Buio di bimba

di

Mattia Bertani


Mattia Bertani - Buio di bimba
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 124 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-9269

eBook: pp. 100 - Euro 6,99 -  ISBN 978-88-6587-9412

Libro esaurito

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In copertina: «Bambina in bianco e nero» © elisabetta figus – Fotolia.com


A seguito del primo trauma, conseguente alla morte dei genitori, la piccola Ida vive una serie di esperienze che ne condizioneranno la formazione fino a condurla ad una drammatica “discesa agli inferi” da cui non potrà più risalire.


Buio di bimba


Prima Parte

1937-1938


1

Antonio dormì quella sera. Non udii nemmeno una volta il suo tormento di fame, che conoscevo bene da quando papà aveva deciso di innamorarsi delle carte da gioco. Pensavo fosse questione di minuti ormai e li avrei visti rientrare dalla porta, mi sarei accontentata di qualche mela e dell’abbraccio di mamma, ignara che quell’attesa presto si sarebbe rivelata vana. Poi la paura si era fatta così intensa che ricordo l’affanno del mio respiro. Era passato troppo tempo, un’intera giornata senza avere notizia dei miei genitori: erano usciti all’alba. Nella stanza quella sera era scesa un’ombra scura e, mentre accarezzavo i capelli di mio fratello, a poco a poco il mio corpo incominciò a tremare, mi sentivo sola, senza nessuno a cui poter chiedere aiuto. Tonino, così lo chiamavamo mamma ed io, aveva sedici mesi, era piccolo, lo avvertivo sempre fragile tra le mie carezze. Non avevamo nulla da mangiare, la dispensa era vuota come il nostro stomaco e quella sera una lampadina che dava colore al soffitto appariva l’unica speranza a cui aggrapparsi.

Era trascorso un anno da quando ci eravamo trasferiti, lasciandoci Sora alle spalle.
La nostra vita era diversa allora: abitavamo in un vecchio casolare in cui d’inverno il gelo penetrava nei muri senza darci tregua. Papà non era mai stato un gran lavoratore e i soldi finivano sempre in uno dei suoi vizi, come se il suo egoismo fosse ormai un’abitudine con cui dovevamo convivere anche noi.
Così, un mattino di un’estate torrida, mamma convinse tutti quanti a partire per Milano con la speranza di una casa calda, di un lavoro e di un futuro che ci avrebbe riservato dignità e prospettive in una terra che, come raccontavano, prosperava di sogni e certezze. Senza l’approvazione dei nonni, salimmo su una corriera con qualche valigia e troppe aspettative, perché tutto ciò che avevamo era un indirizzo, quello di una presunta cugina che gestiva una pensione alla periferia di Milano.

Ricordo quel viaggio. Sento ancora l’odore dei sedili impregnati di sudore. Il paesaggio dietro al vetro mutava lentamente, mentre svaniva la speranza che nonna sarebbe corsa a riprendermi, perché non poteva lasciarmi andare, perché ero la sua piccola Ida e perché, quando cucinavo con lei tutte le domeniche, vedevo nel suo sguardo un orgoglio dolce destinato a me soltanto: non avrei più provato nella vita quella sensazione.
Avevo tenuto Tonino in braccio da sola, come un’incombenza scontata, avevo cercato di consolarlo ogni volta che il peso delle ore lo aveva fatto scoppiare in un pianto isterico. Mamma era ferma, immobile al suo posto, il fantasma di se stessa, lei che non era mai stata felice, ma che ogni volta che posava lo sguardo su Tonino sorrideva sempre e istintivamente: eppure non lo fece mai in quel viaggio. Non si voltò verso di noi neanche per sbaglio, era assente e al tempo stesso tormentata. Allora non potevo sapere che la paura può farci smarrire la nostra espressione, com’era accaduto a lei quel giorno. Accanto, papà dormiva beatamente e sembrava non avere un pensiero al mondo: il suo viso era rilassato e il respiro calmo. Provavo invidia per lui e nello stesso tempo un’immensa pena.
Nella fila davanti a noi un uomo, di spalle, avvolgeva tra le braccia una bambina dalle dita piccole e dalle guance rotonde; lei strofinava il viso sul suo collo, lui la baciava e la coccolava. Quell’uomo non aveva un motivo al mondo per stancarsi della sua bambina, dei suoi capelli, delle sue carezze, del suo abbraccio. La piccola notò la mia curiosa invadenza, nascose il naso sotto il mento del papà, poi tornò a guardarmi e salutò, agitando la mano. Ricambiai quel gesto: fu un istante breve, ma ne ricordo i particolari e il verde scintillante degli occhi. Avrei voluto dirle quanto fosse fortunata: era protetta, al sicuro, mentre qualche metro più distante da lei io mi sentivo di vetro.

Arrivati a Milano, rimasi attratta da tutte quelle luci che illuminavano il migrare di volti a me così estranei. Cam­minavamo sulle nostre ombre, in fila come formiche in marcia, dietro i passi di papà carico come un mulo, incerto e fragile tra quelle strade a gomitolo. Mamma reggeva Tonino e con il mento sollevato pareva brillare di curiosità e meraviglia: ritrovai nel suo viso un bagliore di speranza e mi sentii meglio, anche se sovrastata dall’enorme valigia che mi era stata affidata.
Il cielo sopra di noi era limpido di stelle e rividi quei colori che amavo osservare, sdraiata accanto a nonna tra i fili d’erba del suo cortile. I miei stracci erano umidi sulla pelle, credo fossero provati quanto la mia schiena da quel viaggio infinito, ma avevo il cuore nello stomaco e quell’emozione mi mancava da tempo, specie quando la vidi riflessa nello sguardo incantato di Tonino.
Fortunatamente non fu tanta la distanza da percorrere a piedi e giungemmo all’indirizzo della pensione. Mamma entrò da sola e noi restammo fuori dall’ingresso, come gatti smarriti in cerca di padrone. Fu la prima volta che vidi papà spaventato da qualcosa e lo ricordo bene perché mi strinse la mano: la sua presa era rigida e vibrava di tensione.
La brezza della sera iniziava ad agitarsi e Tonino tra le braccia di un uomo si sentiva a suo agio come un fiore tra chiodi e martelli, per cui lo salvai da quel rifugio pericolante e uno accanto all’altro attendemmo che qualcuno, a noi sconosciuto, si rivelasse disposto a darci un tetto sopra la testa. Mamma tornò con un’anziana signora, dopo un tempo che sembrò infinito.

La donna ci scrutò da capo a piedi con aria intimidatoria e dalla sua espressione non trasparì un segno di morbidezza, nemmeno quando Tonino allungò le sue manine verso di lei. Fece segno di seguirla e dal primo gradino di quelle scale iniziò un monologo autoritario e denso di doveri su regole inviolabili a cui tutti avremmo dovuto attenerci. Aveva uno strano accento, zigomi marcati e lineamenti spigolosi, capelli corti e curati, mani solcate da rughe e un incedere sicuro, per quanto affannoso e lento. Mamma ascoltava le sue parole con un’attenzione scrupolosa, senza perdere un movimento delle sue labbra. Fu subito chiaro quali fossero le mansioni che papà doveva svolgere: si sarebbe occupato dell’intera manutenzione dello stabile, a disposizione in qualunque ora del giorno e della notte, efficiente e puntuale nel risolvere all’occorrenza ogni genere di problema.
La signora Venditti – così si presentò – era una lontana cugina della mamma, famosa in tutta Sora per aver fatto fortuna al nord. Ci tenne a sottolineare che la sua benevolenza era frutto di una parentela a cui non poteva sottrarsi, ma si aspettava gratitudine e sacrificio dagli adulti e ordine e silenzio dai bambini. In quella circostanza papà sembrò un uomo così piccolo, curvo in avanti, incapace di sostenere lo sguardo di quella donna e per un attimo dimenticai le volte che avevo pianto per il suo voler mostrarsi onnipotente.
La regola principale apparve semplice; il lavoro di manutentore e factotum era la moneta di scambio per una stanza dove vivere, mentre la mamma avrebbe avuto l’occasione di lavorare con l’ago per una sartoria poco distante da quella strada: così, con i soldi guadagnati, ci avrebbe sfamato e vestito.
I miei genitori annuirono a tutto ciò che la signora sputava dalla bocca e nel frattempo cercavano di tenere a bada il pianto esausto di Tonino.

La stanza era grande. C’erano acqua corrente, una stufa e fornelli a gas. Mamma non era mai stata una cuoca da ricordare, ma tra quelle mura aveva ciò che le serviva per dare alla sua famiglia un pasto caldo. La sala da pranzo a piano terra era riservata agli ospiti (noi non lo eravamo) e quell’unico tavolo di legno ruvido vicino all’armadio doveva bastare per tenerci uniti. Una cassettiera sporgeva dal muro, aveva spigoli consumati dal tempo, il nascondiglio futuro per i soldi che la mamma avrebbe risparmiato e dove papà avrebbe affondato le unghie sporche di grasso, per pagare la sua sete di gioco.
Sapevo che quella situazione mi avrebbe impedito di frequentare la scuola. Avrei dovuto occuparmi di Tonino, dare il mio contributo, ma, per quanto fossi delusa al pensiero di non poter imparare a leggere e scrivere, quella stanza aperta su un nuovo mondo mi dava speranza e ottimismo.
Tre letti confinavano a poca distanza tra loro, illuminati dal chiaro di luna che penetrava da una piccola finestra e il pensiero di quella vicinanza che divideva i nostri cuscini mi fece sentire al sicuro.

La nostra prima notte in quella stanza fu la più bella che la mia memoria ricordi.
Quanto lontana e diversa da quella vissuta un anno dopo, quando i miei genitori non fecero ritorno. Restai ferma per un tempo infinito, Tonino mi dormiva in grembo e quel respiro caldo a tratti mi dava un po’ di conforto.
La signora Venditti entrava nella stanza ogni mezz’ora, sempre più nervosa per quell’assenza intollerabile. Imprecò molte volte e le sue parole riecheggiavano come una sentenza: “Tuo padre e tua madre pagheranno cara questa mancanza di rispetto…”. Il suo viso era adirato e carico di rabbia.
“Un’intera giornata ad aspettare che quell’ingrato contadino si faccia vivo per sistemare il bagno”.
Le sue parole mi rimbalzavano addosso e intanto coprivo le orecchie di Tonino, nella speranza che quella voce velenosa e mascolina non interrompesse il suo sonno. Nemmeno per un istante quella donna si era preoccupata di me, non si era accorta della mia paura e del sudore che mi imperlava la fronte. Sbatté la porta per l’ennesima volta e fino all’alba non la rividi più.


2

Non ho dormito, sono seduta su una sedia, ho il viso tra le mani e piango. Ho lasciato Tonino sul letto di mamma. Il profumo di lei resterà per giorni su quelle lenzuola. Il corridoio riprende a fremere di voci e rumori, la camera è illuminata dal sole ormai, alcuni passi si fanno più vicini alla porta. Qualche secondo dopo un uomo in uniforme compare nella stanza: dietro di lui la signora ha un’espressione che mai le ho visto prima, sento la sua pena incollarsi su di me.

“Ciao Ida, sono un funzionario di polizia, ho bisogno di parlare con te”.
L’uomo attende che quella frase arrivi a destinazione. La vista di Tonino che dorme non lo scompone, unisce le mani, le porta al naso, poi torna a guardarmi.
“Cosa è successo ai miei genitori?”
Non respiro mentre emetto quella domanda che da ore mi rode lo stomaco. Vedo la signora serrare le labbra, l’uomo si avvicina ancora, capisco che sta scegliendo con cura cosa dire. Si inginocchia e mi accarezza il viso, chiudo gli occhi per un attimo, come se quel gesto dolce arrivasse da un tempo che non mi appartiene più. Intreccia le sue dita con le mie, il tono della voce calmo e misurato:
“Un incidente, bambina mia, mi dispiace doverti dare questa notizia”.
Le parole restano sospese nell’aria per qualche secondo.
“Tuo padre ha perso il controllo del furgone, abbiamo trovato il mezzo rovesciato in un dirupo: per lui e la mamma non abbiamo potuto fare nulla”.
Non avverto il mio corpo in quel momento, porto le braccia allo stomaco e mi faccio piccola su quella sedia. Vorrei piangere ma non ci riesco e lascio che quel dolore, come un serpente nelle vene, scorra dappertutto.
“La signora provvederà ad avvertire i vostri parenti a Sora. Si è resa disponibile in questo momento a prendersi cura di te e di tuo fratello”.

La sua presenza si fa lontana, si è alzato e lo sento uscire dalla stanza, silenzioso e rispettoso come un perfetto messaggero di morte. Non ho la forza di dire nulla, entrambi escono, la porta si chiude, Tonino comincia a muoversi, so che tra qualche istante comincerà a lamentarsi, ha fame, non mangia da troppo tempo ormai. Mi alzo, vado verso di lui e lo sguardo mi scivola ai piedi del letto, un paio di scarpe di mamma mi fissano: da quel momento so che non avranno più anima, come tutto ciò che le apparteneva. E finalmente riesco a piangere, come una bambina di sette anni dimenticata da Dio.

Il tempo trascorre lento, provo a convivere con il buco allo stomaco, so che Tonino non resisterà ancora molto senza qualcosa da mangiare. Sono stanca, sfinita, ma devo occuparmi di mio fratello come ogni mattina da un anno a questa parte: riscaldo l’acqua per lavarlo, trovo dello zucchero e qualche pezzetto di pane secco, prendo dal cassetto un ricambio pulito. Lui mi accompagna con lo sguardo in ogni gesto e quella risata spontanea, quando rispondo ai suoi versi, mi tiene viva. Un odore di muffa trasuda dalle pareti ed io immagino che nonna spunti dalla porta per portarci via. Ho nella mente quella bugia “la signora si è resa disponibile a prendersi cura di te e di tuo fratello”. Gli adulti mentono, a questo sono abituata, quella donna non si farà viva per diversi giorni.

In mattinata una ragazza che lavora in cucina bussa alla porta e lascia un vassoio con del cibo: patate bollite e mele cotte. Sedersi a tavola è come una benedizione. Prendo in braccio Tonino, lo imbocco con cura: uso un cucchiaio per le mele e una forchetta per le patate; nonna mi ha insegnato a schiacciarle nel piatto per farle raffreddare. Lui ingoia senza masticare e appoggia la testa sulla mia spalla.

Una melodia delicata sembra provenire dalla stanza accanto, inclino la testa verso il muro a cui è appoggiato il tavolo e la sento più distinta: una voce di donna canta dolcemente, immagino il suo volto sereno a poca distanza dalla mia angoscia. Non distinguo le parole, ma quella voce mi arriva dentro, mi scuote e una parte di me rallenta e si annulla per qualche secondo, la forchetta vibra cadendo sul pavimento, avverto il salato sulla punta della lingua, ho di nuovo le guance bagnate di lacrime, non riesco a smettere di piangere, sono paralizzata, sento Tonino farsi più stretto al mio petto. Un istante dopo torna il silenzio, la disperazione che mi ha assalito un attimo prima si ritira nella gola: la sento scendere, bruciare e annidarsi in qualche angolo dentro di me.

Sono riuscita a chiudere gli occhi per un po’ di tempo, lo stomaco pieno ha aiutato a conciliare il sonno. Abbracciata a Tonino, nel letto di mamma, mi sveglio con la stanza colorata dal tramonto.
Sento voci familiari provenire dalla strada che a quest’ora è sempre invasa da bambini di ogni età: quando mamma torna dopo il lavoro, scendo spesso nella via per parlare con le altre ragazze del quartiere. Mi piace farmi raccontare da Maria (ultima di quattro sorelle) quello che la sua maestra spiega a scuola… e poi il gesso che riempie la lavagna con quel profumo che immagino anche sulle dita e penso di essere nel banco accanto a lei a leggere e disegnare insieme. Mi soffermo tante volte sul marciapiede, a guardare i volti di tutte quelle persone che vanno e vengono per questa via: immagino le loro vite, da quale luogo arrivano e dove sono dirette, invento un finale per ognuna di quelle storie: è un passatempo abituale per la mia fantasia.

La ragazza che si occupa di pulire e riordinare le camere della pensione mi sorride sempre quando per il corridoio incrociamo i nostri passi, so che si chiama Lucia e, anche se non abbiamo mai scambiato due parole, mi piace pensarla come un’amica tra tanti occhi di passaggio.
Ogni volta che la sera passo dall’ingresso per rientrare, dalle scale che conducono al piano di sotto arrivano profumi a cui non so dare un nome. Chissà quali ingredienti mischia per cucinare quella donna con il grembiule rosso che prende ordini in rigoroso silenzio dalla signora Venditti. L’unico sapore che posso vantarmi di conoscere è quello del pollo cucinato da nonna, un lusso concesso solo le domeniche, quando abitavamo a Sora: non ho mai mangiato niente di così buono.
In questi ultimi mesi qui siamo andati avanti a patate e cavoli nei giorni buoni, nei peggiori invece i digiuni hanno sempre accompagnato un litigio tra papà e mamma. Mi chiedo che cosa sarà di tutto questo adesso, come potrò dimenticare e andare avanti, quando tornerò ad avere la forza di uscire da questa stanza. Sono queste le domande che mi affollano la mente.

Scivolo silenziosamente dal letto, mi avvicino alla finestra, salgo in piedi sulla sedia, vedo Maria e le altre ragazze dall’altra parte della strada. Sedute sul muretto, di fronte ad un portone, si scambiano come al solito ritagli di stoffa per i vestiti delle loro bambole. Io non ne ho mai avuta una tutta mia: papà mi guarda disgustato se oso toccare l’argomento e, quando accade, mamma resta in silenzio come impotente e disarmata di fronte alla mia richiesta.
Nessuna delle mie amiche è venuta a cercarmi oggi, forse non sanno ancora nulla di quello che è successo ai miei genitori. Spero che, non appena si sarà diffusa la notizia nel quartiere, qualcuno alzerà la testa verso questa finestra, per ricordarsi di noi bambini che siamo rimasti soli. Ho il dubbio di non meritare neppure un po’ di attenzione e di conforto, mentre mi sento così disperatamente sola.
Devo nascondere a Tonino la mia angoscia, avere la forza di aspettare che la nonna arrivi, ma non riesco a pensare al momento in cui lei leggerà la lettera della signora Venditti: non posso fare nulla per evitarle tanto dolore.
Soltanto due giorni fa a quest’ora mamma teneva Tonino sulle sue ginocchia, giocavano insieme con quelle loro espressioni buffe e le risate spontanee che seguivano erano contagiose. Il più delle volte io ero confinata a spettatrice, ma comunque parte di quella scena felice. Papà invece era intento ad evitare la signora Venditti: sperava come sempre che, calato il sole e terminate le mansioni ordinarie, nulla lo tenesse più legato ai doveri e che, salvo imprevisti, la sua serata in qualche lugubre bisca potesse iniziare indisturbata. Non ho niente di lui: un bel ricordo, un momento nostro da conservare e proteggere dentro di me, non ho nulla da rimpiangere di mio papà e questa triste consapevolezza mi ristagna nel cuore.

Tonino ora è sveglio: gli occhi spalancati verso il soffitto, il pollice che ispeziona il palato, so che prima o poi comincerà a cercare la mamma e non ho idea di come farò a colmare quell’assenza. Maledico questo posto e le illusioni che hanno alimentato i sogni e i desideri di ognuno di noi. Se solo non fossimo mai partiti, se ogni cosa potesse tornare intatta e immutata, sarei disposta a sopportare ancora gli inverni di Sora con la mia sola coperta. La realtà, invece, è qui davanti a me e non posso fare niente per cambiarla, all’oscuro degli avvenimenti futuri, che cambieranno davvero la mia anima.

Sono passati quattro giorni dall’ultima volta che ho visto la signora nella mia stanza. Era uscita senza dire nulla alle spalle di quel poliziotto. Niente è cambiato da quel momento, queste ore ricalcano i contorni di quelle precedenti; siamo rimasti soli per tutto questo tempo e non ho ancora trovato il coraggio di scendere le scale. So che Tonino ha bisogno di respirare aria fresca, ma non riesco a entrare in contatto con il mondo esterno. Resto confinata in questo spazio come se qui dentro non possa esistere qualcosa capace ancora di ferirmi: mai ho raccontato a me stessa bugia più grande. Quando vedo aprire la porta, Tonino è aggrappato alle mie gambe e i suoi piedi calpestano i miei. Ho una canottiera di cotone, i capelli legati stretti con un nastro bianco e sento gocce di sudore colare lungo la schiena: il caldo è insopportabile e non trovo conforto in nessun angolo della stanza.

La signora Venditti compare insieme ad un uomo ben vestito, a cui non so dare un’età, ma che non credo sia più giovane di mio padre: indossa una camicia nera e delle scarpe lucide e appuntite, ha dei baffi folti e scuri, la cinta stretta nei pantaloni sembra soffocargli il ventre.

“Ida non sei presentabile”. Il tono della signora è severo e cupo.
“Vestiti, non abbiamo molto tempo, il signor Salvi non ha tutto il giorno da perdere e nemmeno io”.

Quell’uomo mi ignora passandomi a fianco, allontana il braccio di Tonino teso verso di lui e, come se fosse padrone di ogni cosa, prende la mia valigia adagiata nella polvere sopra l’armadio. Non rispondo e senza protestare mi infilo una maglia, un paio di calze e indosso le scarpe. Ho imparato che, con gli adulti, il silenzio aiuta a limitarne i rimproveri. Mi avvicino a Tonino per vestirlo, ma la voce della signora si fa più forte sopra di me:
“Soltanto tu ragazzina! Tuo fratello non va da nessuna parte”.
Un nodo mi stringe la gola, ma trovo la forza per parlare.
“Dove devo andare signora?” La mia voce esce incerta e spaventata.
“Tua nonna non ha intenzione di venire a prendervi e io non posso occuparmi di entrambi”. Intanto l’uomo sembra non sentire una sola parola, mentre lei svuota l’armadio dei miei vestiti, buttandoli come rifiuti nella valigia.
Passa qualche secondo, non riesco a dire nulla, non ho nemmeno il tempo per comprendere il senso di quella frase e mi sento afferrare per un braccio: il signor Salvi è alle mie spalle, una smorfia di dolore mi attraversa il viso, non ho l’istinto di muovermi, neanche un lamento. Mi spinge verso la porta, mentre la donna prende in braccio Tonino, che inizia a piangere all’istante. Un grido disperato mi esce dall’anima. L’uomo serra la sua presa, mentre nell’altra mano tiene la mia valigia e tutto ciò che resta di me.

Sono già nel corridoio, il pianto di Tonino si fa più lontano, provo a puntare i piedi e grido con tutto il fiato che ho dentro. La sua mano ora mi comprime la bocca, sento che la valigia cade a terra, mi carica su una spalla, il suo alito acre mi arriva diretto al viso.
“Stai zitta e ferma” la sua voce tuona per il corridoio.
Mi stringe sulla schiena fino a togliermi il respiro, mi dimeno, con i pugni lo colpisco due volte sul petto. Una donna con i capelli grigi, sulla porta di una stanza, osserva la scena immobile e silenziosa, come fosse complice di questa violenza atroce.

Sono in fondo alle scale, mi sento svuotata mentre mi trascina ancora: una vettura grigia è parcheggiata davanti all’ingresso. Tento di difendermi per l’ultima volta, batto i piedi e imploro aiuto. Come una frustata, uno schiaffo improvviso mi percuote la faccia, un secondo dopo ho una guancia gonfia e mi ritrovo sdraiata su un sedile in pelle. Non posso fare più niente, sento l’auto accelerare, non verso una lacrima mentre quell’uomo mi porta via.

[continua]


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