun grido di paura, semplicemente mi squadrò per qualche secondo, per poi abbassare le palpebre nuovamente. La sentii afflosciarsi tra le mie braccia. “È morta”, pensai. La accomodai con delicatezza sulla strada, strappai un pezzo dal vestito stracciato e cercai di curare quella ferita che profanava la bellezza più pura riducendola a una cosa disgustosa. Finii con la velocità che mi permetterono le mani tremanti.
Mi alzai barcollando sotto la confusione dei demoni della mia mente, ma non volevo che la povera fatina fosse divorata dai cani e quindi girai in circolo, pensando e grattandomi la barba intrecciata e sudicia.
Ad un tratto ebbi un’idea: “Sì, Mike, è un’idea!” Mi meravigliai di poter tirar fuori ancora idee dal mio cervello. Quando si è sospesi nel nulla, vale la pena solo di respirare, e a volte nemmeno quello. “Sì, sì, Mike, forza, l’idea, ecco, devo attirare l’attenzione di qualcuno… Sì, bravo Mike, così finisco questa squisita esistenza in una fogna di carcere. No, – Presi una pietra – uno straccione può solo essere incolpato, qualcun altro deve chiamare aiuto, ecco l’idea!”. Alzai lo sguardo verso l’alto: la pioggia era inclemente e vedevo a malapena ma, strizzando gli occhi, riuscii a scorgere una luce dietro una finestra, allora stesi il braccio il più che potei, stringendo i denti dal dolore, e lanciai il sasso. Mille pezzi di vetro caddero come una pioggia di diamanti con un frastuono infernale.
«Figlio d’un cane! Disgraziato, adesso chiamo la polizia!!!», urlò l’uomo mentre dall’alto brandiva il proiettile appena lanciato.
«Sì, la polizia. Bravo, cerca la polizia, intanto io cambio aria».
E mentre dicevo questo, strisciavo via da quel vicolo con la stessa velocità di un felino.

La corsa mi aveva affaticato, avevo attraversato quattro isolati pieni di miseria e immondizia sotto una pioggia fredda che andava e veniva a ondate facendomi più volte scivolare.
Girai l’angolo e mi trovai di fronte il grande parco della città, di solito pieno di gente, musica, bambini con palloni, ma che in quel momento solo accoglieva una notte bagnata, fredda e ventosa, adatta solo a relitti umani come me.
Intravidi il cancello dell’entrata, e attraversai la strada di corsa. Dopo l’ultimo scivolone, riuscii a malapena ad aggrapparmi alle sbarre di ferro ma non prima di sbatterci la faccia contro. Mi rialzai stordito e non feci nemmeno caso al sangue che mi usciva dalla bocca; persi di nuovo le forze e caddi nuovamente, rimasi in ginocchio, riflettendo sulla mia condizione, perché l’unica cosa che a me importava era il presente. Il domani è solo per la gente fortunata, e non era proprio il mio caso. Quindi cominciai a esaminare la situazione, come lo può fare un misero alcolizzato: avevo il piede destro malconcio, la bocca con uno squarcio, ma il vero male era allo stomaco; il calcio ricevuto si faceva ancora sentire. Mi guardai alle spalle: nessuno. Davanti solo buio; alzai la faccia verso l’alto e di nuovo il buon Dio volle coprirmi col suo manto d’acqua lavando ogni mia debolezza. Mi alzai e, zoppicando, mi inoltrai nel mio territorio seguito da qualche tuono che voleva imporsi al fragore della pioggia.
Feci pochi passi dentro il parco, mentre il buio mi avvolgeva, a tal punto da non sapere dov’ero finito. Mi sentivo fondere con l’oscurità. Rallentai la corsa. “Non mi segue nessuno, sono solo, sei solo Mike”. Mi ripetevo in continuazione. Il respiro affannoso divenne poco a poco più regolare. Mi fermai. Non si vedeva nulla, era come se un drappo nero mi circondasse, separandomi dal resto dell’umanità. Era l’unico desiderio che mi tormentava da tempo: sparire, volevo sparire da tutto e da tutti. Il buio profondo mi offriva questa opportunità, era perciò il mio amico più caro.
Mi sentivo nel mezzo dell’infinito nulla. Respirai profondamente e il buio entrò nei polmoni e nel sangue, facendomi dissolvere nello spazio. Speravo che ogni parte del mio corpo sparisse, si scioglesse. Volevo che fosse vero, volevo… morire!
“Perché non si può morire solo desiderandolo, come quando chiudi gli occhi? Sì, oggi voglio morire, perché è il momento buono, quello che ho sempre aspettato. Io sono padrone della mia vita, e quindi morire è una cosa banale, che si può volere come bere un po’ d’acqua, o magari sedersi su una panchina”. Questi miei pensieri furono spazzati via con la stessa velocità con la quale ti svegli di sopprassalto da un sonno profondo.
Un rumore spaventoso squarciò il mio vuoto silenzio. Due spari e un grido affogato ruppero l’aria. Aprii gli occhi e cominciai a camminare, zoppicando in direzione opposta alla realtà; pochi passi, con la velocità che potei. Ma ad un tratto mi fermai. Era come se una mano invisibile mi stesse trattenendo dal collo della logora camicia. I pensieri di fuga scomparvero. Mi voltai e i miei piedi mi spinsero verso l’ignoto. La pioggia era scomparsa e una soave brezza marina portava tutti gli odori del porto fino all’interno del parco.
Mi sentivo marcio dall’acqua ricevuta e finalmente capii cos’era quel tremore intenso che veniva da tutto il corpo. Dovevo trovare un posto al riparo e magari fare un bel fuoco. È strano come anche solo un’idea piacevole ti possa riscaldare; sentivo quasi il tepore del fuoco tra le mani.
Nella profonda oscurità del parco non vidi il corpo sotto il ponte, inciampai e caddi faccia a faccia con la morte. Due occhi vitrei che fissavano l’ultimo attimo di vita erano di fronte a me. Doveva avere circa quindici anni, ma il viso era una maschera di sofferenza che lo faceva più vecchio di dieci, i capelli lunghi fino al collo, vestito bene; nel pugno chiuso si intravedeva una bustina di polvere bianca.
Mi allontanai da lui strisciando all’indietro e mi appoggiai al muro del ponte incurante del pericolo.
I lampi continuavano la loro danza macabra e disegnavano un sorriso surreale sulle labbra del cadavere. Ricominciò a piovere.
“Fino a quando dovrò sopportare questa miseria? Uccidimi, Dio!”.
Ero senza idee, a corto di fiato, e la vita ogni minuto valeva meno per me. Con uno sforzo tremendo, che può provare solo chi non mangia da… “quanti giorni, Mike?”, ormai avevo perso il conto, mi trascinai fuori da quell’ultimo atto di tragedia, perché una cosa era certa: la morte mi era sempre più amica, ma volevo vederla sotto le stelle e non dentro un carcere puzzolente di piscio. Quello lo lasciavo ai miei colleghi.
Incominciai nuovamente la mia folle corsa attaverso il parco infangato, cercando riparo dal vento e dalle sferzate di acqua gelida.
In lontananza vidi la luce di un lampione che si offuscava sotto il diluvio e che sembrava voler aprire un varco dietro a quel muro d’acqua. Era il mio orizzonte, il mio faro. Riuscii finalmente a raggiungerlo.
Sarei stato al riparo, nella mia reggia, i miei cartoni sotto il ponte.
Solo quando senti il freddo fino al midollo, ti accorgi che un vecchio castello è meno accogliente dei pezzi di cartone: il mio buco fangoso sembrava perciò il miglior posto dove finire.
Mi rannicchiai sotto quella montagna di carta pressata e scatoloni e rimasi immobile, ascoltando il frastuono del temporale e il rigagnolo, ormai un torrente, che scorreva a pochi centimetri delle mie logore scarpe. Allora, vinto dalla stanchezza, mi assopii, mentre il mio cervello sconvolto mi rimandava immagini e ricordi confusi.


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