Il tempo che non vola

di

Massimo G. Bucci


Massimo G. Bucci - Il tempo che non vola
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 252 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6037-288-7

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In copertina: «Icaro» di Massimo G. Bucci


Prefazione

Dopo “L’alibi” e “Nel segreto del confessionale” ecco un nuovo romanzo di Massimo Bucci, sempre capace di alimentare una intensità narrativa, intrigante e sorprendente, con un ritmo che travolge il lettore come succede con questo libro dal sapore del thriller.
Dall’intricata trama, cosparsa di perle di astuzia investigativa, riflessioni psicologiche e delineature di personaggi che sono “gemme” create dalla mano sapiente dell’Autore, viene riportata alla luce una “storia nascosta” assai complessa, tra improvvisi colpi di scena e il desiderio di una madre di veder ricompensate le sue sofferenze, grazie all’intelligenza della giornalista e scrittrice di romanzi noir, Marlene Kremach.
Massimo Bucci riesce a rendere in modo esemplare le sfaccettature e le diverse angolazioni per costruire una storia che colpisca, penetrando nella mente del lettore quasi a metterlo in attesa dell’inaspettato evento, fino a farlo immedesimare o far avvertire il brivido nella schiena.
Perfetto e lucido, quasi in modo implacabile, racconta la sua storia e descrive gli avvenimenti e i protagonisti sempre attento a non lasciare nulla al caso o al volo di fantasia che, sovente, fa deragliare la vicenda in altre direzioni.
La sua parola pressa sul lettore, lo assedia quasi a fagocitarlo all’interno della narrazione in un susseguirsi di colpi di scena e rivelazioni.
Tutto ha inizio con una tranquilla chiacchierata su un treno tra Jacopo Verri, responsabile dei programmi culturali di una rete televisiva e in viaggio per Milano per assumere il nuovo incarico presso l’emittente Tele-K, e Marlene Kremach, giornalista del “Rheinische Post” di Dusseldorf nonché scrittrice di gialli.
Una volta a Milano, Jacopo conosce il direttore della televisione, l’avvocato Dino Franchi e sua figlia Tiziana, bella ed avvenente ragazza con il desiderio di fare l’artista. Nel dipanarsi della vicenda verranno in superficie una serie di sorprendenti verità: la madre di Jacopo confesserà al figlio una passata relazione segreta, ci si troverà di fronte al fatto che Chiara, sorella di Jacopo, è la figlia naturale di…
Gli eventi incalzeranno con un ritmo serrato: un difficile riconoscimento della paternità, una finta lettera anonima, un tentativo di suicidio, fantasiose congetture, coinvolgimenti in traffici terroristici e formule chimiche a scopi militari, situazioni incontrollabili, ipotesi e dubbi d’ogni sorta.
Marlene Kremach entrerà in azione sempre a caccia di eventi che possano stimolare la sua fantasia e si lancerà come un segugio seguendo il fiuto investigativo e la sua perfetta conoscenza della psicologia umana: la sua intelligenza e la sua esperienza saranno messe a dura prova ma tutto sarà risolto nel migliore dei modi.
Capita di leggere romanzi che tengano inchiodati dall’inizio alla fine, senza tregua, senza lasciar tirare il fiato: “Il tempo che non vola” di Massimo Bucci è uno di quelli.
Per un amante della lettura credo non serva dire altro.

Massimo Barile


Il tempo che non vola


I

Se non fosse stato per il fragore del tuono e per gli scrosci di pioggia contro le finestre della stanza da letto, non sarebbe mai riuscito a giungere alla Stazione Termini in tempo per salire sul treno che lo avrebbe condotto a Milano.
La sveglia aveva ripetutamente suonato, ma invano. La sera precedente si era addormentato molto tardi, un po’ per la cena non troppo frugale organizzata in compagnia di amici ed un po’ per l’emozione che gli procurava il pensiero di ciò che l’indomani l’attendeva nel capoluogo lombardo.
Si doveva presentare alla direzione di un’importante emittente televisiva per essere assunto in qualità di responsabile dei programmi educativi e culturali. La proposta gli era stata avanzata pochi mesi prima e, lusingato dalla notorietà e dal prestigio dei proponenti, la sua risposta non sarebbe potuta essere che positiva.
Dopo circa un anno dalla laurea in scienze politiche, Jacopo Verri era riuscito, grazie anche a pressanti raccomandazioni, ad ottenere un lavoro presso una modesta emittente radiofonica romana che trasmetteva 24 ore no-stop e che poteva contare su di un soddisfacente numero di ascoltatori.

L’aspetto più strano ed insolito della vicenda, che Jacopo non riusciva a capire, era la ragione di questa nuova ed allettante proposta di lavoro. Non aveva chiesto aiuto ad alcuno in quanto si sentiva soddisfatto e gratificato dalla sua attività romana. Comunque, avendo da poco compiuto ventinove anni ed essendo ancora privo di responsabilità famigliari, questa nuova avventura milanese oltre che inorgoglirlo, lo entusiasmava.
Il treno partiva da Roma alle 9,15 e l’incontro con il direttore dell’emittente era stato fissato per le 17.
Giunto alla stazione ferroviaria, acquistò in tutta fretta un quotidiano e bevve d’un fiato una tazza di caffè.
Il treno proveniva da Napoli e fortunatamente giunse con qualche minuto di ritardo.
Carrozza 4 e posto a sedere, 25.

Jacopo aprì con un gesto deciso la porta scorrevole dello scompartimento, occupato da due sole persone sedute l’una di fronte all’altra, vicino alla finestra.
Al suo ingresso, gli sconosciuti compagni di viaggio stavano colloquiando animatamente, al punto che a mala pena si accorsero di lui.
Si sedette ed iniziò distrattamente la lettura del quotidiano.

“Come le dicevo, caro giudice, siamo soliti parlare, e spesso a sproposito, di realtà che non esistono, o che esistono solo nella nostra fantasia. L’arte è una di queste realtà virtuali. Possiamo parlarne bene o male come ci pare, tanto non offenderemo mai nessuno!” Sentenziò la viaggiatrice seduta vicino a Jacopo, una signora di età matura, dall’aspetto austero e con un atteggiamento un po’ indisponente, rivolgendosi al suo dirimpettaio.
“Fino a un certo punto. Se parlassimo male dell’arte, offenderemmo gli artisti.” Soggiunse il giudice, che evidentemente stava intrecciando un colloquio con la signora. Non superava la sessantina, distinto, vestito con raffinata eleganza e con un’espressione del viso accattivante.
Da queste poche frasi, Jacopo capì che fra i due suoi compagni di viaggio si stava svolgendo una conversazione di indubbio interesse, forse un po’ sofisticata, ma che comunque riusciva a stuzzicare la sua curiosità.
“In un certo senso è così,” aggiunse la signora “ma, mi dica, chi sono questi artisti?”
“Beh, non potrà negare che sono esistite persone che con il loro lavoro hanno caratterizzato un’epoca, una civiltà, e che ci hanno lasciato una preziosa eredità, un patrimonio al quale ciascuno di noi può e potrà sempre attingere.”
“L’arte,” riprese la signora “è uno degli argomenti sui quali si è parlato e si parla ancora tanto, tantissimo. Forse troppo. Ed a parlarne sono proprio i meno preparati. L’arte è diventata come un grande contenitore nel quale vengono accumulate le realtà più disparate e, spesso, più inutili. Pensi per un istante a quanti si autoproclamano artisti solo perché imbrattano qualche tela o fanno qualche urlo sguaiato. Pensi poi anche alla critica. Le assicuro che molto spesso un giudizio critico diventa un cruciverba, di quelli difficili, quasi irrisolvibili. Non si riesce a capire quello che il così detto critico abbia voluto dire. Sembra quasi che lui stesso sia rimasto vittima di un giro di parole dal quale non si è più potuto liberare. Lei sa perfettamente che scrivere cose importanti ed originali non è cosa facile, per cui molto spesso si scrivono solo parole, parole senza senso, o concetti già noti e ripetuti. Le posso assicurare che alcuni di questi scritti sull’arte, sono talmente indecifrabili ed impersonali, che potrebbero riferirsi a decine di artisti completamente diversi sia come stile, che come rilevanza storica. La cosa più frequente e spesso più inutile, è poi quella di voler a tutti i costi ricordare una grande firma del passato alla quale l’artista in esame, si sarebbe ispirato. Nulla di più penalizzante per l’artista, che spera sempre nell’originalità della propria creazione.”
“In parole povere,” riprese il giudice, “mi pare che lei avanzi seri dubbi sull’attendibilità e sull’utilità degli scritti sull’arte. Parlo di utilità culturale e didattica. Io penso invece che educare alla comprensione dell’opera d’arte, sia necessario, quasi indispensabile.”
“Non vorrei essere fraintesa.” Osservò la signora. “È indubbiamente importante conoscere i vari momenti che hanno caratterizzato la storia dell’arte, come è anche utile capire se un certo artista ha giocato o meno un ruolo determinante in questa serie di avvenimenti. Ma quando si pretende a tutti i costi di voler identificare ed interpretare un misterioso messaggio che l’artista avrebbe voluto comunicare con la sua opera, allora il compito diventa estremamente arduo e spesso inutile al punto che si finisce spesso col fare dei discorsi senza senso. Penso che quando si osserva un’opera d’arte, l’emozione che essa produce è condizionata da un’infinità di fattori di varia natura, ma tutti strettamente personali. Invece no, il critico pretende che noi vediamo l’opera con i suoi occhi e che la sentiamo con la sua stessa sensibilità, ammesso che lui ne possegga un po’. Vuole a tutti i costi convincerci che quella data opera è un capolavoro; ma se non mi provoca alcuna emozione, non potrò mai esserne convinta, e per me rimarrà solo un prodotto artigianale, non le pare?”

Jacopo cominciava a rendersi conto del carattere piuttosto aggressivo della signora, espressione forse, di una accurata preparazione e di una non meno profonda cultura sull’argomento. Non riusciva tuttavia a comprendere quale fosse la finalità di questa conversazione che aveva tutta l’aria di voler solo rendere il viaggio meno noioso e pesante.
“Penso che il vero problema dell’artista,” riprese il giudice con espressione decisa “sia quello di rendere partecipe chi osserva la sua opera, dei propri sentimenti, e che la consapevolezza di non essere compreso, lo angosci e lo tormenti.”
“Guardi che all’artista interessa molto poco degli altri e del fatto che anonimi osservatori riceveranno un messaggio che lui non ha mai avuto intenzione di inviare. D’altra parte, l’artista cerca l’isolamento, per meglio concentrarsi in se stesso, interrogarsi e capirsi. Che tutto questo possa essere considerato come una fuga dal mondo, a lui poco importa.”
“In conclusione, lei ritiene che l’artista crei in un momento di particolare trasporto interiore, solo per sé, senza avvertire alcun interesse per chi osserverà la sua opera?”
“Certo,” riprese la signora “l’artista non si rivolge a nessuno. Non serve tanto interpretare e capire un’opera d’arte, quanto riuscire a ‘sentirla’. La sua esistenza come opera d’arte è condizionata dal suscitare o meno emozioni.”

Il giudice seguiva con molta attenzione il pensiero della sua interlocutrice che appariva molto convinta delle proprie idee. Jacopo, ormai completamente coinvolto dal dialogo, ogni tanto annuiva col capo, fra la completa indifferenza dei presenti. Avrebbe voluto partecipare alla discussione, ma temeva di apparire come un intruso.
“Posso essere anche d’accordo su quanto lei dice,” soggiunse il giudice “ma ritiene che questa condizione dell’artista sia stata sempre la stessa nel corso della storia, o che vi siano stati momenti in cui l’opera dell’artista ‘doveva’ necessariamente piacere e soddisfare la richiesta del committente? Pensi ai grandi mecenati rinascimentali, ai re, ai papi che proponevano l’opera d’arte come uno stimolo per avvicinarsi al trascendente.”
“Non arriverei a dire questo, anche se l’arte, dal momento che è in grado di provocare emozioni ed in un certo senso di stupire e spiritualizzare lo spettatore, può giungere a porre problemi, anche a livello inconscio, diversi da quelli posti dalla realtà quotidiana. Se pensiamo poi a certe opere di alcuni sedicenti artisti contemporanei, non possiamo non rilevare che sono solo espressione della loro più completa sterilità creativa. Questa gentaglia ha il coraggio o meglio, la sfrontatezza di presentare come creazione artistica il frutto della loro demenza se non della loro stupidità.”
“Non crede di essere un po’ troppo severa con gli artisti contemporanei e con quanto hanno prodotto?”

Jacopo seguiva il dialogo con crescente interesse soprattutto perché, pur essendo argomenti un po’ particolari, avrebbero però potuto interessare il suo futuro pubblico televisivo. Era sempre più tentato di intervenire nella conversazione, ma temeva di farlo a sproposito, di essere quasi zittito o comunque di non essere all’altezza della discussione. Non mostrava alcun interesse per la lettura del quotidiano distrattamente abbandonato al suo fianco, volgendo lo sguardo verso l’uno o l’altro compagno di viaggio, a seconda di chi conduceva la conversazione in quel momento.

“Rimane comunque sempre inspiegabile”, continuò la signora “l’insopprimibile necessità di creare la composizione artistica, per la cui realizzazione alcuni artisti non hanno esitato a ricorrere all’alcol o alla droga, riducendosi in condizioni miserevoli ed avviandosi a volte per la strada del suicidio. Pensi ad esempio a Wols, universalmente considerato l’ideatore dell’informale europeo. Morì non ancora quarantenne, distrutto dall’alcol. Pensi ancora a personaggi come Gorky, Rothko, de Staël e Pollock, nomi ormai entrati di prepotenza nella storia dell’arte: tutti morti suicidi e in giovane età. Sembra quasi che ragione di vita fosse solo la loro capacità creativa. Quando questa veniva per qualche ragione a mancare, anche la vita non aveva più senso, e finiva col trasformarsi in una continua insoddisfazione e sofferenza che l’alcol o la droga potevano in parte lenire e che solo la morte annullava definitivamente.”
“Disturbo, se fumo?” Esclamò improvvisamente il giudice accendendo una sigaretta con una gestualità quasi rituale.
“Assolutamente.” Ribatté la signora, mentre Jacopo sembrava quasi esprimere anche il proprio consenso, con un sorriso ed un cenno del capo.
Il treno cominciò a ridurre progressivamente la velocità. Pochi secondi e si fermò. Attraverso la finestra del corridoio si riusciva a intravedere un edificio che, per le sue caratteristiche architettoniche, non poteva che essere una stazione ferroviaria.

“Viterbo! Stazione di Viterbo!” Gracchiò una stridula voce femminile che non avrebbe potuto pronunciare la frase con maggior indifferenza ed apatia, quanto mai giustificate dal ripetitivo automatismo che caratterizzava quel genere di lavoro. Con lo stesso distacco, avrebbe potuto annunciare qualsiasi evento, gioioso o catastrofico.
La pioggia continuava a scendere. Il sole tentava ogni tanto di affacciarsi, ma era subito oscurato da qualche nube, veloce ed impietosa. La temperatura era piuttosto mite mentre l’aria era satura di umidità.

“Non si può dire che non sia stata un’estate un po’strana!” Osservò il giudice avvicinandosi col capo alla finestra e scrutando attraverso il vetro. “Non si capisce più niente! Quando ero giovane, l’inizio e la fine delle stagioni erano scanditi con una regolarità quasi cronometrica. Dopo un inverno rigido e burrascoso, si sognava la primavera, il sole, il risveglio della natura. Era quasi come attendersi una meritata ricompensa per aver subìto il disagio invernale. Adesso, decido in piena estate di fare una vacanza al mare, e vengo a trovarmi coinvolto in un clima autunnale che mi costringe ad indossare abiti invernali, di cui ovviamente in quel momento mi trovo del tutto sprovvisto.”
“Si lamenti pure, caro signore, tanto, non serve a niente.” Soggiunse la signora con un tono fra la rassegnazione e l’ammonimento. “Anche la natura ha il diritto di rompersi le scatole, non le pare? Si rende conto di quello che l’uomo sta combinando, nella più generale indifferenza? Una delle caratteristiche del nostro pianeta, ma, penso, anche di tutto l’universo, è proprio l’equilibrio. Noi viviamo grazie ad un equilibrio di forze e ad una rigorosa presenza di leggi precise ed inderogabili. Dal momento che l’uomo ha infranto e sta sempre più infrangendo con le sue mani questo equilibrio, ogni evento naturale, anche il più catastrofico, non deve più sorprendere. Otteniamo quello che abbiamo voluto e che continuiamo a volere.”
“Non si può certo dire che lei sia ottimista,” intervenne il giudice, “qualche rimedio dovranno pure trovarlo!”
“Guardi che i rimedi li conosciamo tutti. Non occorre essere scienziati per capire certe cose. Ma i rimedi cozzano contro gli interessi di qualcuno o di molti per cui, mentre lei si lamenta, quelli fanno gli affari loro.”
“È permesso?” Chiese timidamente un signore, mentre si accingeva ad aprire la porta dello scompartimento.
“Prego!” Rispose decisa la signora, come fosse stata delegata a parlare a nome di tutti.
Il signore, in abito scuro, entrò, appoggiò una valigetta nel portabagagli sopra il posto che aveva riservato e si sedette di fronte a Jacopo.
Dimostrava non più di quarant’anni; capelli neri quasi come l’abito e la cravatta scura, che spiccava sulla camicia bianca.
Jacopo notò che sul bavero sinistro della giacca era infissa una piccola croce dorata: non poteva che trattarsi di un sacerdote. E d’altra parte anche il suo modo di atteggiarsi e di esprimersi sembrava confermare il sospetto. Comunque, gli elementi non erano ancora sufficienti per poter essere considerato con certezza, un religioso.

“Come le dicevo,” riprese la signora con tono piuttosto polemico “se l’uomo ha deciso di autodistruggersi, nessuno lo può più fermare. Le foreste stanno scomparendo, la fauna è in gran parte estinta, l’inquinamento dell’aria e dell’ambiente ha raggiunto soglie intollerabili, i ghiacciai si sciolgono ed il livello degli oceani è in continuo aumento. Ma gli interessi in gioco sono troppo forti. Chi comanda il mondo, caro signore è il denaro, altro che l’opera d’arte.
Gli uomini si interessano all’arte solo quando sperano di poterne trarre vantaggi economici.”
“Ma lei pensa che il Padre eterno possa consentire che l’uomo distrugga quello che egli ha creato?”
“Quali siano le intenzioni ed i programmi del Padre eterno, sinceramente non lo so. Indubbiamente, se consente tutto questo, avrà le sue buone ragioni, a meno che di questa sua creatura, chiamata uomo, non gliene importi proprio niente. Il che è molto probabile.”
“Penso che conoscere il pensiero di Dio sia un po’difficile.” Soggiunse il giudice con un sorrisetto ironico.
“Lo penso pure io,” sbottò decisa la signora “anche se per alcuni sembra che invece sia un’impresa semplicissima.”
“Come sarebbe?”
“Ascolti bene,” riprese la signora “che esista Dio è molto probabile, anche se nessuno può dimostrarlo, mentre invece è certo che esiste l’uomo. Ora, mi spieghi perché debbano esistere altri esseri che si sono autodefiniti intermediari fra Dio e l’uomo e che sarebbero dotati di singolari poteri come interpretare la volontà di Dio, assolvere o meno dai peccati e mandare chiunque e per l’eternità, in un luogo di delizie o ad arrostire come un pollo. Non le pare che sia una provocazione, per chi possiede un cervello che ancora funziona?”
“Se non sbaglio, lei sta parlando dei preti e della Chiesa, vero?”
“Sì, dei preti, della Chiesa e di tutta l’organizzazione del mondo cattolico, ormai presente in ogni angolo della terra.” Esclamò indispettita la signora.

Jacopo, sempre intento a seguire il dialogo che si stava facendo più animato, volse con uno scatto e quasi inavvertitamente, lo sguardo verso l’ultimo signore entrato, in abito scuro, quasi temendo che si trattasse veramente di un religioso e che si potesse risentire per quanto la signora stava dicendo. Ma questi non modificò la sua espressione serena ed appariva sempre assorto in altri pensieri anche se, con un lento e quasi solenne spostamento del capo verso la signora, dimostrò di aver capito perfettamente il contenuto della frase. Ma rimase in silenzio.

“Penso che il problema di Dio e delle religioni, perché non solo di quella cattolica bisogna parlare,” riprese il giudice facendosi serio “non possa essere risolto così, in quattro e quattr’otto. Liquidiamo con due o tre frasi, duemila anni di storia della Chiesa?”
“Duemila anni sono meno di un soffio, rispetto ai miliardi di anni di vita della terra. Pensi quante religioni possono essere nate ed essersi poi estinte in tanti millenni di vita dell’uomo!”
“È possibile, ma giudichiamo quello che possiamo giudicare e non quello che la fantasia ci propone.” Ribatté il giudice. “Non possiamo non riconoscere che il missionario è stato, oltre che un testimone della fede, anche un messaggero di civiltà.”
“Il missionario” continuò la signora “è stato come l’avanposto di un esercito conquistatore. Avrà pure fatto del bene, ma si ricordi che in molti casi è andato a turbare fra gli aborigeni un ritmo di vita sereno, suggerito dalla natura, insinuando la paura del peccato, della punizione e del castigo eterno.”
“Ma ha anche insegnato ad amare il prossimo, addirittura anche il nemico. Spero che non le sfugga il significato rivoluzionario del messaggio.” Intervenne inaspettatamente il ‘religioso’ con un tono pacato, e nel contempo autorevole.
Jacopo emise quasi un sospiro di sollievo. A questo punto si convinse che si trattava veramente di un prete e che non solo non si sentiva imbarazzato per le dure espressioni della signora, ma che, al contrario, sembrava fosse per lui come un’occasione per riaffermare la sua fede di cui sembrava essere convinto testimone.

“Prenotazione ristorante! Il primo turno, alla partenza da Firenze!” Si udì esclamare da una voce che proveniva dal corridoio.
Jacopo fu quasi tentato di prenotare una colazione, ma l’intervento del religioso aveva notevolmente colorito la discussione. Era ormai evidente che si aveva a che fare con un interlocutore molto meno docile del giudice il quale, all’apparire dell’addetto al ristorante, non esitò a soggiungere: “Un coperto per il primo turno!” Come se volesse battersi in ritirata o quantomeno desiderasse sottrarsi all’obbligo di assumere nella discussione una posizione che, a questo punto, non poteva che essere netta e decisa.
Il treno correva veloce, nel tentativo di recuperare il tempo perduto. La pioggia non cadeva più, ma il sole non si decideva a fare la sua comparsa. Nello scompartimento era sempre presente un delicato aroma di tabacco che tutto sommato risultava piacevole.
L’intervento del religioso, anche se caratterizzato da un tono sereno e tutt’altro che polemico, aveva tuttavia creato un’atmosfera di serietà quasi liturgica che avrebbe dato più peso e consistenza alle parole di altri eventuali interlocutori.
Seguirono alcuni minuti di silenzio, e mentre Jacopo era quasi pronto a prendere la parola, almeno per movimentare la situazione divenuta abbastanza imbarazzante, la signora, rivolta al religioso, sospirò: “L’amore, l’amore, amare tutti e anche il nemico… è certamente un messaggio ed un insegnamento seducente, affascinante. Ma dopo duemila anni di questa buona novella, pensa che se ne sia colto qualche frutto?”
“Questo non lo potremo mai sapere e tanto meno dimostrare, ma comunque, se qualche frutto c‘è stato, occorrerebbe andarlo a cercare nel cuore e nelle coscienze di ogni uomo.” Concluse il religioso.
“Questo è vero, ma penso che il dedicarsi con tanto trasporto alla predicazione della bontà e dell’amore, abbia distolto un po’ troppo l’attenzione della Chiesa dai problemi attuali, molto più urgenti. E quando per necessità è poi costretta ad intervenire, propone delle soluzioni ormai anacronistiche se non utopistiche, per poi magari ritornare sui suoi passi dopo cento o duecento anni, quando tutto si è già spontaneamente risolto. Molto spesso, il modo migliore per risolvere i problemi, sembra essere quello di ignorarli.”
Il religioso non rispose e scosse il capo come per dire: “Cara signora, si sta avviando per una strada molto impervia; è un argomento troppo complesso per essere affrontato in questa circostanza. Si corre il rischio di dire grandi sciocchezze. È meglio che cambi discorso.”

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