Anteprima della Stoffa dell’Universo

di

Nino Di Paolo


Nino Di Paolo - Anteprima della Stoffa dell’Universo
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 98 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-1973

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In copertina e all’interno illustrazioni di Pierino Zanisi


“Stoffa dell’Universo” è l’espressione utilizzata da P. Pierre Teilhard de Chardin, paleontologo, antropologo, naturalista, gesuita, filosofo e teologo,nella sua opera più importante, “Il fenomeno umano”, per indicare una tendenza evolutiva già presente fin dai primi momenti successivi al Big Bang (se Big Bang vi fu), quella della complessificazione degli elementi semplici, a cui è indissolubilmente collegata una crescita di “coscienza” delle stesse entità complessificate…
…Eccovi quindi l’“Anteprima della Stoffa dell’Universo”, un viaggio nella Storia in compagnia del risultato più complesso prodotto dall’Evoluzione qui, su questa briciola di Materia chiamata Terra.


Prima dell’Anteprima

Ecco tre chiarezze, tre fatti chiari: chi li nota, nota, e poi se ne distanzia. Il lavoro è molto e bisogna fare in tempo. Il primo fatto si sa: la poesia è una nicchia. Va bene. Poi: la poesia filosofica è una nicchia nella nicchia. È la nicchia dei Four Quartets e di certi testi di Miłosz, ora (e ha esempi più medievali che moderni: l’Anticlaudianus, la Cosmo­graphia, la Comedìa e l’Acerba): diciamo che la nicchia esiste, è nicchia ma hic manebimus optime, in un certo senso (ma Dante e Cecco d’Ascoli non ebbero vita facile, e non la rendono facile nemmeno a noi: tanto più che il 2012 è un anno che forse, per loro, non dovrebbe nemmeno esistere). Il terzo fatto chiaro è l’esistenza di una nicchia nella nicchia della nicchia: la poesia (nicchia 1), poesia filosofica (nicchia 2), scritta oggi in una lingua arcaica (nicchia 3). E tu, a quale nicchia appartieni? La prima è intima, la seconda è inattuale, la terza è inusuale.
A quale passato appartiene l’Anteprima di Nino Di Paolo? A nessun passato in particolare. In realtà è più un grammelot che un’evocazione. Potrebbe essere, più o meno, una lingua settecentesca: ma non ha un contenuto cicisbèo, la filosofia è filosofia – eppure il testo ha qualcosa di canterino, e l’orecchio lo sente. Insomma: non ha età e non vuole averla, perché parla oltre il tempo. La volontà di dire è severa e ironica: un poema storico, rimato, scritto in una lingua arcaica; ma forse non è solo arcaica, e arcaica è una parola imprecisa, e noi abbiamo parlato male: è una lingua metafisica, ma sorride. La lingua gioca, modifica, taglia e incolla, ritmando in quel modo intelligente e sconnesso che si trova nell’Acerba di Cecco, il nemico di Dante la Rana: «Tegliardo de Chardin era ‘l cognome», «ciò calcolò ‘l cugino del bonobo», «…per rimetter nelle saccocce “giuste” / lo frutto ricco del lavor di tutti / ’che troppo n’er’andato nelle buste / de l’operari…».
È una scrittura inusuale, anche all’interno della matta bestialitade della nicchia 1 (la poesia). Come un De rerum natura – o uno Speculum, un ritratto enciclopedico del mondo creato –, sì; ma riscritto nei versi ballerini di Gozzano (o nel travestimento di tavole genovesi come il Novissimum testamentum o la Metalli Commedia). Versi ballerini e in posa, e non grossolanamente: in una posa irreale, arcaica o finto-arcaica, che non può non tendere al teatro. Il teatro, già: o comunque un’azione in cui la lingua diventi corpo, per scinderla sùbito dal troppo-difficile o dal troppo-facile. E in quell’azione la lingua ballerina riceve ammiccamenti, pose del corpo dopo le pose dei significanti: lì diventerebbe straordinaria. In questo Limbo performativo – un sogno, dove non si è depressi come nel Limbo dantesco – Delio Tessa è filosofo e Dario Fo è docente: lì tutto è parlato perché tutto deve piacere, e piacere sùbito, per rappresentare il mondo, con una certa impeccabilità sorniona. Ma il mondo è tutto, e allora dovremo rappresentare tutto, tutta la storia. Nella voce, in voce di magister ispirato e scherzoso, la nicchia della nicchia nella nicchia uscirebbe dalla carta.
Il lettore accetterà due modeste proposte. La prima: gli propongo l’esperienza fisica – cioè orale, bocca e lingua impegnate – della filosofia canterina. Ma davvero canterina: come se dovesse spaccare un guscio serioso per dichiarare ciò che è necessario, quindi vero. Che lo faccia, ma che lo faccia con la voce, cantilenando bene o male. Se ogni uomo è un angelo, per Ginsberg, ogni uomo è Ginsberg, purché lo sappia.

2.

La filosofia di Teilhard è una cosmologia: una teoria del tutto, che dà all’uomo un posto esaltante. È la stessa filosofia di cui Mario Luzi disse, oralmente (anche questo è piano: il Luzi orale è un Luzi paterno e preciso, con letture forti e buoni scandagli; il buon intervistatore gli fa un po’ da duca e un po’ da scrivano): «Penso che oggi il significato di un paradiso» – con la minuscola: non è un luogo ma una condizione – «vada strettamente congiunto con un sentimento di progressione che investe l’umano nel suo percorso verso il divino. A ben vedere credo che questa sia la parte più viva e più propria di una mens christiana, alla Teilhard de Chardin: la perfettibilità del mondo comporta la salvezza umana e la salvezza è una progressione dal greve al sottile. Questo principio dell’evoluzione ora è stato ammesso anche dal Papa nella sua recente lettera di novembre» (La porta del Cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, Fabbri, Milano 1997, p. 86). Luzi si riferisce al Messaggio di Wojtyła Ai partecipanti della Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, il 22 ottobre 1996. Il Papa scrive che «il Magistero della Chiesa è direttamente interessato alla questione dell’evoluzione, poiché questa concerne la concezione dell’uomo, del quale la Rivelazione ci dice che è stato creato a immagine e somiglianza di Dio». Il documento procede con la normale prudenza papale, come è ovvio: ma per Luzi «è stato un atto molto importante, a cui non hanno dato il risalto che meritava».

3.

La seconda proposta al lettore è il gioco del nuovo Medioevo: leggere il testo come parte di quel nuovo e secondo Medioevo che è stato il Novecento. Lo dice Claudio Leonardi, che fu in pagine serissime: «Per parte mia, resto convinto che la letteratura mediolatina veda ancor oggi, e nel prossimo futuro, aumentate le sue occasioni di qualche successo nel pubblico. La ragione è di carattere generale, cioè la convinzione che assistiamo a un cambiamento di civiltà: l’età tecnologica non è più un’età razionalistica, e quella razionalistica per secoli è stata la civiltà europea, in cui il Medioevo, soprattutto latino, ha trovato così poco spazio» (La tradizione mediolatina in Italia, «Mittellatei­nisches Jahrbuch», 36 [2001], pp. 305-308: p. 305).
Ora, non c’è poema medievale senza le sue glosse, d’autore o no: vale per il sottile Anticlaudianus di Alano come per la glossa Acerba di Cecco d’Ascoli. Vale anche per Dante, glossatore nella Vita nova e glossato da altri nella Comedìa. Dunque anche l’Anteprima ha le sue glosse. La glossa è quello che è, serve il testo e il suo statuto è secondario, altrimenti non sarebbe glossa. In questo caso, le glosse sono d’autore e il loro italiano è corrente. Non è un caso: la glossa è prosa di servizio. Ma qui le glosse non sono la parte minore del poema: ne sono il radicamento più concreto nel nostro tempo, come una traduzione dal volgare in un altro volgare. Devono essere lette, come devono essere guardati i disegni di Zanisi.
Ecco, in lingua antica di glossatori: secundum quod ostendimus, oppure hoc est quod dicit. L’abbiamo mostrato, è così, il testo dice quello che vedi, e così via. Et hoc quadam similitudine dictum est: e questo è detto con una similitudine, per esempio quando si unisce un tempo ad un altro tempo, e in un certo senso si fa religione, perché è un (nuovo) legame. Radulfo scrive intorno ad Alano: le sue parole non sono le ultime e non saranno finali. Niente finisce, nel gioco delle somiglianze.

Massimo Sannelli


A Vittorio “Vik” Arrigoni,
Resistente e Maestro di umanità.


NOTE DI LETTURA

“Stoffa dell’Universo” è l’espressione utilizzata da P. Pierre Teilhard de Chardin, paleontologo, antropologo, naturalista, gesuita, filosofo e teologo, nella sua opera più importante, “Il fenomeno umano”, per indicare una tendenza evolutiva già presente fin dai primi momenti successivi al Big Bang (se Big Bang vi fu), quella della complessificazione degli elementi semplici, a cui è indissolubilmente collegata una crescita di “coscienza” delle stesse entità complessificate.

Parlare compiutamente della “Stoffa dell’Universo” richiede la stesura di un saggio, opera che ho iniziato ad intraprendere da tempo.
Ancora per quanto tempo? Un tempo sufficiente?

Dunque, per attirare attenzione sull’argomento, occorreva un qualcosa di più immediatamente fruibile, un’anteprima, un antipasto.

Scrivere in prosa una sintesi di un saggio sa di bigino.
Non che i bigini non siano utili.
Onore e gloria ai bigini.

Ma se non è prosa, che siano versi.
Non poesia, solo versi e, per di più, in rima, nella “gabbia” dell’endecasillabo, da cui sono svincolati solo il primo e l’ultimo dei 40 Canti dell’opera.

Primo ed ultimo Canto a loro volta anteprima di questo lavoro, apparsi sull’Antologia “Lo spirito della poesia” (Fara, 2008), il secondo ed il terzo, sebbene non nella medesima stesura in cui sono scritti qui, in un’altra Antologia, “La poesia, il sacro ed il sublime” (Fara, 2010).
E, in conclusione di ognuna delle composizioni, alcune glosse che ne sintetizzano il senso.
I 40 canti, dunque, sono in quartine in rima, ciascuno di 40 versi.
Nel canto introduttivo (ode alla disobbedienza) la rima è alternata, nel canto I le rime sono tra il primo e il quarto verso e tra il secondo ed il terzo.
Poi si continua con questa alternanza; nel II rima alternata, nel III rime 1-4 e 2-3 e così via fino alla fine.
Come detto, i versi dei canti introduttivo e conclusivo non hanno limite di sillabe, i 38 canti che costituiscono il corpo del saggio sono in endecasillabi.
In alcuni versi si troveranno parole interrotte da un trattino, che è servito per indicare uno “stacco” nella pronuncia di quella stessa parola.

Eccovi quindi l’“Anteprima della Stoffa dell’Universo”, un viaggio nella Storia in compagnia del risultato più complesso prodotto dall’Evoluzione qui, su questa briciola di Materia chiamata Terra.

Storia della specie e storia del Pensiero, dei loro punti di incandescenza sull’ascissa del Tempo, di un tempo, finora, brevissimo e, verosimilmente, ancora non troppo lungo, come per tutte le specie vissute e viventi.

Nino Di Paolo


Anteprima della Stoffa dell’Universo


INTRODUZIONE
Ode alla disobbedienza

Con il cuor disincantato ed assuefatto
di feroce consuetudine assassina
specular provo a esaminare il fatto
d’ogni evenienza a noi lontana o più vicina.

Tutti riempion la bocca prezzolata
nello spiegarci che fu l’11 settembre
il principiar di nuova era ingrata
cui dovremmo sottometterci per sempre.

Ma chi ingrassò li fondamentalisti
se non l’America, su per i monti afgani
per il sacro terror dei comunisti,
per contrastare i loro “bravi” piani?

È sempre quello il litio convitato,
lo scontro tra chi vuol l’altro spolpare
e chi sogna un mondo liberato
dai meccanismi che permetton di sfruttare.

Non che i sovietici avessero ’sto sogno
ma monopolio del marchio avean mandato
come Arlecchin, da S. Giovanni, o Zogno,
che di Venezia fu poi considerato.

Così ogni cosa per fermare i rossi
veniva buona, anche la tradizione
di gettare i nemici dentro i fossi
che non accettan la tua religione.

Or, quest’antica pratica guerriera,
solleticò gli arabici rampolli
ad aprir loro gloriosa nuova era
e all’Occidente far far la fin dei polli.

Il gusto del potere dominare
è la leva, non la religione
ch’è lo strumento per continuare
a far dei poveretti un sol boccone.

E come disse l’israelita di Treviri
simile è l’uso di fior papaverino
per confondere, senza troppi giri,
la mente d’ogni uomo, poverino.

Non che il bisogno d’una vita eterna
non sia reale, o che Dio non esista
ma l’uso abituale di obbedienza
fa perdere a ciascuno buona vista.




Don Lorenzo, maestro di liberazione delle menti, pubblicò, nel 1965, “l’obbedienza non è più una virtù”.
Cresciuti tra quello ed altri coerenti insegnamenti, non possiamo che rinnovarne la lettera e lo spirito.
Il millennio esordisce con una truffa, con tragedia, da duemila morti e tutto quello che gli viene appresso.
Gli argomenti per fare accettare alle coscienze gli scempi del suo primo decennio, che si è appena compiuto, sono gli argomenti di sempre, e non li elenco, che ognuno li conosce.
Si perfezionano le tecniche.


CANTO I
(Percepire e dedurre)

Voler spiegar in quattro stretti versi
epistemologia di conoscenza
riuscend’ a non pestar i pied’ a’ scienza
potrebbe dirsi opera da persi.

E quindi questo sforzo prov’ a fare
perché guardare dentro a lo pensiero
con spirito curioso vers’ il vero
è cosa vasta quasi quant’un mare.

Un mare di domande ti si pone
quando dentro la mente vuoi guardare
i meccanismi da verificare:
i frutti di compless’ evoluzione.

Qual fu la prima scocca di scintilla
che da gola uscì per dare nome
a quest’ a quell’ e poi chiedersi come
nel cielo della nott’ ogni astro brilla?

Che scherzo di genetica sia stato
in isolato gruppo di bestioni
uscir parola, non sgraziati suoni
più che domand’ è invec’ ormai un dato.

In verità non eran dei bestioni
ma la più debol delle specie apparse
la scimmia nuda di terre riarse
boccone per felin’ in corsa buoni.

Così si mosser poi per tutto ’l mondo
cercando territori più adatti
per non finire prelibati piatti
di chi volea pancion far bello tondo.

E collegando luoghi e racconti,
scambiandosi parole di concetto,
deduttivo pensier fuori di petto
espressero così, ormai già pronti.

Caus’ ed effett’ avevano scoperto
o sol immaginato, ma che ’mporta,
nuovo passaggio fecero stavolta
altr’ orizzont’ adesso s’era aperto.

Orizzonte che non sol d’esperienza
si pasceva, ma anche di domande
forti, leggere, incalzant’ o blande
pescate dal pensier come da lenza.




Come si fissò, in un numero sufficiente di individui di quelle specie di Primati che scorazzavano in Africa orientale, quel gene che permise l’apparire di un pensiero riflesso?
Era lo stesso gene che espone la specie ad una forma di leucemia assente negli altri Primati?
Fu la modificazione che spostò la collocazione delle ossa del cranio in modo tale da consentire l’uscita dalla bocca di suoni modulati?
Fu la stazione eretta?
Fu il pollice opposto alle altre dita?
Due o più di queste cause insieme?


CANTO II
(Ipotizzare e creare)

Dopo tanti enigmatici “perché?”
con risposte ch’eran forse verità
fissaron miti in fole fin’ a che
a trasformar provaron la realtà.

Con le man’ intrecciavano giunchiglie,
co’ rami se le davano di brutto,
l’erbe si rotolavan come biglie:
si chieser se giocar potean col Tutto.

Pietra dolce si miser a sgrezzare
con pietra dalla consistenza dura
attrezzi arrivaron a formare
con materia trovatas’ in natura.

Finché sasso che lascia giù colore,
rosso terra che non si cancellava,
stridendo si passò con gran rumore
su parete in pomice di lava.

Tal segn’ in forma di cornuto manzo
riconosciuto fu scrittura prima,
come segnale per trovars’ a pranzo,
meglio d’un gesto che ’l mangiare mima.

Lo scrivere così prendeva piede
per le necessità di comprensione
di piccoli insiemi, senza sede,
che delle cose si chiedean ragione.

Per le capacità dell’astrazione
e d’inventare sempre cose nuove,
in geometria, con mente da campione,
divennero teoremi con le prove.

Capacità d’intelligenze vive
ricchezza condivisa fu di tutti
perfin di gente dell’acume prive
ma che, studiando, colsero li frutti.

La cura di creativ’ intelligenza
s’esercita, dopo apprendimento
di metodo, perché non puoi far senza,
per non tornar con comprension’ a stento.

Della vita dialettica lettura
negata viene oggi con più mezzi
per render la cervic’ un po’ più dura
perché chiarezza venga fatt’ a pezzi.




Dal pensiero, le domande e la formulazione di ipotesi.
Ma come scoprire il reale distinguendolo da idee che non solo non lo inquadrano, ma che ne danno un’immagine totalmente falsa?
Ed i rapporti di quantità delle cose come son saltati fuori?
Dalla somma ai teoremi.
Dalla voce modulata al segno riconosciuto.
In che momento fu superato ciascun gradino?


CANTO III
(Sapere e potere)

Nell’occupar le lande della Terra
le bande dei magnifici bestioni
perpetuaron, con stridenti suoni,
l’innat’ impronta a farsi, ahinoi, la guerra.

Nei geni si portavano non solo
l’intelligenza, nuova dote bella,
m’ anche i retaggi, come una gabella,
d’abbatter avversari giust’ al suolo.

Gabella da pagar alla Natura,
retaggio d’una legge ch’imprigiona
per cui nessuna energia buona,
possa rinascer, legge molto dura.

Dunqu’ obbligat’ ad esser predatori
prigione per chi d’indole guerriera
non fosse, ma sognasse primavera,
sbocciar di ros’ e non portar dolori.

Chi aveva più virtut’ in forza bruta,
insieme con coraggi’ e spietatezza,
con crudeltà che ’l nostro cuor ribrezza
a lungo potestà fu mantenuta.

Poi chi s’accompagnò con la furbizia
la dote della muscolar potenza
più ancor comandò, facendo senza
d’assenso, ma giocando con malizia.

E quando le scoperte del sapere
dei pensatori d’intelletto fine
potevano tenerli sulle spine
riempiron le bisacce tutt’intere

perché così le pratich’ invenzioni
favorisser’ di più dominio saldo
per evitar che stesso maramaldo
di loro, li buttasse nei burroni.

Ma se i sapienti non eran disposti
a vendere la lor’ intelligenza
si impippavan del valor di scienza
e li buttavan negli stessi posti.

E fin d’allora dunque Conoscenza
a servizio supino della morte
venne cooptata, con meschina sorte
nonostante la su’ bella presenza.




Il pensiero riflesso, l’intelligenza non permisero solo di progredire, affinarono le arti bestiali dell’uccidere e del dominare.
In una specie sociale, poi…
…i migliori nella conoscenza potevano solo essere i migliori servi del capobranco.


CANTO IV
(De religione)

Gli uomini, come gli animali,
sapevan che la morte li prendeva
soltanto che, peggior tra tutt’ i mali,
angoscia di ’sto fatto rimaneva

nella mente, a ricordar che tutto
finisce e il bello della vita
ti lacera lasciare, soprattutto,
laddove la speranza sia bandita.

Speranza di ricominciar l’altrove
od ancor qui, il corpo rifacendo,
divenne desideri’ in ogni dove,
ovunque imponevasi credendo.

Ma fu così che nacque religione?
Dal bisogno di non lasciar morire
l’io cosciente che dà grand’emozione?
Dal rifiut’ orgoglioso di finire?

E rinascer toccava propri’ a tutti?
Oppur solo a chi, nello suo fare,
dalle capacità cacciava frutti
di merito e si facev’ amare?

Altr’ uomini, solenni mediatori,
tal domande conobber’ importanti
perorand’ improbabili favori
agli dei, per l’anim’ anelanti.

Ed un semafor piazzaron nel mezzo
del crocevia delle cattiv’ azioni
con le buone, e stabiliron prezzo
di salvezza, con precetti qual tuoni.

Parrebb’ un’ingannevole furbata
quella d’aver creat’ una morale
sì diversa da quella praticata
da interesse sol materi-ale.

Invece pure questo pose l’uomo
a distinguersi da’ progenitori
che senza scelta dovean, tomo tomo,
saziar fame marcata da’ languori,

sicché dei mediatori casta nuova
si creò, con quella de li signori
de’ forza, e fin’oggi si ritrova
influenza sull’anim’ e su’ cuori.




Il pensiero più ossessivo era quello del qual sorte toccasse dopo la propria personale fine.
La risposta più ovvia (“Nulla”) portava alla pazzia, una nuova sgradita e sgradevole compagna da cui girare al largo.
Ed ecco il fiorire degli esorcismi e degli esorcisti della morte, che andarono a stilare il tariffario delle vite future.
Fu bene? Fu male?


CANTO V
(Noi non siamo all’altezza)

Allor bruti, sapient’ e sacerdoti,
a volt’ insiem, oppur’ in aspra lotta,
tenevan tutti gl’ altri sotto botta
tarpando lor sviluppo delle doti.

Gl’impoverit’ o poveri, di forza,
di conoscenz’ e beni materiali
si fecero così schemi mentali
senza rango, ver’ quelli con la scorza.

Se ne convinser poi, fin’ a tal punto,
che pur essend’ in numero maggiore
non strappavan’ il velo del grigiore,
di negatività di tal’ assunto.

Credevan, ci credevano davvero,
l’immutabilità di situazione
“così fu sempre” er’ il tormentone
“sempre così sarà” fu ’l falso vero.

I secoli passavan lentamente:
“Il tempo non si cura dei mortali”
e manco cura li peggiori mali
soprattutto gl’ errori della mente.

Fu solo da battaglie disperate
a difender, per la sopravvivenza,
un minimo salario di decenza
si svegliarono l’anime sfibrate.

Ed anche qui necessitar campioni
che scrivesser teoria del necessario
a ridar ai poveri onorario
di dignità, e cuori da leoni.

Ancor, però, quel vetero vizietto,
che ai miglior’ in test’ alla legione,
toccasse star e, a dir cose buone,
rimisero le masse nel ristretto.

Gli sfruttati, avendo conosciuto
desiderio di novella civiltà
ed il lavor, sola necessitate,
pei bisogni e non per chi con fiuto

beneficiasse di spremuto frutto
di fatica continu’ e mal pagata,
riposero fiducia non filtrata
in caporioni che pappavan tutto.




La scintilla della rivolta si accende, comunque, di tanto in tanto, anche nel cuore degli animali del gregge, di chi appare gregge ma la cui natura è divina.
Quando si accorge di non essere di importanza minore del suo signore, esplodono violenza e dignità.
Poi, quando si riaffida a… tutto torna come prima.
Come il pulsare del cuore.


CANTO VI
(Babele)

Per cacci’ e pesca giravan lo mondo
e rincorrevan pred’ anch’esse vaghe,
percorrend’ il pianeta quas’ in tondo
spostavansi per fredd’ e calde plaghe.

Molti tra loro non si trovaron più
se non nel temp’ ad oggi più vicino
altr’ incrociaron, andando sopr’ e giù,
le proprie strade, nel cercar bottino.

Da specie, adattaron agl’ ambienti,
trasformand’ i caratteri comuni,
in sfumature, prima non presenti,
di pelle, d’occhi, peli biond’ e bruni.

Ma gran velocità di movimento
rispett’ al far, però, salti di specie
mantenne ferma, senza spostamento,
stessa unità di vita, invece.

Alcun’ alti, altri ben più piccini,
con crespa chiom’ o con lisci capelli
riconoscevan, quando ben vicini,
stessa matrice, genia di fratelli.

Un detto, coniato su a Milano,
afferma che l’amore de’ fratelli,
con energia, tutt’altro che pian piano,
simil sia all’amore de’ coltelli.

Così nuov’ abitudin’ e scoperte,
e lingu’ e vari modi di mangiare
distinsero, in evidenz’ aperte,
tutte l’etnie, sia qua che là del mare.

La specie, propagata cos’ in fretta,
e cos’ in fretta divisas’ in tribù,
in popoli riunit’ a mo’ di setta,
a intendersi, ahinoi, non riuscì più.

Questo raccont’ il mito di Babele,
anche se scritt’ è storia non diversa,
storia di dubbi, non di latt’ e miele,
la storia d’una strada sempre persa.

Avant’ e indietro, dunque, per tornare
a inizio del conto cominciato,
abbiam’ i nostri, pront’ a catturare
conigl’ e pesc’ in mondo complicato.




Se ne andarono dall’Africa e, trovando il freddo, affrontarono la sfida più epica che si possa immaginare: varcare la soglia delle temperature mortifere.
Sfida vinta, anche perché ci si accoppiava trecentosessantacinque giorni l’anno.
L’aspetto esteriore si modificò enormemente ma la specie mai si frazionò in varietà che potessero dar luogo a specie nuove.
Un solo uomo, dalle giungle di Papua alla City di Londra.


CANTO VII
(Civiltà stanziali)

Mangiavan non solo carni o pesce,
non solo erbe, frutt’ o semi sparsi;
cercandoli studiavan il da farsi
per procurarsen numero che cresce.

Alcuni, i più brav’ osservatori,
s’accorser, nel seguire le stagioni,
che li frutti, fosser’ amar’ o buoni,
a precisa cadenz’ erano fuori.

Dai semi che cadevano sul suolo
da’ cime delle piant’ e degli steli
si comprese, oramai senza più veli,
che dominar potevasi tal stuolo.

Lo stuolo di semenz’ imprigionate
permise di fermars’ a coltivare
non esser obbligat’ in terr’ e mare,
a cibarsi di prede catturate.

E ’nsiem’ all’arte di coltivazione
ripari certi serve costruire;
per vincere lo freddo, per dormire,
sorser capann’ a loro protezione.

Poi baracche, e case di mattone
quando la terr’ in forni venne cotta,
per scansare con belve fiera lotta
per evitar con lor’ ogni tenzone.

Le prime forme di piccole città
costituir reticolo novello
d’intrecci, a creare lo suggello
a scambi di prodotti, in quantità.

Ma i frutti di terr’ e di lavoro
facevan gola a chi, senza fatica,
non seguiv’ il germogli’ e poi la spica,
e ’l traino dell’aratro con lo toro.

Di qui nuove battaglie tra gl’ umani
a predar ciò ch’è stato costruito
con stento, nella tram’ e nell’ordito,
a riempir le saccocc’ a piene mani.

Sorser Regni e già piccoli Stati
con leggi adatte alla bisogna
per evitar la grav’ e somma rogna
d’esser vinti ed infin conquistati.




Quando si scoprì la generazione delle erbe eduli dai loro semi (ed in quanti e quali punti della Terra la scoperta fu simultanea?) le tribù che vi erano arrivate diversificarono l’approvvigionamento del cibo tra quello cacciato e quello coltivato, non solo raccolto.
Ecco i villaggi e le prime città, per meglio attrezzarsi dalle predazioni dei frutti d’un lavoro.


CANTO VIII
(Dai regni agli imperi)

Chi visse nelle più fitte foreste,
in isole di poca dimensione,
conciliar non doveva troppe teste
o trar moltitudini a ragione.

Ma chi, tra quelli che, con la violenza,
aveva raggruppato gent’ e terre
chi avea sottomess’ a sua potenza
i popoli, a seguito di guerre,

sempre più vasti territori prese
per ricavar ricchezze naturali
o agricole, ed a farne spese
fur quelli a cui tarparono le ali.

Costoro furon schiavi per decine
di secoli, con loro discendenza,
finché di quegl’Imperi fu la fine
fin’ a che ’l tempo tolse la licenza.

In territori nacquero gl’Imperi
in cui agricoltura consentiva
moltiplicar granaglie con più zeri
e civiltà crear sempre più viva.

Attorn’ ai fiumi d’acque limacciose
che pianure creavan’ assai vaste
immense civiltà la stori’ espose
in cui a dominar eran le caste.

Caste di re, di sacerdot’ e dotti
piramidi sociali strabloccate
disegnaron, dividendo a lotti,
privilegi che s’eran procurate.
Mesopotami’ Egitto, fiume Giallo
furon esempi d’organizzazione
come pollai, ove non c’è un sol gallo
ma gira quasi tutt’ a perfezione.

Mettend’ in trono un imperatore
che quasi non potea toccar se stesso
il popolo dovea, con fals’ amore,
prostrars’ a terra, con il far da fesso.

Venne però momento per coloro
quando la coincidenza batt’ il colpo
il terminar gaia età dell’oro,
come sul molo vien battut’ il polpo.




Nell’elica disegnata da Pierino Zanisi appare il ritmo di espansione-contrazione delle forme di dominio umano organizzato.
Raggiunto un apice, l’espansione è preclusa c’è solo contrazione.
Ciò che si espanderà di nuovo sarà, appunto, nuovo.
Sarà un’altra cosa.


CANTO IX
(Ebrei e greci)

Da questa norma comportamentale
del venerar un capo semidio
il cui rifiuto generava fio
si staccaron due genti, meno male.

Le sponde di quel mar d’azzurro vivo
che “nostrum” fu poi detto da’ Romani
videro lì non sperimenti vani
ma modi, simil’ in principi a ’n rivo.

Due modi fra loro anche diversi:
uno che nessun bimbo fosse tolto,
l’altro che per decider fosse molto
il numero dei sì, con conti tersi.

Du’ cardini di mente d’oggi nostra:
difender vita quanto debol sia
ed il contarsi prima ch’ ogni via
venga presa facendo propria mostra.

Il popol che veniva dai du’ fiumi
seguendo l’obbediente padr’ Abramo
ch’ ai suoi aveva detto: “Dunqu’ andiamo
a coglier doni grand’ e non sol grumi”,

e quello che le isole più belle
dell’Ellade avea colonizzato
e stessa lingu’ ovunqu’ aveva parlato
con città che mai erano ancelle

furon padre e madr’ in quelle cose
che noi teniamo care, di valore
come gioielli che ci stann’ a cuore,
d’asconder negli scrigni delle spose.
Non fu facil inver neppur per loro
affermare ’ste forme novative
che d’ostacoli mica furon prive
prima del luccicar, a par dell’oro.

Chè pure nella storia degl’ Ebrei
un re, che temea per la poltrona,
per la tenuta della su’ corona,
fec’ uccidere bimb’ affatto rei,

e nella geografia di Mondo Greco
sol in Atene, punta di diamante,
il voto si fu cosa importante
tra liberi, non per gli schiav’ in spreco.




La novità, appunto.
La protezione per principio di ogni bambino, l’importanza della sua salvezza, negli Ebrei.
Quell’acquisita consuetudine che fece rimarcare ancor più l’ottusa eresia di Erode.
E lo Stato senza Re, in Atene: il governo del voto.
Anche se solo per i liberi, però.




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