Le salsicce erano pessime ovvero Tre matti in libera uscita

di

Michele Donadio


Michele Donadio - Le salsicce erano pessime ovvero Tre matti in libera uscita
Collana "Gli Abeti" - I testi teatrali
14x20,5 - pp. 106 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6037-7142

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Firenze, primavera del 1995. Un gruppo di amici, più immaturi che malvagi, appena possono si ritrovano alla panchina di un giardinetto per scherzare e prendere in giro i matti del vicino Manicomio quando questi vengono lasciati uscire.
Lo Zecca, irriverente e maligno; Duccio, bambinone sempre allegro, sopra la faccia di fidanzato dolce e comprensivo indossa con sorprendente disinvoltura la maschera di mascalzone quando si tratta di burlarsi dei tre matti; Donatello, pettegolo e impiccione; Pennello sempre pronto ad assecondare le idee dei compagni, poi ancora l’avido ortolano con la moglie, bravo nelle rime ma confusionario nei proverbi. Ed infine Chiara, delusa dal rapporto con la madre, di gran lunga la più riflessiva e matura di tutta la compagnia cerca invano di portare i ragazzi ad una riflessione che ponga i matti sotto una luce umana e non come fonte di divertimento.
La commedia è scanzonata e irrispettosa nell’osservare gli scherzi di cui sono vittime i tre pover’uomini, ognuno con caratteristiche diverse, ma alla fine i quattro amici capiranno che dentro tutte le persone pulsa un cuore che genera emozioni. Ma non sarà la saggia ragazza a farglielo capire…

“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragione d’essere.”

Franco Basaglia


Amico Plone

Torneremo
ad accender nelle vigne
fumanti di un incerto autunno,
gli occhi di una lepre smascherata.
Torneremo amico Plone, un giorno torneremo.


Ai dimenticati.


LA CHIUSURA DEI MANICOMI

Sono passati trent’anni. Il 13 Maggio 1978 il Parlamento italiano approvò la legge 180 che sancì di fatto la chiusura dei manicomi. Destinata a far epoca, la legge pose il nostro paese all’avanguardia in campo europeo nell’ambito della psichiatria. Nota col nome di Legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che fortemente la volle, ha avuto una lenta e controversa applicazione. Il manicomio di San Salvi a Firenze per esempio completò la sua attuazione, e quindi chiuse i battenti, solo nel Dicembre del 1998.
Franco Basaglia (Venezia 1924-1980) lavorò nel 1958 presso l’Università di Padova come assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali ed ottenne la libera docenza in Psichiatria. All’epoca il prorettore dell’ateneo era Massimo Crepet, amico personale di Basaglia. Per le sue idee innovative e rivoluzionarie non venne bene accolto in ambito accademico, cosicché nel 1961 decise di rinunciare alla carriera universitaria e di trasferirsi a Gorizia. Fu direttore dal 1961 dell’Ospedale Psichiatrico dove vi fu un forte impatto con la realtà manicomiale: c’era la massima segregazione dei malati mentali, la contenzione fisica con la camicia di forza e l’elettroshock (stimolazione elettrica dell’encefalo). Lo spettro della lobotomia (intervento chirurgico consistente nel recidere le connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo) aleggiava ancora sinistro. Con il suo gruppo comincia quindi a lavorare con metodi nuovi. “Un malato mentale entra nel manicomio come persona per diventare una cosa. Il malato prima di tutto è una persona e come tale deve essere considerata e curata (…) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone.” Basaglia applicò un moderno metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale alla stregua di un individuo pericoloso ma al contrario un essere del quale devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane. La convinzione di Basaglia era che il malato doveva continuare ad avere rapporti con il mondo esterno, con la società e la famiglia.
Si avvicina all’“Antipsichiatria”, corrente di pensiero sorta in Inghilterra nel quadro della contestazione e dei fermenti rivoluzionari del 1968 ad opera tra gli altri di David Cooper il quale intendeva ribaltare le regole del “gioco psichiatrico” e di opporsi al potere medico racchiuso nella diagnosi e nel sistema della detenzione forzata con un’attenta non-interferenza rivolta all’apertura dell’esperienza piuttosto che alla sua chiusura.
“Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il tempo di togliere le mani dalle loro gole”. La follia era considerata da Cooper frutto di una costruzione sociale e il manicomio era visto come una “istituzione totalitaria”. Secondo gli antipsichiatri la malattia mentale doveva essere esaminata nei termini dei suoi contesti sociali, in particolare nelle dinamiche emozionali della famiglia del malato. Si afferma senza mezzi termini che “la famiglia è il crogiolo della schizofrenia” laddove si individua un difetto di comunicazione. Per il trattamento del malato riconosce validi esclusivamente gli interventi di ordine psicoterapico.
A Gorizia Basaglia abolisce anzitutto le misure coercitive: i muri divisori sono abbattuti, i cancelli aperti; i degenti, prima costretti ad indossare corpetti di forza e letteralmente ingabbiati, sono invitati a circolare liberamente, a conoscere gli altri degenti e a comunicare con il personale ospedaliero. I reparti si trasformano in piccole comunità in cui tutti sono chiamati a partecipare: sia i ricoverati, sia gli infermieri, sia i medici. Il malato, che sino ad allora era un “cittadino senza diritti”, viene restituito a se stesso. Per le sue idee Basaglia fu in parte osteggiato anche negli stessi ambienti psichiatrici, specialmente in seguito ad un omicidio commesso da un paziente psichiatrico dimesso da Basaglia che per tale ragione nel 1968 fu incriminato. Assolto, lasciò la direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia per trasferirsi prima a Parma poi a Trieste dove rivoluzionò l’Ospedale avviando laboratori di pittura e di teatro. Venne formata anche una cooperativa di pazienti che svolgevano lavori regolarmente retribuiti.
Tali esperienze rivoluzionarie vengono riportate nei volumi “Che cos’è la psichiatria” e “Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”. Il successo dei due libri fa uscire dall’ambito degli esperti la denuncia della grave arretratezza dell’assistenza psichiatrica italiana disciplinata da una legge del 1904 (appena corretta nel 1968 dall’allora Ministro della Sanità Mariotti). Si avviano timidamente le prime iniziative con metodi innovativi da parte di altri psichiatri alla guida di manicomi pubblici e privati. Il grande dibattito che nasce dalla circolazione di queste esperienze spinge le Province Italiane (i manicomi dipendono all’epoca dalle amministrazioni provinciali) a svolgere un’ inchiesta sull’assistenza psichiatrica. Se ne ricava un profilo drammatico: nel 1971 l’unica risposta per le persone che soffrono di disturbi psichici sono i manicomi che ospitano oltre 120 mila persone, l’ottanta per cento delle quali entrata con ricovero coatto. Pochissimi riescono a sentirsi meglio e a uscirne in breve tempo. I più diventano cronici, clinicamente “irrecuperabili” e restano internati a vita. Un “ergastolo” senza speranza che fa affollare le strutture: il numero dei degenti in quegli anni era oltre il doppio della capacità delle strutture. La popolazione è costituita non soltanto da persone con disturbi mentali, ma anche da disabili gravi, disadattati sociali, emarginati, alcolisti. Il criterio per l’internamento non è tanto la malattia mentale quanto la pericolosità o il “pubblico scandalo” ed è quindi evidente che la funzione del manicomio è solo in minima parte di “cura”.
La Legge Basaglia impone il “divieto di far costruire nuovi ospedali psichiatrici, il divieto di far entrare pazienti nuovi in quelli esistenti che dovranno essere gradualmente superati e utilizzati diversamente”. Regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi pubblici di igiene mentale per la cura ambulatoriale dei malati di mente. Successivamente, confluendo nella legge 833/78 del 23 Dicembre 1978, istituisce il Servizio Sanitario Nazionale. Attraverso la rivoluzione culturale e medica della nuova legge, si intese concepire la psichiatria sotto un aspetto oltreché innovativo, umano. Prima di allora i manicomi erano poco più che luoghi di contenimento fisico, dove si applicavano pesanti terapie farmacologiche e invasive.
Le intenzioni della Legge 180 erano molteplici: ridurre le terapie farmacologiche ed il contenimento fisico instaurando rapporti umani rinnovati con la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita “di qualità” dei pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali; evitare la ghettizzazione dei malati e il pessimismo terapeutico che vedeva l’internato come persona definitivamente “persa” che andava solo sedata ed emarginata di fatto, per il bene della società; far vivere al malato una vita abbastanza normale, avendo la possibilità di muoversi liberamente, accanto ai familiari assistiti a loro volta dai servizi sociali. Proprio a tale riguardo, una delle critiche più forti che ha raccolto negli anni la 180 è quella di non aver, ancora oggi, predisposto adeguatamente il “dopo chiusura”: trasferendo le competenze della cura nella cosiddetta “psichiatria territoriale”, senza che però le Regioni fossero pronte, il problema dell’assistenza socio-sanitaria del malato è passata di fatto dallo Stato direttamente ai familiari. Alcune Associazioni tra cui l’ ARAP (__Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica__) composta da familiari di malati di mente, denunciano a gran voce la loro incapacità di aiutare i familiari e chiedono una revisione della normativa vigente soprattutto in materia di Trattamento sanitario obbligatorio. Denuncia l’ Arap: “Nel suo spirito riformatore la legge è stata applicata perché quando un malato va in crisi lo si porta al Trattamento Sanitario Obbligatorio ma se il malato non va in crisi, anche se è molto grave, è libero di scegliere se curarsi o no. Di solito sceglie di non curarsi, e nessuno lo può obbligare, e peggiora. Si corre il rischio che si formino nelle case e nei condomini delle famiglie italiane tanti piccoli manicomi. Ci si chiede se sia più civile lasciare che un malato vada alla deriva, sia deriso quando cammina per strada, che una ragazza sia abusata e rimanga incinta e poi le venga tolto il figlio perché è malata di mente, o dar loro il diritto di curarsi?” L’ Unasam (__Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale__) invece, pur riconoscendo lacune in fatto di assistenza ai familiari che vorrebbe veder colmate con nuovi regolamenti, si batte per la piena applicazione della legge che ritiene valida e assolutamente da non stravolgere. Un’altra associazione che critica i limiti di applicazione è la Diapsi (__Difesa ammalati psichici__). “Per noi è necessario che il malato venga curato e non resti in balia di se stesso nel momento in cui deve decidere se curarsi o no, perché il più delle volte non è in grado di stabilirlo (…) Per quanto riguarda i Centri di Salute Mentale rileviamo che i più sono aperti solamente dalle 9 alle 17 e rimangono chiusi il sabato e la domenica… Non effettuano le visite domiciliari se non in casi eccezionali ed è il paziente che deve andare al Csm, ma come sappiamo molte volte il malato non riconosce la propria malattia e non lo fa. (…) Non esiste inoltre una suddivisione per patologia: i giovani stanno con gli anziani e i gravi con i meno gravi. Succede allora che tanti pazienti non vogliono farsi visitare una seconda volta perché “non si sentono matti e non vogliono stare con i matti”.
Il problema sembra dunque incentrarsi essenzialmente sulla qualità dei servizi sostitutivi e la strategia da perseguire per arrivare a non disperdere i buoni principi e i valori contenuti dalla 180.
La legge è ancora oggi al centro di appassionati dibattiti, ma nonostante critiche e proposte di revisione è ancora la legge quadro che regola l’assistenza psichiatrica in Italia.



Le salsicce erano pessime ovvero Tre matti in libera uscita

PERSONAGGI:

Chiara e Duccio: Fidanzati
Zecca, Donatello e Pennello: Amici
Jimmy, l’Avvocato e il Tuffatore: Matti
Verzino e la moglie: Ortolani (Voci)


ATTO I

Scena 1

Chiara e Duccio. Poi Jimmy.

(Chiara, ragazza dolce, acqua e sapone, sta aspettando pacificamente in un giardinetto con panchine. Sullo sfondo a destra si vedono casse di frutta e verdura di un negozio di ortolano. Arriva Duccio. Dell’ortolano e di sua moglie si sentono sempre e solo le voci)

DUCCIO: (Vede Chiara che sta aspettando. Per farsi sentire si rivolge a voce alta all’ortolano) Ortolano Verzino scusi…!? A carciofi come è messo?

ORTOLANO: Bene sono messo, ci mancherebbe! Sono domande da fare ad un professionista dell’ortaggio come me? Ne ho di speciali, vengono da Tropea.

DUCCIO: Vengono da Tropea? Ma non ci crescono le cipolle da quelle parti?

MOGLIE ORTOLANO: Vogliono i carciofi? Verzino diglielo come sono buoni i nostri. (Contraddice il marito) Sono arrivati stamani dal Mugello.

ORTOLANO: (Irritato alla moglie) Ma ti cheti! Torna di là a scattivare i funghi e non intrometterti sempre.

DUCCIO: E quanto costano oggi questi carciofi Calabro mugellani?

ORTOLANO: Per l’appunto questa settimana sono in offerta. Li faccio settemila lire al chilo.

DUCCIO: Alla faccia dell’offerta! Volevo regalarne un mazzo alla mia fidanzata, ma forse spendo meno dal fioraio con due dozzine di rose. Arrivederci professionista, mi stia bene. (Chiara ascolta divertita)

ORTOLANO: Fermati spiritoso. Fatti vedere… ah sei te Duccio. Tutte le volte che vi vedo perdo tempo. Ma avete sempre il “ruzzo” voi giovani? Va bene che anche il proverbio dice… (Incespica) “Gente allegra… Dio aiuta gli audaci”… sì, insomma… “Il riso abbonda…”

DUCCIO: Sì, sì, forse ho capito cosa vuoi dire.

ORTOLANO: Ma voi esagerate… E poi cosa c’entrano i carciofi con le fidanzate?

DUCCIO: Te lo spiego io cosa c’entrano. Fino a poco tempo fa le regalavo i fiori. Rose come piovesse, ma poi ha cominciato a farsi aspettare sempre più agli appuntamenti. E io? Le regalo i carciofi, così impara!

ORTOLANO: Lo so invece che sei te a farla aspettare sempre, cosa credi? L’ho vista passare dieci minuti fa. Fossi in te cercherei di essere più puntuale. Una bella ragazzina come quella dove la ritrovi? (Solenne) “Uomo avvisato, male accontentato”.

DUCCIO: Veramente io la sapevo in un altro modo comunque ciao, ci vediamo. (Va verso Chiara) Ciao bellezza, è tanto che aspetti?

CHIARA: (Sorridente) No, sono appena arrivata. Cos’è questa storia delle rose regalate? A dire la verità non lo ricordo. (Lo rimprovera bonariamente) Comunque ciao eh…

DUCCIO: Ciao Amore scusa. (Le dà un bacetto)

CHIARA: Niente figurati, piuttosto cosa ti succede: solo cinque minuti di ritardo.

DUCCIO: Oggi sono di buon umore.

CHIARA: Come mai sei di buon umore?

DUCCIO: Ti ricordi il “Ventino” che ho prestato sei mesi fa allo Zecca? (Lei annuisce) Me lo ha restituito ieri sera. Non credevo ai miei occhi, lo avevo già inserito nel mio bilancio sotto la voce “In cavalleria”.

CHIARA: Accidenti! Un mezzo miracolo.

DUCCIO: Già, chi se lo aspettava più ormai. Si sa, lo Zecca è bravo a chiedere ma quando si tratta di restituire diventa distratto. (Cambia tono) Ti ricordi vero che stasera ho fissato in pizzeria con quei ragazzi? Vieni anche te se vuoi.

CHIARA: Come se non lo sapessi che senza me tra i piedi ti diverti di più. Ne approfitto per rimettere a posto in casa. Ho ancora degli scatoloni da sistemare, il più è stato fatto ma se non mi decido a sistemare tutto, avrò per sempre una scatola di cartone al posto del comodino. (Allude ironica) E poi chi fa da sé fa per tre…!

DUCCIO: Hai ragione. Non è che mi sia spaccato la schiena per aiutarti. (Scherza) Ma l’ho fatto anche per te: so che a fare le cose da soli si ha più soddisfazione, soprattutto in casa propria.

CHIARA: Sì certo… come no! Vuoi che non lo sappia che hai un cuore nobile? Vieni qui furbino. (Gli fa un buffetto sulla guancia) Almeno te una volta sei venuto ad aiutarmi. Ti ricordi quella Domenica?

DUCCIO: Me la ricordo sì!

CHIARA: Che sudata! E che ridere quando credevi che quella scatola fosse vuota e l’hai buttata nel cassonetto.

DUCCIO: (La schernisce) Già… Signorina “Precisione”! Certo che l’ho buttata nel cassonetto. Ho visto che dentro c’erano giornali e riviste vecchie e ingiallite. Come facevo ad immaginare che tenessi la tua collezione di anelli etnici insieme a quelle cartacce. So che ci tieni tanto…! Incartati in un foglio giallo che sembrava quello dei macellai quando rinvoltano le braciole.

CHIARA: Sì, è vero…

DUCCIO: Come se non bastasse, per farmi capire che si trattava di una scatola “preziosa”, c’era anche un barattolo di caffè tutto ammaccato. Vuoto naturalmente. E senza coperchio.

CHIARA: Sì, lo so… (Melanconica) Me lo ha portato il mio Babbo dalla Russia. È un ricordo.

DUCCIO: (Scherza) Caffè! Tipico prodotto sovietico. Certo che era buffo tuo padre. Uno va in Russia e porta alla figlia un barattolo di caffè come ricordo, ma ti rendi conto…

CHIARA: Beh, che c’è di strano?

DUCCIO: Come che c’è di strano. Come se un siberiano viene da noi in vacanza e si riporta a casa una bottiglia di Vodka come ricordo dell’Italia…

CHIARA: Lo sai che era strampalato. Mi sarebbe piaciuto somigliargli di più sotto questo aspetto. Invece sono così razionale, che rabbia.

DUCCIO: Vieni qui da me “Razionale”. (L’abbraccia) Da quando in qua si mettono gli anelli insieme alle cartacce.

CHIARA: Mi manca ogni tanto.

DUCCIO: Via, via, coraggio! Ma dove lo trovi uno bello, buono e premuroso come me…eh!

CHIARA: Sì, come no.

DUCCIO: E intelligente. Senti un po’, ma tornando alla scatola finita dentro al cassonetto, di cosa ti lamenti? A riprenderla a capofitto chi c’è andato?

CHIARA: (Ridendo) Tu ci sei andato. E meno male. Oddio che ridere…

DUCCIO: Sì…! Delle belle risate. Ora forse, a ripensarci. Ma lì per lì non mi sono divertito affatto a razzolare in mezzo a quei sacchetti di sudicio.

CHIARA: Eh sì, me ne sono accorta dopo tre ore e ci avevano buttato dentro un bel po’ di immondizia.

DUCCIO: Frugavo dentro quel cassonetto come un cinghiale alla ricerca di un torsolo di mela.

CHIARA: Oggi hai la vena poetica aperta…

ORTOLANO: (Urla becero mentre armeggia) Abbiamo la frutta più buona del quartiere. Tutta roba buona. Radicchio, pomodoro, cetriolino, donne venite da Verzino. (Duccio e Chiara ascoltano divertiti)

DUCCIO: Lui sì che è un poeta.

ORTOLANO: (Canta) È primavera, svegliatevi susine, alle Cascine Verzino vostro fa l’ortolan…

DUCCIO: Ma quelli del ristorante sotto casa tua, non hanno mai sentito parlare della raccolta differenziata?

CHIARA: Perché? Cosa c’entra ora la raccolta differenziata?

DUCCIO: Come cosa c’entra?

CHIARA: Hai visto troppi servizi alla Tv su Napoli.

DUCCIO: Non ricordi tutti quei barattoli di vetro: di sugo, di sottaceti… ma che ne so che roba era! Di sicuro puzzava da morire. E poi erano ancora mezzi pieni.

CHIARA: Forse erano sciupati e li avevano buttati via prima che qualcuno si sentisse male. (Ride) Ma lo sai che non me lo ricordavo.

DUCCIO: Io sì, stai tranquilla! Mezz’ora sotto la doccia per levarmi il puzzo di quattro formaggi. (Ridono)

CHIARA: Davvero… e con l’acqua fredda perché ancora non avevano attaccato il gas.

DUCCIO: È proprio carina quella casa sai? La stai sistemando proprio bene.

CHIARA: Sì, piace molto anche a me. Domani quando viene mia madre vedrai finisco di mettere tutto a posto.

(Arriva da sinistra Jimmy, psicolabile sui trent’anni. Cappellino in testa, sguardo timido, mezzo sorriso stampato, indole per lo più pacifica)

CHIARA: Ciao Jimmy, come stai?

JIMMY: Come stai?

DUCCIO: (Pacca sulla spalla) Grande Jimmy! Ti vedo in forma.

CHIARA: Allora Jimmy, cosa ci racconti di bello, come ti va la vita?

JIMMY: (Sguardo quasi sempre basso) Come ti va la vita?

DUCCIO: (A Chiara) Buonanotte! Domani siamo sempre qui. (A Jimmy) Senti un po’, dove l’hai messo il cagnolino che avevi a guinzaglio l’altro giorno?

JIMMY: Quale cagnolino, Lucio…

DUCCIO: Jimmy sveglia! È presto per andare a dormire.

CHIARA: (A Duccio) Non cominciare per favore, povero Jimmy, se non lo ricorda…

DUCCIO: (Cambia atteggiamento, diventa arrogante) Quel cane brutto da morire che si è alleggerito la vescica sull’uscio dell’ortolano.

CHIARA: (A Jimmy per tirarlo su) Non era tanto brutto.

DUCCIO: No macché! Bellino una sega. Non te lo ricordi? Verzino si è arrabbiato e ti ha tirato dietro una mela e te l’hai anche raccattata e gli hai detto: (Gli fa il verso) “Ora la mela non mi va…”

JIMMY: Ah… la mela… il cane… ora me lo ricordo. È rimasto nel recinto dell’ospedale. Mi ha detto che non voleva uscire.

CHIARA: Ti ha detto che non voleva uscire? Dai Jimmy mi fai ridere. (A Duccio) Chicco vado a casa, ci sentiamo più tardi.

DUCCIO: Aspetto i ragazzi e fisso meglio per stasera poi vado a casa anch’io a farmi una doccia, calda. (Jimmy fa per andare via) Ehi… dove vai Genio? Aspetta un po’ perché ora arrivano i nostri amici e ci facciamo due risate tutti insieme.

CHIARA: (Decisa e seria prende in disparte Duccio) Senti! Lo so che è divertente prendere in giro i matti dell’ospedale, ma cerca di non esagerare. Del gruppo che frequenti sei quello che ha più cervello anche se fai di tutto per non farlo vedere. Cerca di non farti trascinare. Ma ti sembra bello prendersi gioco di questi poveri Cristi? E non parlo solo di Jimmy. L’altro giorno avete preso in giro prima il Tuffatore e poi l’Avvocato.

DUCCIO: Chi te l’ha detto? Quel chiacchierone di Donatello? Quello non regge neanche il semolino e poi vuole sapere sempre i fatti degli altri.

CHIARA: Verzino l’ortolano me l’ha detto.

DUCCIO: Ma senti che coraggio! (Indica la bottega) Buono quello! L’altro giorno ha fatto pagare una banana all’Avvocato come se fosse stato un cesto di Natale.

JIMMY: Ha ragione Lucio. L’ortolano è cattivissimo. Tira le mele senza avvertire.

DUCCIO: Bravo Jimmy, diglielo anche te. Oh…! Eccoli che arrivano.

CHIARA: Mi raccomando dai… (Bacetto, esce)

DUCCIO: Tranquilla Chicca, ci sono io…

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