Separato in casa – Storia di un castellaro pintore

di

Massimo Maso


Massimo Maso - Separato in casa – Storia di un castellaro pintore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 216 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-2291

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In copertina: “Scherzo grafico” china a graffio di Massimo Maso


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è Segnalata dalla Giuria nel concorso letterario J. Prévert 2012


Motivazione della Segnalazione della Giuria del Premio Jacques Prévert 2012: «Separato in casa – storia di un castellaro pintore», di Massimo Maso, è un romanzo esistenziale-sognante che si crea e ricrea, sempre in equilibrio su una storia d’amore che condurrà ad un epilogo imprevedibile, autentico colpo di scena spiazzante. La storia di un uomo che vive nella mediocrità ma, un bel giorno, conosce Valentina, una bella “sventolona rossa”, donna effervescente ed intelligente, che lo aiuterà a ritrovare se stesso. Lui lascerà il suo lavoro, si metterà a dipingere le insegne dei negozi, a disegnare ritratti nel locale del paese, a costruire castelli di sabbia sulla spiaggia, sempre seguendo il suo “angelo redentore”: finalmente sarà “sereno e felice”. Massimo Maso plasma, pagina dopo pagina, un romanzo pervaso da profonda umanità, alla ricerca del significato autentico del vivere, tra filosofiche riflessioni e frammenti esistenziali esilaranti.

Massimo Barile
Presidente del premio letterario “Jacques Prévert” sezione narrativa


“Chi vive lascia pietra. Chi esiste lascia memoria.”
Con questa lapidaria constatazione il mio professore di filosofia, in quarta liceo, sintetizzò una lezione fuori programma sul significato del vivere autentico, sul senso della vita e sul valore di una dignitosa esistenza. Poi concluse così:
“Alla fine saremo solo respiro antico e sogni nel buio. Ma se quel respiro antico alimenterà nuovi sogni, e quei sogni tracceranno il destino di chi ci sopravvivrà, allora saremo esistiti.”
Era un giorno di novembre del 1977.

“Si può amare una donna senza pesare sul suo cuore, senza violarne il destino.”
Con questa breve dedica appuntata su un segnalibro Teresa, neodiplomata al classico, mi donò un’edizione del “Robinson Crusoe”, il suo libro preferito. Io offrii la pizza. Festeggiammo così la maturità appena conseguita. Non sapevo cosa fosse uno “sberleffo” e perciò finsi di gradire la dedica, ma non la completai. Era il 3 agosto 1979. Conoscevo Teresa dalle elementari e credevo di sapere tutto di lei. Più in là nel tempo, invece, scoprii di non sapere nulla. Compresi l’arcano significato di quel messaggio molti anni dopo, quando lei non c’era più. Mi aveva amato, sempre e silenziosamente, “senza nulla pretendere”. Ora che saprei cosa scrivere mi manca ed esiste nel mio ricordo. Questo breve romanzo è la risposta al suo “sberleffo”.

Sono debitore di molto all’onesto e disinteressato affetto di pochi. A loro, se oggi sono quello che sono.

Massimo Maso


Separato in casa – Storia di un castellaro pintore


Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono immaginari. Qualsiasi rassomiglianza o riferimento con persone, cose, fatti o località realmente esistenti o esistiti, è puramente casuale.


Dedicato
a Maria, Ilaria e Silvia,
all’amica che non ho più,
al misterioso “angelo rosso” che mi ha ispirato,
con riconoscenza


Venerdì, 11 luglio 2010

“Ci siamo. Torre Pali.” – confermò il camionista additando un pugno disomogeneo di edifici periferici – “Allora… buona permanenza.” aggiunse poi accostando fin sotto il semaforo e liberando la sicura delle portiere.
Leone stiracchiò un sorriso di ringraziamento e scese quasi di mala voglia, tirandosi appresso una piccola borsa. Attese che il furgone liberasse il ciglio della strada e poi si avvicinò alla colonnina delle indicazioni stradali che delimitava l’incrocio. Ci si piazzò davanti e fece scivolare gli occhiali da sole sopra i capelli. Lesse nuovamente, lettera per lettera, come se quel mezzo metro di distanza e i caratteri cubitali bianchi su fondo blu della segnaletica non bastassero a fugare ogni possibile dubbio e a compensare la sua miopia. E invece aveva letto bene: Torre Pali. Quella, dunque, era senza dubbio la sua meta. D’altro canto la nota sul biglietto era chiarissima.

“Al quindicesimo chilometro della litoranea per Gallipoli trovi le indicazioni per Marina di Salve. Lasci a destra il paese e prosegui per altri cinque chilometri. Arrivi ad un incrocio. Non puoi sbagliare. Come leggi Torre Pali prendi a sinistra, duecento metri e sei arrivato. Chiedi della gelateria “Tempo zero”, entra, gustati l’affogato al caffè, che è la loro specialità, e aspettami. Alle cinque in punto arrivo.”

Macché, niente da fare. Non gli riusciva proprio di concretizzare la situazione. Mille interminabili chilometri e diciotto ore di viaggio alle spalle; trentacinque gradi all’ombra del nulla e il frastuono di una campagna brulicante di cicale davanti. Non c’era davvero proporzione. Il cartello c’era, ma Torre Pali dov’era? O per meglio dire: cos’era? Per uno come lui, abituato alla presunta razionalità dell’urbanistica settentrionale, fatta di frazioni e quartieri ben definiti e contestualizzati, risultava estremamente difficile recuperare una visione complessiva e soddisfacente di quel luogo, tanto più che mancavano totalmente quegli elementi di raccordo minimi e indispensabili capaci di suggerirgli l’idea, seppur vaga, di località o abitato. Nel tentativo di orientarsi correttamente rispetto al mare, volse il capo da destra a sinistra, percorrendo con gli occhi la strada che intersecava la statale. Da una parte la strada risaliva la collina e dopo appena cinquanta metri curvava e lasciava in disparte una chiesetta, stretta nella morsa di due vecchie abitazioni cubiche, per poi addossarsi ad un muretto di pietra a secco che delimitava un latifondo coltivato a ulivi. Oltre questi, l’azzurro. Dall’altra, prendendo a sinistra come il messaggio suggeriva, il verde basso e polveroso degli orti che conduceva al mare. Raccolse la borsa e prese quella direzione. Di qua e di là dell’asfalto manciate di case dai tetti piatti. Il marciapiede solo a ridosso delle abitazioni di recente costruzione. Sparse in quel verde, isole di villette coi muri di graffiato colorato, probabilmente destinate a soddisfare le crescenti richieste del turismo residenziale. Dovunque la sensazione dell’incompiuto o, nel caso di vecchi edifici, del rattoppato alla meno peggio. E questo rendeva ancor più difficile trovare un punto di riferimento preciso. La fisiologica mancanza di omogeneità e razionalità costruttiva impediva di fatto l’immediata identificazione delle attività commerciali. Poi l’occhio di Leone cominciò ad abituarsi e giunse a cogliere i dettagli. Come le insegne e i cartelli artigianali, ad esempio, che ritornavano agli edifici la promiscuità della loro funzione nonostante l’unicità dell’ingresso, reso sonoro dal tintinnare delle perline di plastica colorata delle tende antimosca. Abitazione e panificio, o abitazione e salone di parrucchiere acconciatore, piuttosto che abitazione e edicola con smercio di tabacchi e gioco del lotto. Indicazioni piccole comunque, quasi timidi promemoria per i residenti e suggerimenti per i forestieri. Le più semplici, scritte col pennarello o con il nastro adesivo nero, sagomato, segnalavano i frutti dell’attività rurale. “Qui olio e vino di produzione propria”, oppure “caciotte, burrata, peperoncino e ortaggi, vendita diretta”. Quelle più colorate, industriali, richiamavano un recente riordino del locale o lo sviluppo di un’attività fin lì condotta con criteri rudimentali. Uno, molto vistoso e con una foto in rilievo declamava la prossima apertura della “nuova pasticceria da Rosa, in via Colombo. Pane, pasta e specialità dolciarie”. Stando alla foto doveva avere le dimensioni di un autosalone. Quando Leone la superò quasi non la riconobbe tanto era piccola e angusta. L’insegna più frequente? Minimarket. Condivisa, ovviamente, con altre attività. Al minimarket di Olga si accedeva dal bar Specchio, a quello delle sorelle Bonaiuto dopo aver attraversato la pizzeria-rosticceria del fratello Agostino, con alloggi al primo piano. Ferramenta e articoli da mare, invece, non abbisognavano di alcuna indicazione, giacché tappezzavano tutto lo spazio antistante l’entrata di gommoni a forma di coccodrillo, ciambelle col becco da papera, pinne, seggiole, ombrelloni con le frange di paglia finta, sdraio e reticelle zeppe di secchielli e giochi per la sabbia. Dentro, a richiesta, carriole e pale, griglie e carbonella da barbecue, pentole e barattoli per il sugo, intimo maschile, deodoranti e cibo per animali e, ovviamente, sigarette e gratta e vinci. Questa, forse, l’unica caratteristica che accomunava Torre Pali ad una qualsiasi altra località balneare della penisola. Ciò che non contemplava manifesta attività commerciale era comunque fonte di reddito stagionale. Tutto era affittabile; dalle stanze, all’appartamento, al sottotetto o al garage ristrutturati per i meno esigenti. La sistematica presenza di una targhetta col numero di telefono del proprietario e la scritta “affittasi” appiccicata sulle cassette della posta o sotto il numero civico, significavano l’uso quasi esclusivo di procedure di affitto sbrigative e stipule contrattuali prive di intermediario, frutto di un contatto diretto fra locatori e vacanzieri. Ragion per cui Leone, strada facendo, incontrò un’unica agenzia immobiliare, peraltro aperta solo dalle 10,00 alle 12,30, come recitava l’avviso. Alle quindici e trenta, schiacciato dal peso di un calore africano che sembrava bruciargli l’ossigeno attorno, raggiunse una piccola piazza, per buona parte occupata da giostre per bambini e baracchini di ambulanti magrebini e indiani, luccicanti di collanine, braccialetti, orecchini e ninnoli di ogni tipo.
Incuranti della luce abbacinante i ragazzini in bicicletta tracciavano veloci diagonali da una parte all’altra di quello spiazzo aperto. Qualche cane li seguiva abbaiando stancamente. Visto così, Torre Pali pareva popolato solo da bimbi e cani. Tanti cani, ma ben nutriti e puliti, segno che in quel luogo gli animali non avevano un proprietario preciso, ma non erano nemmeno randagi. Appartenevano alla comunità e vivevano di tolleranza e generosità. Perciò non davano fastidio; si lasciavano accarezzare tranquillamente, senza veli nello sguardo, non cercavano pietà e non seguivano. Leone, alla disperata ricerca di refrigerio, fece fessura degli occhi e attraversò il bianco rovente incontro alla veranda di una presunta pizzeria, che poi era la sola ombra nel raggio di parecchie decine di metri. Scostò l’onnipresente tenda antimosche e si ritrovò dentro un bar che offriva una grande teca ricolma di focacce locali. Di fronte al banco una seconda tenda a palline trasparenti delimitava l’ingresso al minimarket e lasciava intravvedere lo slargo che ospitava il forno per la pizza. Ordinò un caffè freddo shakerato, al banco, e chiese della gelateria, senza degnare di uno sguardo chi lo stava servendo. Lo fece inavvertitamente, perché era stanco, ma la ragazza si risentì di quell’attenzione mancata e trovò subito il modo di farglielo notare. Gli servì un bicchiere stracolmo, che tracimò, così che Leone si sporcò le mani e la cercò con gli occhi per rimproverarla. Finalmente la notò e si trattenne. Giovanissima, poco più che diciassettenne, col sole sulla pelle e il mare negli occhi.
“Mi scusi. Mi è scivolato di mano. Si è sporcato?”
Sorrise e ottenne il suo perdono.
“No-no. Non si preoccupi. Capita. Non è successo nulla.”
“Mi chiedeva?”
“Ah, sì. Della gelateria. Sa indicarmela?”
“Appena arrivato, eh? La gelateria da Pino è giusto dall’altra parte della piazza; se l’è lasciata alle spalle attraversando. Quando ha le serrande abbassate non si nota. Apre fra mezz’ora.”
“Uhm, allora aspetto qui. Magari mi accomodo sotto la veranda. Mi farebbe un altro caffè freddo?”
“Come vuole. Glielo caccio fuori subito.” disse poi la ragazza con tono asciutto.
“Eh! Non…”
“Il caffè, dico. Glielo servo fuori?”
“Ah, il caffè. Sì grazie, con un bicchiere d’acqua.” precisò Leone smorzando un’espressione perplessa. Una seconda ragazza, meno giovane, in carne e con un minaccioso pennacchio di capelli crespi raccolti sopra la nuca, passò velocemente un panno umido sul tavolino, poi scomparve dietro la tenda per riapparire qualche secondo dopo col vassoio. Servì il caffè e l’acqua; nudi e privi di cortesia.
“Meglio l’altra.” bofonchiò Leone un tantino impressionato. Eppure proprio quella nudità senza cortesia rese il caffè più assaporabile. Lì, in quel luogo, il caffè era solo caffè, privo di ogni possibile contaminazione, compreso l’imbarazzo che inducono certi camerieri con la loro esagerata servilità. Quando rientrò per pagare si rasserenò nel trovare alla cassa la prima ragazza.
“Quanto le de…”
“Uno e ottanta. (lapidaria) Se ha moneta, meglio. Grazie. Buon giorno.”
Manco il tempo di finire la domanda che si ritrovò i venti centesimi di resto fra le dita.
“No, forse era meglio la seconda.” borbottò nuovamente scostando i fili di perline della tenda.
Molto più cordiale si dimostrò Pino, il gestore della gelateria “Tempo Zero”.
“Scusi, perché questo nome?” chiese Leone prendendo in consegna una coppa di affogato al caffè decisamente esagerata per i tre euro e cinquanta pagati.
“Per caso ha dovuto aspettare molto per avere il suo gelato?”
“N-no.”
“Appunto!” sentenziò l’uomo mettendo in mostra una fila di denti grandi e bianchissimi. Bianchi come il fondo degli occhi. Solo allora Leone si accorse di quanto scure fossero le sue pupille e quanto lucidi e neri i suoi capelli, per non parlare della tonalità dell’abbronzatura. Parlando del più e del meno scoprì che Pino non era Pino. Si chiamava Jamj, veniva dall’India, dal Punjabh, e gestiva il locale per conto del vero Pino, che poi era anche il titolare del prospiciente ristorante «Il Veliero Rosso», con ampio terrazzo sul mare per matrimoni e feste, menu turistico a partire da 12 euro, bibite incluse. Nonché proprietario della pescheria/friggitoria che confinava col bar che aveva appena frequentato e dell’emporio/ferramenta che serviva l’accesso al paese. Cose del sud, pensò Leone, scivolando inevitabilmente su una manciata di luoghi comuni. Il locale era climatizzato e il gelato davvero buono, tanto valeva sedersi e attendere le fatidiche cinque. Nel frattempo la piazza si era ravvivata di voci, di passi e richiami. L’ora della pennichella era finita e le donne riaccompagnavano i figli in spiaggia. Le quarantenni, con la borsa da mare sottobraccio, sciupavano la loro femminilità dentro informi vestaglie e sotto grandi cappelli di paglia. Le più giovani invece, truccate di chiaro e consapevoli della loro potenzialità seduttiva, la ostentavano avviluppando i prepotenti fianchi con esigui parei neri. Ciabattando stancamente sandali e infradito senza tacco, ancheggiavano con studiata disinvoltura, che pareva fossero appena uscite dal bagno di casa, apparentemente sorde e indifferenti ai crudi commenti dei ragazzi che con la fantasia gravitavano già sui loro ombelichi vibranti. Lui, seduto, con la borsa fra le gambe e la polo candida macchiata di sudore sotto le ascelle, si sentiva un forestiero in tutti i sensi. Ficcò i piedi sotto la sedia per nascondere i mocassini scamosciati e il calzino beige, in tinta col pantalone di fresco lana. L’istante di un’ombra lo distolse e il suo sguardo ricadde sulle fluide fattezze della ragazza appena passata a ridosso della vetrata. Una giovane di particolare bellezza, curata, ma con i capelli rossi affastellati in una occasionale crocchia. E particolare era anche l’abbronzatura; giallo-rosea, picchiettata di arancio, come la buccia delle albicocche, tipica di chi ha la pelle chiara e sensibile al sole. Le piantò gli occhi addosso e si allontanò col pensiero, cercando di capire come e perché era arrivato fino a lì, in fondo al tallone d’Italia, in quel buco di paese, senza la certezza di un posto dove dormire e con pochi spiccioli in tasca. Sospirò e ricordò. Tutto aveva avuto inizio una decina di giorni prima, in un posto lontano e ben diverso. A Borghetto, paesotto della marca trevigiana. Un tempo ameno e grazioso, ma di recente malamente ingrassato sotto la spinta migratoria del pendolarismo. Borghetto, dunque. Più precisamente nel suo ufficio, di venerdì, all’ora di uscita.

[continua]


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