L'alibi

di

Massimo G. Bucci


Massimo G. Bucci - L'alibi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 268 - Euro 14,00
ISBN 88-8356-981-4

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Prefazione

La narrazione ha inizio con il misterioso ritrovamento del cadavere del conte Guelfi che conduceva una vita abbastanza convulsa: non disdegnava la compagnia di giovani attrici anche grazie alla sua attività di produttore cinematografico, conduceva una vita libertina, bazzicava ambienti malavitosi e quant’altro c’era ancora da scoprire nella sua villa di Tarquinia.
A causa di alcune fortuite coincidenze, l’avvocato Clerici inizia ad indagare ma sopraggiungeranno inaspettati incontri e misteriosi e tragici fatti che renderanno la vicenda assai più complessa di quanto già non era.
Tra corruzione e malcostume, malavita e ricatti, minacce d’una setta di fanatici religiosi, intimidazioni e deliranti moventi, prende vigore un thriller avvincente magistralmente reso da Massimo Bucci che, grazie ad una scrittura precisa, netta ed efficace, fissa in modo proverbiale il carattere dei personaggi riuscendo a cogliere con poche parole la loro personalità, a fornire un quadro fedele delle immagini, delle rivisitazioni degli antefatti, delle frequentazioni losche e dei compromessi morali, e degli ambienti che fanno da scenario all’intricata trama.
Nella sua personale indagine l’avvocato scoprirà che l’affascinante Giorgia, donna avvolta da un seducente profumo, con quel sensuale corpo emanante una travolgente vitalità, aveva un incontro, per ottenere un contratto di lavoro nel mondo del cinema, proprio nella villa di Tarquinia del conte Guelfi.
All’inizio, le circostanze rendono ogni ipotesi “attendibile” anche perché dalla cassaforte del conte non è stato rubato nulla ma non è che l’inizio d’un tour de force con mirabili intuizioni narrative che meritano attenzione perché capaci di regalare “emozioni forti”.
Senza ombra di dubbio nella lettura di questo romanzo si è catapultati in una serie indescrivibile di colpi di scena e, pagina dopo pagina, vengono estratti, dal personale cilindro magico di Massimo Bucci, personaggi misteriosi, sospetti d’ogni genere, relazioni d’ogni natura, diabolici disegni d’una misteriosa setta di squilibrati fanatici che si riuniscono nelle catacombe della villa d’un marchese, la complessa e paranoica personalità d’un ex frate Agostino che è il fondatore di questa pseudo comunità nonché una sequenza di inimmaginabili sorprese che lasciano stupefatti.
Ci si ritrova in mezzo ad un’autentica tempesta di rivelazioni più o meno stupefacenti e squallide che intessono la complessa trama: ed è proprio questo vortice che tiene il lettore sempre con il fiato sospeso in una spasmodica attesa dell’evento risolutore, della spiegazione dell’enigma, fino al disvelamento della verità ultima.
Gli inaspettati eventi provocano un continuo tumulto nella narrazione che non si sedimenta su un singolo avvenimento ma si dirama in modo tentacolare grazie alla notevole creatività dell’Autore: e seguire il filo della vicenda è come “farsi scoppiare il cervello” come rischia di provare su se stesso lo stesso protagonista, l’avvocato Clerici.
La mano narrante riserva risvolti d’ogni sorta e sempre imprevedibili: la fatidica conclusione, le possibili motivazioni d’un delitto o d’un tragico evento, aprono sempre una porta ad un dubbio, ad una nuova interpretazione, ad una possibile messinscena, ad un “avviso amichevole” che ricorda che è fondamentale muoversi con prudenza. Sempre.

Massimo Barile


L'alibi

I

Il ponte Sant’Angelo fu costruito dai romani per poter agevolmente raggiungere il Mausoleo di Adriano dall’opposta riva del Tevere. Della vecchia costruzione rimangono ora solo tre arcate; le rimanenti furono aggiunte in successivi restauri.
L’imperatore Adriano lo costruì come Mausoleo per sé e per i suoi successori. In seguito, divenne una vera e propria fortezza che contribuì alla difesa dell’area vaticana, specie durante le invasioni barbariche.
Il nome di Sant’Angelo vuole ricordare, secondo la tradizione, la miracolosa apparizione dell’Arcangelo Michele quando pose fine alla disastrosa pestilenza che imperversò a Roma alla fine del quinto secolo.
Da molti anni ormai il transito attraverso il ponte è consentito solo ai pedoni che possono in tal modo passare facilmente da una riva all’altra del fiume.
Non è infrequente osservare piccoli gruppi di turisti che, giunti a metà del percorso di attraversamento, si fermano per contemplare con stupore il suggestivo panorama che la città offre in quel punto del percorso del Tevere.
Ammirano soprattutto l’imponente ed austera mole del Castello che sembra trasudare storie e leggende da ogni pietra, il lento e continuo scorrere delle sottostanti acque del fiume, nonché le eteree statue degli angeli, preziosa creazione del Bernini.
Sul ponte si respira quasi un’atmosfera da salotto in cui si commenta e si discute, si consultano guide turistiche e si fa sfoggio di conoscenze storiche molto spesso incerte ed opinabili.
La presenza solenne del Castello induce inevitabilmente ad evocare i più famigerati avvenimenti che hanno segnato la sua pluricentenaria storia. Personaggi illustri, tiranni, episodi solenni e tragici. Gran parte della storia di Roma è scritta sulle acque del suo fiume e nelle pietre dei suoi monumenti.

Da alcuni mesi Oreste Reverberi era solito attraversare il ponte Sant’Angelo almeno due volte al giorno. Si recava a visitare la vecchia madre ricoverata presso l’ospedale Santo Spirito che si affaccia proprio sul lungotevere.
Una caduta accidentale le aveva procurato la frattura del femore alla gamba destra. L’intervento chirurgico era perfettamente riuscito, ma complicanze postoperatorie di natura vascolare l’avevano costretta a prolungare la degenza per alcune settimane. D’altra parte, come si suol dire, gli anni c’erano tutti. Aveva da poco festeggiato l’ottantaduesimo compleanno ed anche se prima del ricovero al Santo Spirito era sempre stata in ottima salute, l’incidente che le aveva procurato la frattura del femore, sembrò rappresentare anche la rottura di un equilibrio biologico che a quell’età risulta spesso molto precario. E così erano emerse patologie silenti che, pur essendo asintomatiche, avevano lentamente minato la sua non più giovane costituzione fisica.
Le condizioni generali rimasero per qualche tempo stazionarie, ma in seguito progressivamente peggiorarono.
Oreste e la madre gestivano un ristorante, da tre generazioni proprietà della famiglia. Vivevano in un appartamento piuttosto modesto al primo piano di un antico edificio in via di Panico. Nei locali sottostanti l’appartamento, vi era lo ‘Scottadito’, il ristorante della famiglia. Definirlo come ristorante poteva apparire a prima vista piuttosto presuntuoso, anche se le due sale erano spaziose e ben arredate. Il locale era frequentato soprattutto da turisti e da qualche affezionato cliente.
Il padre di Oreste era morto da più di dieci anni per cui la gestione del ristorante era in gran parte affidata all’unico figlio. La madre aveva controllato le operazioni di cassa fino a che non fu ricoverata al Santo Spirito.
Collaboravano nella gestione del ristorante, un cuoco, detto Pepe, Gigi l’anziano cameriere e Rosy, la giovane romena che aveva ottenuto da circa un anno il permesso di soggiorno, proprio grazie all’assunzione come cameriera allo ‘Scottadito’.
Rosy era una bella ragazza, bionda con lineamenti molto delicati e gli occhi verde smeraldo. Svelta, disinvolta e di vivace intelligenza, lavorava con dedizione ed entusiasmo. Durante l’assenza di Amelia, la vecchia madre di Oreste, oltre a servire i clienti ai tavoli, gestiva anche la cassa. Oreste fungeva da ‘maître’ ed in caso di necessità aiutava Gigi e Rosy nel servizio di sala. Vi erano poi periodi dell’anno in cui il nutrito afflusso di turisti rendeva necessaria la presenza straordinaria di un altro cameriere. I ritmi di lavoro erano ormai ben noti e codificati da tempo per cui i momenti di emergenza erano facilmente prevedibili.
Oreste era celibe e non mostrava alcuna inclinazione a formarsi una famiglia. Aveva da poco superato i cinquant’anni e nonostante le insistenze della madre non aveva per nulla programmato di convolare a giuste nozze. Qualche relazione passeggera, ma nulla di stabile e definitivo.
“Non sei più un ragazzo” ripeteva mamma Amelia “e io non sono immortale. Hai bisogno di un affetto e di qualcuno che ti aiuti nel lavoro. Che fine farà il ristorante? I sacrifici di tuo nonno, di tuo padre…”
L’arrivo di Rosy risultò quanto mai opportuno. La giovane era giunta in Italia per un breve periodo di vacanza. In realtà, come ammise in seguito, il suo programma era di lasciare definitivamente il suo paese di origine e di trovare in Italia qualche occupazione che le consentisse di ottenere un permesso di soggiorno definitivo.
Amelia l’accolse come una figlia. L’aiutò con molta generosità assillandola fin troppo con consigli e raccomandazioni.
Appena giunta in Italia, Rosy cercò in ogni modo di trovare un’occupazione; qualsiasi lavoro che potesse poi esitare in un contratto definitivo. Si rivolse ad alcune parrocchie, associazioni assistenziali, negozi, boutiques e ristoranti. Non possedeva particolari esperienze di lavoro. Nel suo paese aveva fin dalla giovane età aiutato la famiglia nella gestione di un negozio di prodotti alimentari, ma il guadagno non era più sufficiente per soddisfare le esigenze di una famiglia in cui i cinque figli avevano ormai raggiunto un’età per così dire critica: erano aumentate le esigenze, ma nessuno era ancora in grado di apportare un contributo economico.
La decisione di Rosy fu pertanto motivata non tanto dal desiderio di avventura, quanto da un’impellente necessità, imposta da esigenze famigliari. Aveva affittato una stanza modestamente arredata in un appartamento distante pochi passi dal ristorante. Alloggiavano nello stesso appartamento altri due giovani: uno studente universitario ormai prossimo alla laurea ed un allievo dell’Accademia d’arte drammatica.
Lo stipendio non era un gran che, ma sommando le mance ai frequenti regalini di mamma Amelia, Rosy era già riuscita a mettere da parte qualche risparmio. Insomma, la giovane si sentiva serena e soddisfatta.
Oreste non nascondeva una certa simpatia nei suoi confronti. Alcune volte erano pure andati insieme al cinematografo ed allo stadio. Amicizia e reciproca simpatia, nulla più. Anche se in genere Oreste mal tollerava apprezzamenti e complimenti che qualche cliente del ristorante esternava nei confronti di Rosy. Poteva apparire come un atteggiamento paternalistico, un desiderio di protezione, non tanto per una giovane dipendente quanto per una componente della famiglia.
Un giorno scoppiò un battibecco con Renzo, il giovane allievo dell’Accademia che si presentò più volte al ristorante chiedendo di Rosy.
“Qui non c‘è tempo da perdere!” Sbottò Oreste.
Fu una reazione ingiustificata: Renzo aveva smarrito le chiavi del portone d’ingresso ed in attesa del duplicato si era rivolto a Rosy per un aiuto.
In tutte queste imbarazzanti circostanze, Rosy rispondeva sorridendo, sentendosi anche lusingata per questo affettuoso atteggiamento di Oreste.
Quando festeggiò il suo venticinquesimo compleanno nel ristorante, la giovane raggiunse quasi la commozione. Un’allegra tavolata di amici del quartiere con regali di ogni genere.


II

Il primario del reparto di degenza in cui era ricoverata Amelia, chiese di poter parlare con Oreste. “Come già sa, le nostre risorse terapeutiche si sono esaurite. La malattia non è più controllabile né con farmaci e tanto meno con interventi chirurgici. Occorre essere preparati al peggio. Forse qualche giorno, qualche settimana… Se lei lo desidera e se ritiene che per sua madre possa risultare più confortevole, potremmo dimetterla dall’ospedale. Sappia, comunque, che io mi atterrò alle sue decisioni.”
Oreste si riservò di riparlarne il giorno seguente. Sentì il bisogno di consigliarsi con qualcuno, anche se in tali circostanze, quando cioè si rendeva necessaria una rapida decisione, la sua mente perdeva lucidità e determinazione.
Lasciò l’ospedale in uno stato confusionale. Le parole del primario gli avevano comunicato una realtà non certo sconosciuta, ma la decisione che gli era stata affidata, lo trovò impreparato.
Camminava come un automa, seguendo quasi inconsapevolmente un itinerario che da alcuni mesi aveva quotidianamente percorso.
Giunto all’altezza di Castel Sant’Angelo, lasciò il lungotevere ed imboccò il ponte omonimo.
In ottobre le giornate si erano ormai notevolmente accorciate per cui le luci dei lampioni erano già entrate in competizione con le prime ombre della sera.
Il ponte era quasi deserto. Si stava avvicinando l’ora di cena ed anche i turisti cominciavano ad indirizzarsi verso qualche ristorante.
Oreste aveva da poco superato la metà dell’intera lunghezza del ponte, quando improvvisamente un uomo che lo precedeva di qualche metro, si fermò come per sbarrargli il passo. Si avvicinò al parapetto e con un gesto rapido tentò di scavalcare la barriera con la evidente volontà di gettarsi dal ponte, nelle acque del Tevere.
Istintivamente Oreste si avvicinò allo sconosciuto, lo afferrò con entrambe le mani ad un braccio cercando in qualche modo di impedirgli il folle gesto.
“Che fai? Che fai?” Urlò in maniera scomposta.
L’individuo non rispose. Cercò di liberarsi dalla presa, divincolandosi con tutte le forze. Avrebbe avuto la meglio se inaspettatamente non fossero intervenuti due giovani dalla corporatura atletica che accompagnarono un “Don’t be crazy!” con un poderoso pugno alla mascella del malcapitato che cadde a terra come un frutto maturo.
Si formò subito un piccolo gruppetto di curiosi. Uno dei due giovani soccorritori cercò di rianimare l’individuo con qualche leggero schiaffo sulla guancia.
Oreste si sentì direttamente coinvolto nell’accaduto e pensò in qualche modo di rendersi utile.
“Chiamiamo un’ambulanza.” Suggerì uno dei presenti.
“Si fa prima a portarlo a braccia al Santo Spirito, è l’ospedale più vicino.” Intervenne un altro.
“No, no… è meglio non toccarlo finché non riprende i sensi… lasciamolo sdraiato.”
Dopo pochi minuti, lo sconosciuto aprì gli occhi e girò il capo a destra e a sinistra come per capire dove si trovasse.
“Che succede? Chi siete?” Esclamò con un filo di voce toccandosi la mascella nel punto in cui era stato colpito. “Che mi è successo?”
“Abito poco lontano da qua,” intervenne Oreste “se qualcuno mi aiuta, possiamo portarlo a casa mia.”
I due giovani stranieri non se lo fecero ripetere due volte. Capirono il significato di quanto Oreste aveva detto. Sollevarono con estrema disinvoltura l’individuo e sorreggendolo per le spalle seguirono Oreste che si incamminava verso la sua abitazione in via di Panico.

Allo ‘Scottadito’ i tavoli erano ormai quasi tutti occupati dai clienti. Rosy e gli altri cominciavano ad essere preoccupati per il ritardo di Oreste, al punto che ogni tanto qualcuno si affacciava all’ingresso del ristorante con la speranza di vederlo arrivare.
Fu appunto in occasione di una di queste sortite, che Gigi riuscì ad intravedere Oreste seguito da un indistinto gruppetto di persone che si stava avvicinando lentamente. Uscì dal ristorante e si incamminò con passo lesto verso Oreste.
“Che è successo? E questo chi è?”
“Lascia perdere, Gigi, ti spiegherò. Corri al ristorante ed apri dall’interno la porta di servizio della cucina. Più tardi lo porteremo su in casa.”
Entrato in cucina, mentre il cuoco osservava incredulo la scena, lo sconosciuto venne fatto sedere su una sedia mentre con lo sguardo smarrito scrutava la stanza e le persone.
Gigi raggiunse Rosy che già aveva cominciato a servire i primi clienti e le spiegò confusamente l’accaduto.
Rosy si precipitò in cucina e dopo qualche istante di esitazione: “Che è successo?” Esclamò sorpresa.
“Ti dirò dopo,” intervenne Oreste “per ora offri un brandy a questo signore e ringrazia i due giovani che lo hanno sorretto. Parlano inglese, forse capiscono un po’di italiano, ma tu ti puoi spiegare meglio. Il mio inglese lo capisco solo io…”
Quando rimase solo con lo sconosciuto, mentre il cuoco tutto compreso nel suo lavoro ogni tanto sbirciava con la coda dell’occhio, Oreste cercò in qualche modo di risolvere questa situazione imbarazzante.
“Ma perché volevi ammazzarti?” Chiese, afferrando un braccio allo sconosciuto. “Chi sei? Come ti chiami? Dove abiti?”
“Non so, non ricordo… cosa è successo?” Rispose con uno sguardo allucinato. “Dove mi trovo? E tu chi sei?”
“Come, chi sono,” riprese Oreste “sono un amico che ti ha salvato… non ricordi? Ma come ti chiami, santo cielo!”
“Non so… mi fa male la testa… ma che ci faccio in questa stanza?”
Il giovane sconosciuto mostrava un’età non superiore ai trenta, trentacinque anni. Indossava un maglione ed un paio di jeans piuttosto sgualciti. Capelli scuri ed occhi di un nero pungente.
“Hai qualche documento… un portafogli?”
“No, non so, ma Giorgia dov‘è?”
“Giorgia? E chi la conosce?” Soggiunse Oreste. “Ma è mai possibile che non ti ricordi nulla?”
Mentre pronunciava queste parole, Oreste notò un piccolo ciondolo dorato di forma appiattita che pendeva da una catenina attorno al collo. Incuriosito l’afferrò e lo avvicinò ai suoi occhi per osservarlo meglio. Notò subito alcune parole incise nel metallo: “Giorgia e Ricky for ever”.
Alzò lo sguardo e scrutando il giovane negli occhi, domandò con irruenza: “Dove possiamo rintracciare questa Giorgia… un numero telefonico, un indirizzo.”
“Non so… non so…”
“Ma porca miseria,” imprecò Oreste, “guarda cosa mi deve capitare. Ed ora che faccio?”
Improvvisamente Rosy entrò nella cucina per parlare col cuoco, ma non potè evitare di avvicinarsi ad Oreste.
“Beh, allora come sta questo giovane?”
“Non ricorda nulla.” Rispose Oreste con disappunto. Rivolgendosi poi al giovane: “Ma questo Ricky che è inciso sulla medaglia, sei tu?”
“Sì, io sono Ricky… però ci vedo male… mi fa male la testa…”
“Questo l’abbiamo capito, ma se tu non ci aiuti, come facciamo a riportarti a casa, ad avvertire qualche parente… un amico?”
Appena Rosy uscì dalla cucina, Gigi entrò in tutta fretta.
“Due amatriciane ed un litro di rosso, al cinque… Beh? Ancora qua ‘sto disgraziato?”
“Hai ragione, Gigi, ma che posso fare?”
“Come, che posso fare… chiama la polizia, no?”
Improvvisamente Ricky fece un balzo sulla sedia.
“No, no, la polizia no… voglio morire…voglio morire.”
A questo punto Oreste ebbe un’idea.
Con l’aiuto di Gigi e del cuoco, riuscì a condurre Ricky al piano superiore. Lo fece accomodare su una poltrona del soggiorno ed accese il televisore che si trovava di fronte. Si trattenne qualche minuto per osservare il programma televisivo e quindi con malcelata indifferenza uscì dal soggiorno per entrare nell’attigua camera da letto. Chiuse la porta, sollevò la cornetta del telefono e compose un numero.
“Pronto, sono Oreste Reverberi, il figlio di Amelia, vorrei parlare col medico di guardia… è urgente! Mi avete riconosciuto? Chi parla?”
“Sì, sì ho capito” rispose l’infermiera “vedo di rintracciare il dr. Orsi.”
Oreste spiegò al medico l’accaduto e chiese se era possibile parlare col primario.
“Penso sia difficile,” rispose il dr.Orsi “comunque il mio turno è finito. Posso essere da lei fra una ventina di minuti. Vediamo che si può fare.”
Oreste si sentì rincuorato. Avvertiva la necessità di dividere con qualcuno la responsabilità delle sue decisioni. D’altra parte, questi ultimi avvenimenti si erano sovrapposti ad uno stato di ansia e di disagio per le gravi condizioni della madre e per la impellente necessità di riportarla a casa per trascorrere insieme gli ultimi giorni di vita.
Ripose molto delicatamente la cornetta del telefono ed aprì la porta per rientrare nel soggiorno.
Ricky era sparito.
Il televisore era acceso, ma il volume dell’audio era stato ridotto al minimo.
Corse verso l’ingresso dell’appartamento, scese rapidamente le scale e raggiunse la strada. Di Ricky nessuna traccia. Entrò nel ristorante dall’esterno, parlò con Rosy e Gigi e si affacciò in cucina: sparito. Si consultò con tutti sul da farsi.
“Avrà pensato che telefonavi alla polizia.” Soggiunse Gigi. “Si sarà fatto prendere dal panico e se l‘è squagliata.”
“Ho capito, ma perché tanta paura della polizia?”
“Forse avrà combinato qualcosa di poco buono.” Intervenne Rosy.
Trascorsero all’incirca quindici minuti di febbrili consultazioni e di fantasiose ipotesi.
Il dr. Orsi giunse con qualche minuto di ritardo. Oreste lo condusse nel soggiorno e spiegò dettagliatamente l’accaduto.
“Quando si ha a che fare con fatti del genere, le reazioni psichiche possono essere le più imprevedibili.” Sentenziò il dottore. “È possibile che la caduta ed il trauma subìto, come anche l’inconsapevole volontà di rimuovere avvenimenti spiacevoli, abbiano provocato uno stato di amnesia incompleta, per cui alcune realtà vengono soppresse nella memoria ed altre, anche se più remote, compaiono confusamente nel ricordo.”
“Ma quello si sarà andato ad ammazzare… ripeteva sempre che voleva morire… non avrei dovuto lasciarlo solo.”
“Ma lei che c’entra?” Riprese il dr Orsi. “Ha fatto più di quanto doveva. Se ha deciso di ammazzarsi, lei certo non può impedirglielo all’infinito. Forse è meglio che pensi a risolvere il problema di sua madre. L’aspettiamo domattina in ospedale. Ne riparleremo col primario.”

Alle prime ore del mattino, il cuore di Amelia si arrestò. Il dolore per la scomparsa della madre, anche se prevista, fece dimenticare completamente ad Oreste gli ultimi avvenimenti che avevano notevolmente turbato la sua serenità. Rimaneva comunque nel suo animo un inconsapevole e quanto mai ingiustificato senso di colpa per un’eventuale tragica conclusione della vicenda di Ricky.
Il dubbio e l’incertezza lo tormentavano. Avesse almeno avuto qualche notizia anche dolorosa, si sarebbe comunque più tranquillizzato.
La morte della madre fece concentrare su di lui ogni responsabilità nella gestione del ristorante, anche se praticamente già da tempo il contributo della madre si era ridotto a ben poca cosa.
L’assenza di Amelia, tuttavia, veniva avvertita soprattutto quando si rendeva necessario prendere decisioni improvvise, anche di poca importanza, ma in cui l’esperienza e la saggezza dell’età matura si rivelavano insostituibili.
Tutti i collaboratori e Rosy in particolare, si dedicarono con maggior entusiasmo e determinazione al proprio lavoro, anche se emergeva sempre più spesso un’incontestabile carenza di personale, specie in alcuni giorni della settimana. Tutti convenivano che era ormai indispensabile assumere qualcuno, per rendere più agevole e solerte il servizio.
Le opportunità non mancavano, ma la difficoltà risiedeva soprattutto nell’identificare persone oneste e con un minimo di preparazione professionale.
Gigi si ricordò di un vecchio amico. Lo contattò e gli presentò la proposta di lavoro. Si disse disposto ad accettare, ma con un’attività non continuativa. Sarebbe stato disponibile solo alcuni giorni della settimana e nelle ore serali. Alla fine la proposta non fu accettata.

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