Storie di quartiere

di

Maria Rosa Bertellini


Maria Rosa Bertellini - Storie di quartiere
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 94 - Euro 10,00
ISBN 978-88-6587-1164

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In copertina e all’interno: fotografie archivio di Oreste Alabiso


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2011


Prefazione

Il libro “Storie di quartiere”, di Maria Rosa Bertellini, è una raccolta di racconti legati alle manifestazioni del vivere, alla condizione esistenziale, alle contraddizioni dell’essere umano, all’importanza dei sentimenti e dei valori morali sui quali fondare la propria vita in modo autentico. Lo sguardo di Maria Rosa Bertellini è sempre acuto nell’osservare la realtà, con la sua capacità di penetrare in essa e di riportare in superficie la sostanza stessa dell’esistere, le pulsioni più profonde e le più labili percezioni dell’animo.
La sua parola riconduce ad un attento scandaglio delle emozioni dei vari protagonisti nei racconti che, in alcuni casi, assurgono a figure simboliche che sono testimonianze d’una determinata condizione di sofferenza, di disagio per la difficoltà di poter fare delle scelte in libertà e, in ultimo, dimostrazione di coraggio nell’affrontare le traversie della vita.
Come nel caso del racconto, intitolato “Sogni ad occhi aperti”, dove la protagonista Gaia, insegnante di storia dell’arte, desidera fortemente incontrare la sua anima gemella con cui condividere la vita e si trova a vivere una relazione con un uomo già separato e con due figli, ma, nonostante il fatto che le persone vicino a lei siano contrarie a quell’unione, lei, con coraggio, continua a credere e ad avere fiducia nell’amore che, inevitabilmente, trionferà.
Nel racconto dal titolo “Dietro l’obiettivo”, ritroviamo la vita di un fotografo per passione, un girovago per vocazione, che cercava di fissare i momenti irripetibili, gli istanti magici di una vita, le meraviglie della natura, tra terra, mare e cielo, fino al bagliore intravisto appena durante un tramonto. Come per incanto, era riuscito a creare una sorta di archivio del tempo, un giacimento d’immagini irripetibili ed uniche che diventavano testimonianza del tempo dell’esistere.
Poi, nel racconto “Vigilia di Natale”, v’è un’atmosfera che riconduce al senso di solitudine provato da una donna, ormai anziana, abituata a vivere da sola e a festeggiare il Natale in solitudine: ma, grazie ai ricordi, ritroverà la gioia di condividere la sua vita e le sue emozioni con gli altri.
Altre narrazioni cercano di fissare la condizione esistenziale e gli stati d’animo dei vari protagonisti, come nel caso della donna che leggeva le poesie di Neruda e, in una sorta di simbiosi, sentiva quelle parole “come fossero state scritte per lei”; o come nel caso di un viaggio in treno, che diventa motivo di riflessioni sulla vita da parte di una donna; o, ancora, come nel caso di Rosaria che è un’aspirante scrittrice ma lotta ancora per preservare i valori umani; e, infine, la storia della povera Mariella che faceva la “barbona”, ma era molto brava a ritrarre i personaggi famosi e disegnava tutto il giorno, in silenzio, eppure chissà quali misteri nascondeva la sua vita, chissà quali storie avrebbe potuto raccontare.
Grazie alla sua capacità di raccontare, in modo intenso ed ammaliante, Maria Rosa Bertellini, riporta alla luce anche alcune vicende collegate al periodo della seconda guerra mondiale che rappresentano testimonianze fedeli di avvenimenti tragici che hanno colpito numerose famiglie durante la guerra e di vicende che hanno fatto parte d’un periodo storico vissuto tra paura e speranza.
Tornano alla mente la figura della commessa d’un negozio di stoffe che ogni giorno si soffermava a contemplare la statua di Bigio, come fosse un talismano, benedetto dal Duce in persona; e ancora, la storia di Giuseppe, che era partito in guerra per l’Etiopia; e poi, attraverso un recupero memoriale che tocca nel profondo l’animo, v’è il ricordo degli sfollamenti, la paura durante i bombardamenti, e, non a caso, l’ultimo atto è dedicato alla memoria della zia Virginia che, nel 1945, è morta durante un bombardamento.
Ecco allora che il sommesso ricordo copre, come un velo purificatore, le sofferenze del passato e riconduce alla volontà di vivere e di sentirsi vivi dentro da parte di alcuni protagonisti dei racconti legati al presente: come a unire un legame affettivo rivolto al passato, ancora vivo nel profondo del cuore, alla creatività vitale del presente.

Massimo Barile


Storie di quartiere


Ringraziamenti

Ringrazio Giuseppina Alabiso; Franco Bertelli; Luisa Boschetti Cortesi; Giuseppe Chiarini; Jole Corsini; Rina Gussago.


PARTE PRIMA
(Ieri)


Nota dell’autrice

È una piccola raccolta di episodi narrati dai diretti interessati: parenti ed amici, a cui va il mio ringraziamento per l’aiuto datomi nel ricomporre questo periodo di vita bresciana durante la seconda guerra mondiale (1940/45). La chiave di lettura sono gli eventi che condizionarono abitudini, situazioni, comportamenti di comuni cittadini. Sono testimonianze di vita assenti dai testi storici ufficiali, ma presenti nelle famiglie colpite dalla guerra, costrette a subire situazioni tragiche fra precarietà e paura, con la speranza di sopravvivere nella città bombardata, stretta nella morsa della fame. Le guerre mettono in risalto il lato peggiore dell’uomo. La disumanità.
Anna, la protagonista di alcune vicende, è il mio «alter ego» e narra i miei ricordi in terza persona.
“Ultimo atto” è dedicato a mia zia Virginia, sorella di mio padre, morta durante il bombardamento del 02 marzo 1945. Era scesa nel rifugio sotto casa in via Pusterla (ora via Turati) con due maestre, il droghiere Battista Ronchi ed altre persone. Le bombe colpirono la chiesa di S. Afra in via F. Crispi (ora S. Angela Merici), ma un ordigno vagante cadde sulla casa demolendola insieme al rifugio.


La piazza

Cristina, commessa tuttofare in un negozio di stoffe in piazza della Vittoria, arrivava ogni mattina alle nove precise. Alzava la saracinesca, entrava, controllava le pezze allineate con precisione maniacale, poi si soffermava a contemplare la statua di Bigio, detto anche Biancone. Non mancava mai di salutarlo e di chiedergli una raccomandazione perché i clienti fossero numerosi e lei non si trovasse, di punto in bianco, licenziata, esiliata dal suo piccolo regno, gettata via come uno straccio.
Bastava quel pensiero ad ingrigire l’azzurro mare dei suoi occhi, ad incupirli nell’ombra della burrasca. Bigio era il suo talismano infallibile, benedetto dal Duce in persona, ritto, impettito sulla balconata dell’arengario, decorata con la storia di Brescia su nove bassorilievi in porfido rosso! Ricordava bene la grande adunata per l’inaugurazione, qualche giorno dopo il decennale della marcia su Roma, il quattro novembre 1932!*
Fu una celebrazione fastosa: la piazza era piena zeppa di gente giunta da ogni quartiere, come un fiume in piena verso il mare; nel pigia pigia si assiepavano, si stipavano come acciughe in scatola. La piazza, costruita sul centro urbano demolito, progettata dall’architetto romano Marcello Piacentini, resterà l’unica testimonianza del “piano regolatore per il risanamento della città”, simbolo del regime e dell’alto riconoscimento accordato al futuro capoluogo industriale.
“Modernità, razionalità…” Come parlava bene Lui, convincente, avvincente, affascinante! Cristina lo guardava campeggiare sul cavallo, dal mezzo rilievo sulla Torre della Rivoluzione, (Torre dell’Orologio) sentiva la sua voce rassicurante, accarezzava con gli occhi il palazzo bianco e nero della Posta, i Portici, il Torrione rivestito di mattoni, abbellito dagli archi neoclassici e la fontana esagonale su cui sovrastava il bianco gigante di marmo.
Nel nuovo centro commerciale la gente camminava volentieri, osservava, comperava. Le panchine di pietra, attorno alla vasca d’acqua, invitavano ad una sosta; l’ascensore permetteva di salire al panoramico dodicesimo piano del grattacielo e di rifocillarsi al ristorante. Non che mancassero i clienti nei tempi della cinghia tirata, no davvero. I ricchi vecchi e nuovi, per nascita o per crescita, erano presenti ovunque. Con qualunque stagione pretendevano un discreto assortimento nei negozi di un certo tono. Cristina conosceva a memoria il decalogo della brava commessa.
Il cliente non deve mai uscire a mani vuote. Vuole un vestito rosso? Esce con quello verde, è più aristocratico, dona all’incarnato. Se sei grassa, ti snellisce; se sei tozza, ti scolpisce; se se vecchia, ti ringiovanisce e via dicendo… Chi entrava non poteva salvarsi dal suo occhio attento, chiaroveggente che scrutava il punto debole, poi partiva l’attacco circolare, senza scampo né sosta, fino alla capitolazione.
Era capace di piangere con chi cercava commiserazione, raccontando disgrazie, di ridere con chi sparava spiritosaggini, di condividere ogni emozione, partecipando in prima persona, trovando sempre la parola che ognuno desiderava sentire.
Con un simile talento, non c’era da stupirsi se le pezze di stoffa, allineate al millimetro, si assottigliavano, sparivano, lasciando vuoti vistosi nelle scansíe e dubbi sul come riempirle.
I suoi luccicanti arcobaleni rischiavano di diventare un monocolore, i suoi argomenti di persuasione, un acrobatico gioco linguistico, sempre meno convincente.
Finita la merce, finito il lavoro e con il lavoro il salario e la percentuale sulle vendite. Non voleva fare la fine di quei poveracci che, davanti alla vetrina, sgranavano gli occhi e spalancavano la bocca. Loro, i poveri, si facevano le tomaie degli zoccoli con i guanti rovesciati, e le suole con le camere d’aria delle biciclette vecchie; si infiltravano furtivi nei magazzini dove venivano ammonticchiati i teloni di seta dei paracadute, frugavano nei convogli tedeschi e rubavano le garze per farsi le camicie.
Lei, no, non voleva, e pensava, cercava… Finalmente venne il giorno del lampo di genio che percuote il cervello con la scossa elettrica e lo scuote dal torpore, come fa il temporale con la terra riarsa e raggrinzita dalla sete. Bastava domandare ad uno di quei poveracci di passare la frontiera svizzera, di fare un carico di seta, pizzi, pelle d’uovo, piqué, damascati ed il magazzino sarebbe stato nuovamente pieno!
L’idea luminosa brillava negli occhi di Cristina, di una luce tagliente, cristallina, fluorescente, simile al bagliore di una montagna innevata, riflessa nella pietra bianca della grande piazza, al primo sole.


Primo premio per la prosa – Acquafredda 1994 – Conc. Prov. (Bs-Mn-Cr-Pr-Bg.).


La mascotte dell’Alcyone1

La mascotte, al secolo Giuseppina Alabiso, aveva un aspetto disinvolto e provocante: di media statura, quel colore di pelle che si dice lunare, vitino di vespa, dondolìo di fianchi sui tacchi alti, un tutto tondeggiante ed aereo che rapiva gli occhi.
Arrivava al rifugio con la famiglia, portandosi appresso anche il materasso; padre, madre e sei figli avanzavano in fila indiana lungo il cunicolo di via Santa Chiara, con l’ultimo nato, insonnolito e frignante. Pareva una processione! In occasione appunto della nascita del sesto figlio, la famiglia aveva ricevuto mille lire, come ricompensa per il contributo allo sviluppo demografico.
Le chiacchiere, si sa, hanno denti aguzzi, affilati come lame e rosicchiano la paura; così quel raccontare episodi talvolta tristi, talvolta tribali, ingannava l’attesa forzata. Le voci smorzavano l’urlo della morte, alleggerivano il peso del silenzio, zittivano i mugugni dello stomaco, sempre imbronciato e mezzo vuoto.
Gino, il primogenito, arruolato nella Regia Aeronautica, era partito con la sua squadriglia, senza dimenticare la fotografia della sorella con i capelli d’angelo sciolti, l’onda languida sull’occhio destro, stile diva dell’epoca, quale portafortuna per sé e per i compagni. La fortuna, però, dea cinica e capricciosa, si era addormentata proprio durante una ricognizione segreta e rischiosa.
L’aereo volteggiava, fendeva le nubi, che si aprivano come onde, si gettava a capofitto, risaliva, perdeva quota e sarebbe precipitato nei flutti del Mediterraneo, se lei, la dea bendata, non si fosse risvegliata, giusto in tempo, per fare dolcemente ammarare l’Alcyone, dalle ali spezzate, nelle acque azzurre del Bòsforo. Così giunse la nebulosa notizia di un aereo abbattuto, di un equipaggio disperso e, forse, imprigionato dai turchi.
La madre, tormentata dall’angoscia, parlava, piangeva, indagava, finché prese la decisione di recarsi dalla Santa “degli impossibili”; corse nella chiesa di Santa Rita, si inginocchiò, pregò e promise di donare, per la salvezza del figlio, l’unico gioiello rimastole, dopo la raccolta dell’oro per la Patria: gli orecchini nascosti con cura per eventi imprevisti. Il padre, dal canto suo, usò ed abusò, per la prima volta nella sua vita, di conoscenze influenti, vergognandosene pur di placare l’ansia di lei, ma non ci fu modo di avere notizie certe. Senza gli orecchini, sfumava la possibilità di barattare al mercato “nero” i prodotti non distribuiti con la tessera annonaria, come il sale, per esempio, introvabile nella città assediata, circondata da pianure e colli, lontana dalla marina. Non sfuggiva ai ragazzi il parlottare a bassa voce dei genitori, la parola allusiva, il discorso interrotto, se qualcuno di loro entrava nel tinello e nemmeno il protrarsi della discussione in camera da letto, a luci spente. La nostra mascotte, allora ventenne, si consultò con la sorella Jolanda e con il fratello Oreste, allora quindicenne. Era necessario dissimulare ogni curiosità ai genitori e, nel frattempo, raccogliere i frammenti dei discorsi, interpretarne il significato ed elaborare un piano accettabile e credibile, come fosse scaturito unicamente dalla loro perspicacia, senza rischio per il mestiere del padre, Agente di Pubblica Sicurezza.
Si trattava di raggiungere gli zii di Genova con una valigia quasi vuota, riportarla piena, sedersi sul treno a debita distanza, ma in modo di controllarla e, nel contempo, negarne l’appartenenza in caso di pericolo. Partirono e ritornarono con una valigia imbottita di sale nero e di… bandiere, un regalo dello zio bidello. Giunti alla stazione di Milano, dovettero attendere il treno accelerato per Brescia. Le due sorelle lasciarono il fratellino di guardia, mentre entravano al bar con due baldi bersaglieri, conosciuti durante il viaggio, per bere una specie di “broda”, chiamata caffè.
Ad un tratto, si avvidero di una perquisizione in atto lungo i binari; paralizzate dalla paura, restarono lì, con la tazzina in mano, il dito mignolo orizzontale, come trasformate in statue di sale da un incantesimo maligno. La fortuna però, quando si strappa la pezza dagli occhi, azzecca la strada giusta.
Un non so che di provvidenziale interruppe la perquisizione e l’avventura finì in gloria. Salirono tutti e tre alla chetichella, mogi mogi, sul trenino. Ogni fermata, un sussulto; un respiro di sollievo, ogni ripartita di quel macinino che trotterellava come un somaro su sentieri sbilenchi.
Quel giorno così bello e sereno era divenuto cupo come un incubo! Finalmente apparve il nome del capolinea, nome amato e desiderato, come mai prima, Brescia.
Sul piazzale della stazione, dove un tempo canterellava una fontana di ghisa a forma di conchiglia, sostituita con un lastrone di cemento, l’abbraccio dei genitori sciolse nelle lacrime il nodo greve dell’angoscia. Si incamminarono di buon passo verso casa, lasciandosi alle spalle il treno e l’andirivieni di militari in grigioverde.
Imboccarono il viale alberato.
Il crepuscolo scandiva il silenzio del “coprifuoco” imminente e sbirciava tra le foglie le loro teste abbassate, le bocche cucite, gli occhi arrossati.
Il ticchettìo dei passi sul selciato copriva i battiti accelerati dei loro cuori, finché giunsero a casa con il bottino che avrebbe fruttato qualcosa per il bilancio familiare precario con tante bocche da sfamare. Il figlio quindicenne, Oreste, quando lavorava come apprendista presso la ditta “Acciaierie e Tubifici”, percepiva una paga oraria di settantotto centesimi.
Erano tempi duri, bisognava accontentarsi.
La minestra di legumi, quella sera, fu doppiamente salata, condita da qualche lacrima, rallegrata da risatine isteriche che scoppiettavano, come legna verde sul fuoco. Le bandiere, stese sulla vecchia ottomana, spargevano macchie di colore e di festa, accendendo la speranza, confondendo le ombre dei pensieri e addormentando la paura. La madre chiuse in bellezza la giornata con un proverbio firmato dalla saggezza popolare: “Non c’è uno senza due…”, ma in cuor suo decise di privarsi degli orecchini, anticipando il dono per la grazia ricevuta e per un’altra più grande da ricevere, la fine della guerra!


Nota:

1 Gli Alcyoni erano i nostri aerei da combattimento.


Secondo premio per la prosa – Acquafredda 1997 Conc. Prov. (BS-BG-CR-MN-PR)


[continua]


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