Layers (Millefoglie)

di

Maria Gleeson La Pia


Maria Gleeson La Pia - Layers (Millefoglie)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 242 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6037-5988

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In copertina: “Nout et la lune” illustrazione realizzata da Octavia Maria Gleeson


Layers (Millefoglie)

Al mio piccolo, grande amore:
Octavia


Arianne & Zein

“Come vi siete conosciuti?”
“Lascia perdere…”
“Dai, siamo tra noi… a chi vuoi che lo dica… non conosco più nessuno in questa città della malora”.
“Ma ci hai vissuto, no? Come fai a non conoscere nessuno?”
“Londra è una città di passaggio per tanta gente. Vieni, stai qualche anno e poi te ne vai… a vivere una vita vera in campagna, in una città più tradizionale, più piccola o ritorni nel tuo paese d’origine. Qui restano soltanto quelli che non vogliono crescere, che si illudono di non invecchiare… a fare le stesse cose anni dopo anni… io, appena ho potuto, me ne sono ritornata a Beirut per ricominciare”.
“Pensavo che Londra ti piacesse…”
“Certo che mi piace…”
“E allora, non vedo il problema”.
“Londra è una giostra, giri, giri e non arrivi mai. Ci sono le luci, la gente bella, la musica, i colori e tu pensi di arrivare da qualche parte prima o poi… ed invece ti ritrovi sempre al punto di partenza”.
“Non sono d’accordo con te, ci sono famiglie anche a Londra. Dai, non è il paese dei balocchi!”
“Ci sono, ma se ne stanno nel loro gruppettino, per tener vive tradizioni che vengono da paesi lontani. Guarda noi, o meglio, voi francesi, siete tutti ammucchiati tra Battersea e South Kensington, vi siete portati dietro un liceo, nei negozi della zona si sente più francese che inglese… quanti siete a proposito?”
“Circa 300.000. Londra è la settima città francese per numero di abitanti”.
“Appunto…”
“Appunto, non ci si sta poi così male”.
“Non ho mai detto questo. Mi sono limitata a dire che bisogna stare attenti… se finisci in altomare da queste parti, ci vuole un nulla per perdere il filo e ritrovarsi a vivere in un mondo fatto di illusioni… un mondo che non c‘è”.

Scende tra loro il silenzio, entrambe pensano ai loro mondi e continuano a bere, tanto per fare qualcosa. Anche nel silenzio, la loro conversazione continua, si sentono vicine, protette, tranquille. Il fuoco scoppietta allegro e la stanza ha un buon profumo di legno. Un odore vero, che la natura ti regala e che la città ti fa dimenticare.
Si guardano, si sorridono e riprendono la loro chiacchierata sdraiate una accanto all’altra sul tappeto invaso da cuscini e coperte lasciati dai bambini prima di andare a dormire.

“È caldo…”
“Mettici un cubetto di ghiaccio…”
“Sei pazza? Annacqui lo champagne?”
“Tanto per rinfrescarlo un pochino…”

Il resto della casa è avvolta nel silenzio. Finalmente i bambini devono essersi addormentati, le nanny saranno appiccicate ai loro iPod o incollate davanti a un video. Qualche imposta sbatte indispettita contro il muro. Deve aver ricominciato a piovere. Arianne si avvicina ad una finestra e cerca di scrutare là fuori. È tutto nero. Si sente soltanto il vento ululare e correre veloce tra gli alberi brulli del giardino, scendere il viottolo sassoso fino a raggiungere la riva del lago. Il lago, cupo e freddo, fa paura anche di giorno. Arianne rabbrividisce al pensiero di trovarsi su quella riva, immagina le acque profonde incresparsi in superficie, l’aria gelida della notte. Rapida apre la finestra, chiude le imposte e ritorna a sedersi vicino all’amica.
“Perché ascoltiamo i Beatles? Non mi sono mai piaciuti…” – dice Arianne con uno sbadiglio.
“Neppure a me, ma dato che siamo in Inghilterra… pensavo si addicessero all’ambiente un po’ decadente e passato di moda… Questo CD l’ho trovato in un cassetto di quella scrivania” – e addita un mobile massiccio – “Se ti avvicini in silenzio, senti le tarme che lo stanno rosicchiando… vedrai che un giorno cade a terra in briciole”.
Ridono.
“È stato tuo marito ad affittare questo castelletto barcollante?”
“E chi altro? Io detesto tutto quello che non è ultra moderno e cittadino. Lui invece, sogna di vivere a contatto della natura… intanto il signorino è a New York questa sera e noi, con il branco dei pargoletti e le nanny schizzate, siamo prigioniere in questa bettola dickensiana…”
“Dai, non ti arrabbiare. Lo sai che si è trattato di un’emergenza. Ti aveva promesso di trascorrere questa settimana con le gemelle…”
“Zein, se fossimo stese sotto le stelle dei Caraibi lo perdonerei. Ma siamo sepolte in questa specie di rocca ai bordi di un lago tetro, circondate da boscaglia folta e gente che non capisco. Hai sentito che inglese si parla da queste parti? Voglio tornare a Londra, per lo meno posso andare a prendermi un caffè come si deve a Ladurée, farmi le manicure e spendere un po’ di tutti quei soldi che François ammassa e non ha neppure il tempo di spendere…”
“In compenso ci sei tu… più veloce della luce…”
“Ci puoi contare… i soldi vanno spesi e alla svelta… non si sa mai cosa ci aspetta!”
“Se non stai attenta, la povertà...”
“Con François? Mai!”
“E se ti pianta?”
“Non ha tempo… poi sono certa che a modo suo mi ama. Anzi, ne sono certa…”
“Insomma, me lo dici come vi siete conosciuti?”
“Se te lo dico, devi promettermi di non spifferarlo ad anima vita…”
“Giuro, cross my heart, wish to die…”
“Dopo la laurea, sono stata mandata da mio padre a fare tirocinio in uno studio legale parigino. Avevo ventuno anni, ero bella, giovane e vergine!”
“Ma per poco…”
“Esatto! Dopo una settimana al prestigioso studio legale Leverger-Melaranci, in veste di seconda assistente al famoso avvocato François Leverger-Melaranci ho perso la mia verginità sul divano del suo studio un venerdì sera… o forse era un giovedì... no, no era venerdì. E dopo nove mesi è nato un bel bambino, o bambina, non so, perché...”.

Arianne smette di parlare bruscamente, si irrigidisce e gli occhi le si riempiono di lacrime. Si versa ancora un bicchiere di champagne che beve in fretta. Dopo essersi asciugata la bocca con la mano sinistra, riprende a parlare, gli occhi fissi sulle fiamme del caminetto, le labbra, umide di champagne, le brillano:

“Perché non me lo hanno fatto neppure vedere. La signora Leverger-Melaranci N. 1 era presente al parto e se lo è portato via immediatamente. In un certo senso si è trattato di un baratto. Io le ho dato il mio bel bambino e lei mi ha dato suo marito. Così adesso sono io la vera signora Leverger-Melaranci… Ecco come ho conosciuto mio marito. Un marito che mi sono comprata con il mio sangue… e anche il suo…”

Anche il volto di Zein si fa serio, si siede e appoggia la schiena al divano, pentita di aver tanto insistito, ma al tempo stesso curiosa di sapere cosa è accaduto a quel bambino o a quella bambina. Vorrebbe dire qualche cosa, tanto per incoraggiare l’amica, per non farla sentire ancora più in colpa con il silenzio pesante che è piombato tra le due. Le esce invece dalla bocca una specie di rantolo, un “ma” carico di pregiudizi.

“Niente ma. Ero molto giovane, lo amavo alla follia e sì, me lo sono comprato il mio bel maritino. Sai, loro due non erano riusciti ad avere figli, avevano entrambi passato la quarantina e quindici anni fa non usava molto diventare mamma con provette varie a quarant’anni suonati. Quando la bella signora si è accorta della mia presenza dapprima è andata su tutte le furie, poi un giorno è venuta a trovarmi. Ho avuto una paura… me la sono trovata davanti tutta ingioiellata, profumata, elegante e fredda. Senza tanti complimenti si è intrufolata nel mio appartamentino, si è seduta al tavolo del salotto, si è accesa una sigaretta e mi ha detto:

“Non concederò mai il divorzio a mio marito. Perché non ti trovi qualcuno della tua età?”
Io sono rimasta in piedi tra l’ingresso e la sala – me lo ricordo come se fosse ieri – e lei: “Siediti, non ti mangio mica. Anche se devo ammetterlo che un paio di sberle te le darei volentieri. Che ne dici se ti offro una bella vacanza di qualche settimana, tutto pagato… puoi portarti un’amica o un amico, però non ti rifai viva nello studio di mio marito”.
“Ma io lo amo… ci amiamo… e poi…”
“Poi cosa? Lo sai che il tuo amore è mio marito? Ci siamo sposati quando tu non eri neppure nata. Quindi lasciamo perdere i tuoi poi…”
“Ma… ma, io aspetto il nostro bambino”.
“Cosa?” ha urlato, le è caduta la sigaretta dalle mani. Con il piede l’ha spenta sulla mia moquette nuova di zecca, è saltata in piedi come se le avessero dato fuoco, mi si è avvicinata e con la sua bocca color glicine, come la camicetta di seta che indossava, dopo qualche minuto di silenzio – era ovvio che stava pensanto e anche in fretta – mi ha gracchiato:
“Tu ed io dobbiamo fare un lungo discorso, carina. Siediti”.

“Ancora oggi se ci penso, mi sembra di respirare il suo alito alla menta… ogni volta che annuso o vedo menta, mi sembra di svenire…”
“Come hai potuto darle il bambino?”
“Non avevo scelta, ero così giovane ed ingenua. Mi ha detto che lo avrebbe spifferato a destra e a manca, che i miei genitori sarebbero morti di vergogna e che François amava troppo il suo lavoro e al massimo avrebbe pagato per un aborto. Io non volevo abortire, ma non ero neppure pronta a diventare mamma. Ha pensato a tutto lei, mi ha trovato un lavoro a Nizza da un avvocato suo amico. I primi mesi sono riuscita a vedere qualche volta François, poi quando ho cominciato ad ingrossare, ho tirato in ballo i miei genitori, il bisogno di separarsi per qualche mese per vedere se ci amavamo veramente, data la differenza di età. François ha ventidue anni più di me… Lui ha accettato la nostra separazione temporanea con maturità ed io – sotto istruzione della signora – mi sono ritirata in una villetta nelle colline dietro Cannes ed ho aspettato la nascita del mio primo bambino. François e la sua ex-signora si sono separati e lei è andata ad abitare a New York… con il “suo” bambino! Fine della storia”.
“Sei sicura che non lo abbia ucciso, non so per rabbia, gelosia…”
“No, non sai quanto volesse essere madre. In un certo senso mi faceva anche un po’ pena, aveva dedicato venti anni della sua vita a questo uomo bellissimo, intelligente, colto, ma sempre indaffarato e si è ritrovata a quarantadue anni senza figli, con una ventenne che non solo voleva portarle via il marito, ma gravida! Cielo, se fossi stata nei suoi panni non so cosa avrei fatto…”
“Io l’avrei uccisa con le mie mani… cioè voglio dire, ti avrei uccisa con le mie mani”.
“Grazie…”
“Sai quello che voglio dire… se qualcuno mi facesse uno scherzo del genere, beh il mio è sangue caldo… non ci sarei passata sopra tanto alla leggera”.
“Senti, vado a prendere un’altra bottiglia, questa è quasi finita e poi è troppo calda…”
“C‘è niente da sgranocchiare? Mi è venuta un po’ fame…”
“Ci dovrebbero essere delle noccioline…”

Zein, sola davanti al caminetto non può fare a meno di ripensare a quello che le ha appena confidato l’amica. Fino a stasera aveva pensato che Arianne fosse una delle persone baciate dalla fortuna, bella, magrissima, alta, ricca, amata da un uomo interessante e bello con due gemelle adorabili ed il fascino di chi sa di essere nel giusto, sicura. Ma anche lei, la bella ariana ha un neo scuro e peloso grosso come una noce che riesce a nascondere alla perfezione agli altri, ma non certo a se stessa. Come può camminare per le strade, sedersi nei ristoranti, volare da una città all’altra senza domandarsi se quella quindicenne dalla minigonna vertiginosa o quel quindicenne dai capelli lunghi e il volto ricoperto di brufoli non sia la sua primogenita o il suo primogenito? Mamma e figlio o figlia sotto la pioggia primaverile di una capitale, sulle piste nevose il giorno di capodanno o semplicemente mamma e figlio o figlia che si sfiorano tra la gente, uno sguardo altrettanto azzurro che si perde nel caos cittadino.

“Eccoti un bicchiere di champagne come si deve… a noi… anzi a mio figlio o figlia, che Dio vegli su di lui o lei… ovunque sia!”
“Amen… E François?”
“François cosa?”
“Lo sa?”
“Sei pazza? Tu sei l’unica persona a saperlo”.
“Perché me lo hai detto? Dopo tutto non ci conosciamo che da qualche mese. Perché ti fidi di me?”

Arianne guarda l’amica con affetto, comincia a piange senza ritegno, senza neppure cercare di acchiappare quelle lacrime calde, forse incoraggiate anche dalla quantità di champange bevuto nel corso della serata:
“Perché sei diversa”.
“Come diversa? Più pelosa di te?”
“Ma cosa dici? Voglio dire che sei diversa, non sei come me, o François o le mie amiche parigine… vieni da un mondo diverso, con valori diversi, sei antica… guarda non dico vecchia, ma antica… ti porti negli occhi la gloria, l’orgoglio, l’onore del tuo popolo… mi ricordi una regina dell’antico Egitto, una dea Greca… non so, non sono mai stata forte in storia o geografia, ma secondo me, tu hai un qualche cosa di sacro in te…”
“Non sono niente di tutto questo, ma grazie lo stesso. Nessuno mi ha mai paragonata ad una dea Greca… comunque non svelerò mai il tuo segreto ad anima viva, di quello puoi star certa. A pensarci bene anche tu sei diversa per me, sei così eterea, così trasparente, non mi stanco mai di guardarti, di guardare le tue bambine così bionde, così azzurre… siete come degli angeli… il tuo corpo è ricoperto da una peluria dorata, il mio da un vello nero… ho baffi e peli duri come quelli di un cavallo…”
“Ma che dici… non hai baffi… sei bella, i tuoi capelli sono forti, neri, vivi… hai gli occhi di un azzurro così profondo, i miei sembrano annacquati. Sai anche a me piace guardarti e guardare i tuoi figli… avete una pelle vellutata e ambrata… il tuo volto mi ricorda il vostro mare, il sapore di sale nell’aria, il sole cocente dell’Oriente…”
“Tu invece mi ricordi le vette nevose delle Alpi, l’aria cristallina in una giornata di sole in pieno inverno…”
“Siamo diventate anche poetesse…”
“Già...”

Le loro risate si mischiano alle loro lacrime, si avvicinano, si abbracciano forte, dapprima come sorelle, compagne di scuola, amiche… chiudono gli occhi e volano lontano tra le vette innevate delle Alpi, i sentieri bordati da abeti carichi di neve, il fruscio del vento, l’azzurro del mare che si schianta sulle coste calde di sole, sentono in lontananza una campana invitare i cristiani alla preghiera, mentre i canti musulmani si innalzano alti nel cielo e si confondono alle grida dei gabbiani. Scivolano sul tappeto davanti al caminetto, la loro solitudine si trasforma in compagnia, diventano complici in una notte di tempesta e si sentono meno sole, meno perse, più comprese.

––[continua]

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