La collina di Pachum

di

Nino Latino


Nino Latino - La collina di Pachum
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 146 - Euro 10,50
ISBN 978-88-6037-5155

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In copertina e all’interno disegni di Dario Latino.


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario «J. Prévert» 2007.


Prefazione

È sicuramente vero che i ricordi fanno parte del nostro passato, ma è pur vero che questi rivivono dentro di noi, ci arricchiscono il quotidiano e contribuiscono a formare quello che siamo oggi e che diventeremo domani. Essi nel tempo assumono varie sfaccettature, che si possono concretizzare in un odore, in un sapore, in un’immagine, in un suono o semplicemente in una sensazione.
Quando poi i ricordi sono legati ad un’infanzia semplice e spensierata, tutto assume un colore ed un calore particolari.
Si delineano i tratti di un’esistenza serena, proprio perché legata ad un passato che è tale.
Come i ricordi, anche le tradizioni sono fondamentali, esse fanno in modo che un uomo si senta legato a qualcosa, faccia parte del mondo che lo circonda e viva il proprio presente ancorandolo a dei punti fermi, senza i quali niente avrebbe più significato.
È attraverso un processo fatto di ricordi e di tradizioni che il narratore ha voluto in un certo senso ripassare la sua vita, colorando il proprio passato con tutte quelle sensazioni che ancora oggi lo rendono così vivo da sembrare presente, così caldo da sperare che sia anche futuro e così colorato da desiderare che resti sempre a tinteggiare la sua esistenza con i colori del sole, del mare, della terra, del cielo, dei caseggiati e a stuzzicarla con tutti quegli odori che inebriarono la sua vita di giovane.
Questi ultimi sono tanti e talmente ricchi che si rincorrono nella sua mente in un susseguirsi infinito ed indefinito.

Una collina a vigneti, un castello dorato con uno spropositato stemma, una piazza misurata a sarme e dei caseggiati che, nella fantasia diventano castelli medievali, dove il Principe di Villadorata del paese di P e della Val di NO, al di sopra dei mustazzassalli, dei varbassori e massarsini ricorda la vecchia gerarchia, coinvolgendo il narratore a mischiarsi e vivere con loro in quel tempo.
I personaggi veri, ma a volte fantastici, si muovono assieme ai bardotti, ai muli e agli asinelli, quasi sempre maltesi, comprati alla fiera di mezzagosto.
I re e i papi, sono inseriti in uno schema ben definito e determinato, con avvenimenti che l’attento lettore saprà cogliere passo passo; mai inadeguati e tanto meno inopportuni.
Non mancano i riferimenti storici e letterari. Tra i personaggi menzionati, spiccano le figure di Federico II di Svevia e di Dante Alighieri che impersonano le figure che il narratore incontra vicino l’uscita della grotta del Monaco. Dante, sommo poeta, durante la sua vita era rimasto affascinato dalle suggestive bellezze del paesaggio dell’antico “Promontorium Pachyni” e ne decantò le bellezze nella Divina Commedia, dove scrive: “E la bella Trinacria che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo, ma per nascente solfo…” (Divina Commedia, Paradiso, Canto VIII, vv. 67-70)
Molti i nomi, anche dei paesi, che restano celati. Tutto a significare che poco importa come si chiamino un personaggio o un luogo, l’importante è che questi riescano a trasmettere qualcosa che vada al di là della propria fisicità.
La raccolta dell’uva, la mattanza dei tonni, gli antichi caseggiati sulla collina, o più semplicemente la vecchia che opera le galline, tutto assume un significato carico di colore e di passione.
La seconda parte si concretizza con una narrazione metafisica che rientra nel fantastico e che trasporta il narratore in una dimensione surreale, ricca di particolari che evidenziano una conoscenza che gli permettono una padronanza di lessico e di contenuti non indifferenti.
Si passa da una narrazione fatta di ricordi e sensazioni, ad una narrazione fantastica, frutto di una immaginazione ed una fantasia che riescono ad andare oltre l’impensabile.
Ed ecco che appaiono figure come quella del Divinangelo, che ricorda la Nike di Samotracia, per mano della quale, il narratore, viene preso e catapultato in un mondo fantastico, fatto di illimitate radure, spropositate megacostruzioni, sconfinate dogane interstellari, magazzini colmi di anime dove, con carte bollate celestiali, egli presenta l’estratto conto dei pensieri.
Si trova così a scontare la pena nella piramide a centrifuga temporale che sprigiona il fumido centrifugato.
Volendo tirare delle conclusioni, questo libro potrebbe intitolarsi “il magazzino dei ricordi” proprio per la sua capacità di contenere una così vasta quantità di pensieri e sensazioni da dare l’impressione di un luogo in cui conservarli, custodirli, al riparo da tutte quelle influenze esterne che ne contaminerebbero la purezza. È così ricca e vasta la narrazione, che leggerlo fa venire la voglia di leggerlo ancora e poi ancora, divorando d’un fiato i capitoli, senza rendersi conto di arrivare alla fine.

Magda Latino


Nel romanzo “La collina di Pachum” Nino Latino inizia un percorso narrativo partendo da un recupero memoriale che riporta alla luce la Sicilia “vera” con il suo patrimonio, le sue tradizioni, i quadretti tra folclore e antica civiltà irripetibile, regalando ritratti di personaggi che riportano alla vita d’un tempo, alle sue gerarchie, alle vicende storiche d’una terra meravigliosa. L’Autore si tuffa poi in una narrazione fantastica accompagnando il lettore in una dimensione irreale che riporta ad un cammino dantesco.
Nino Latino sprigiona tutta la sua creatività e l’immaginazione vola libera eppure non dimentica di preservare lo scrigno aureo delle esperienze che hanno plasmato l’Uomo, la sua vita, il suo “essere”: come a ergersi difensore della “coscienza di sè” oltre la visione fantastica, oltre il tempo, oltre la parola.

Massimo Barile


Considerazioni


Considerazioni di M. Rametta

Interessante e composito testo fatto di ricordi, storia e schemi; ma forse ogni nostro bilancio della vita potrebbe essere rivisto attraverso questi tre elementi.
Il testo differenzia chi governa da chi è governato, illustra con vari e articolati esempi la durezza del lavoro e la fermezza di una società passata ma che nasconde valori forse universali.
Saggio particolare, volto al recupero di un patrimonio folcloristico e culturale di notevole spessore, che, attraverso un racconto che si snoda in uno spazio ben delineato nel suo insieme, culmina in una narrazione metafisica-surreale di buon effetto descrittivo, ma che ha il pregio di restituirci una terminologia ed un vocabolario siciliano da riconsiderare alla luce di nuovi studi sul riappropriamento del dialetto siciliano nelle sue varie sfaccettature logistiche e culturali.

Michele Rametta
(Scrittore e critico letterario)


Immàgini del prof. Albino Trigilio
Parere sintetico relativo alla lettura de La collina di Pachum di Nino Latino

Nella prigione della memoria, la libertà creativa fa fiorire un giardino vasto dove, il sole e la tenebra si succedono in arcane armonie, che possiamo chiamare poesia.

Albino Trigilio
(Pittore)


Considerazioni di Nelly Traina Belli

Fin dalle prime pagine si percepisce l’impegno certosino che lo scrittore ha profuso per poter descrivere i profumi, gli ambienti, i personaggi e il romanticismo di un tempo che ormai non esiste.
Da piccolo assorbiva gli odori, da ragazzo ha gustato i sapori, da giovane ne ha scoperto gli umori. Incontro poi al suo nuovo destino, ne ha conservato i ricordi e un rimpianto nel cuore che lo hanno indotto a trasmettere ad altri i propri sentimenti e le proprie emozioni.
È restìo a tornare nei luoghi della sua nostalgia, consapevole che il presente lo deluderebbe perché non esistono più le tradizioni che lo hanno ispirato ad un elaborato lavoro di ricerca, tale da far si che il tutto si esternasse nelle minuzie di un racconto interessato ai particolari, gradevole a volte divertente ma sempre rigoroso. Il lettore si scopre non soltanto affascinato ma anche e soprattutto interessato alla precisione, dovuta ai tempi lunghi della ricerca.
C‘è poi la parte onirica, dove si muove con altrettanta disinvoltura da far sembrare semplice anche l’avventurarsi nei meandri dell’irreale.
È difficile soprattutto il sapersene districare, ma lui alla fine riesce a superare le barriere della realtà, ben lontana dalle fantasie struggenti di adolescente appassionato e sentimentale.

Nelly Traina Belli
(Poetessa)


Recensiòne del Prof. Giuseppe Messina

Egr. sig. Latino, la ringrazio per la cortesia con la quale attraverso il prof. Alcalà mi ha fatto pervenire copia della sua opera. Mi congratulo con lei per il meritato premio letterario che le è stato conferito.

Il suo lavoro è fatto di schizzi, scenette, quadretti, ritratti composti con policrome, abili pennellate. Così “Nel caseggiato del nonno”, nella “bizzarra confusione di utensili, stanno insieme arnesi e finimenti per gli animali, “maiddi e maidduzzi”, vecchie armi e una figura umana, quella del nonno (“un uomo che mi sembrò basso e largo, avanti con gli anni, ma che non esprimeva nessuna età...”), tutti cospiranti all’unità armonica del quadretto.
Un altro grazioso quadretto è “Nel cortile”, un cortile con animali e uomini variamente affaccendati e una casa patrizia con il suo bravo stemma, descritto con efficacia espressiva.
Qui il dottore, “quello buono dei ricchi”, è raffigurato con sobri e precisi tratti di penna, bastanti a fare emergere l’immagine di un modesto medico paesano, accuratamente abbigliato. Dopo aver dato prova delle sue capacità professionali, se ne va, “mostrando il suo viso intelligente da dottore”.
Esemplare di uno stile personale di composizione letteraria mi sembra “I falò”, sorta di rito campagnolo, oscillante tra il mistico e il festoso, rito che, tempo fa, si celebrava anche ad Augusta (a ‘pampanigghia’).
Qui il passato e il presente, il magico e il reale appaiono come fusi insieme. “Spuntavano i primi cavalieri, tutti adornati e spavaldi sui destrieri bardati e impennacchiati. Portavano i segni distintivi del proprio casato, tutti impettiti sotto la corazza, armati di mazze, alabarde, archi e faretra piena di frecce variopinte a tracolla”. Un tocco magico ed ecco la Madonna, “il viso smarrito e lo sguardo come cercasse” qualcuno: il figlio suo, Gesù, impersonato da un giovane che “portava la barba lunga e aveva vistose ferite, ora sanate pi’ miraculu e sulla testa una corona di spine”. A completare il quadretto sono il Principe con la Principessa e i cavalieri del torneo.
Rappresentato è un mondo che non è più, fantastico, eppur reale, rifatto vivo nella finzione scenica del rito; destato dal sonno secolare dalla magia della letteratura. È la tradizione che, se vera, è passato vivente nella memoria degli uomini.

Giuseppe Messina
(Scrittore)


Parère del Prof. Antonino Tringali

È difficile definire “La collina di Pachum” di Nino Latino.
Un libro di ricordi dell’infanzia spensierata dell’autore? Un libro che segna il netto confine tra il mondo contadino e la nuova realtà dei paesi della Sicilia orientale? Un libro autobiografico o una miniera di spunti novellistici? Un libro identificabile cronologicamente o la descrizione di tradizioni senza tempo? Un libro in cui i richiami dialettali servono a dare colore o in cui i termini dialettali sono insostituibili ai fini della identificazione di un mondo e di una società nella quale folclore, tradizioni e valori non sono immaginabili fuori dal dialetto?
Alla base della narrazione di Nino Latino c‘è un mondo arcaico, dove, ai colori solari della natura siciliana, si contrappongono la fatica e il sudore che debbono affrontare uomini e animali per sopravvivere.
Viene da pensare a Verga. Il mondo su cui si snoda la narrazione è lo stesso; ma, mentre in Verga dal mondo contadino si sviluppano novelle e romanzi veristi, in Nino Latino dal mondo contadino si sviluppa il racconto metafisico, con personaggi sospesi in una dimensione atemporale.
Solo apparentemente il libro è diviso in due parti: la prima descrittiva dei luoghi, degli animali, delle persone, dei mestieri, delle tradizioni dell’infanzia dello scrittore; la seconda fantastica, culminante nel racconto del Divinangelo, l’angelo scolpito sulla tomba del padre, che acciuffa lo scrittore per i capelli e lo conduce in un volo immaginario attraverso le galassie.
Infatti, sia nella prima che nella seconda parte, il ricordo non è mai statico, ma è arricchito dal dinamismo di una fantasia che crea personaggi realistici o metafisici.
Per questo il libro si legge, come dice Magda Latino nella prefazione, “divorando d’un fiato i capitoli” e senza che ci si accorga del passaggio dalla descrizione realistica agli spunti novellistici e al finale fantastico.
La memoria è infatti lo spunto, ma il libro è fondamentalmente un’opera di grande fantasia.

Nino Tringali
(Letterato)


Impressiòni del Prof. Benedetto Alcalà

Visioni, odori, profumi intensi e duraturi da provocare stordimento, da far scoppiare le narici. Un paesaggio reale, pieno di movimento con figure reali e immaginarie. Personaggi veri della sua infanzia tirati fuori dalla polvere del tempo, di un medioevo lontano e forse non tanto lontano. E poi l’assolato e paziente estremo sud. Campi da coltivare e mare.
Latino si appropria della sua infanzia e la rivive. Un viaggio in compagnia dei suoi affetti a cui rimane fortemente legato. Una grande nostalgia velata di malinconia cammina insieme a lui.
Realtà e sogno vissuti dal Latino che piacevolmente si armonizzano.
Costumi, colori, dimensioni, uomini, animali e cose espressi da un linguaggio spesso esagerato al solo scopo di renderli ancora più credibili e indimenticabili.
Un linguaggio antico, libero da compromessi stilistici e che fa stile.
In realtà, dietro a tutto questo, c‘è un grande entusiasmo del Latino, persona di fervida fantasia, cercatore di pietre antiche per diletto, per godere di quello che è stato, per coglierne il messaggio.
Dalla grotta di Calafarina, alla ricerca del padre, nel paese di Agosta e in compagnia del Divinangelo in viaggi spaziali e ancora luoghi, colori, materiali, dimensioni e un viaggio verso il giudizio finale che travalica ogni fantasia.

Benedetto Alcalà


Commènto di Santo Ferreri

È uno scorrere di sensazioni che, dalla prima all’ultima parola, alla fine di un processo di condivisione e seguente elaborazione, mi hanno portato a capire: è una autobiografia del sentire e del sentirsi. Il passato, le tradizioni, i personaggi, anche di fantasia, la visione quasi onirica della realtà, quel finale così detto metafisico, non sono altro che un necessario rendiconto, entrate ed uscite, del bene e del male, al fine di “liberarsi raccontando”, per formulare una più obbiettiva e onesta valutazione finale Così l’ammirazione per il padre e il vago senso di colpa nei suoi confronti; la castellana medioevale; il fetido traghettatore di cadaveri; il ladro di pietre, gli amici e il limbo di due secoli accanto al corpo dell’amico, lo portano a tirare le somme in un bilancio finale e consapevole. Anche di quella parte di negativo che, unitamente ai meriti e ai comportamenti, ci contraddistingue nella nostra individualità, ma che accetta, con la scelta più coraggiosa dell’espiazione, in linea col suo forse, il proprio carattere e orgoglio.
Il tutto è sentito con l’intensità gioiosa, ma sempre diversa, che nasce da quel lembo di terra, tra il mare e i contrafforti degli Iblei, battuta dallo Scirocco e dal sole cocente, che ha formato quella stirpe di uomini pazienti ed eccezionali come Latincurrau e, posso ben dirlo, Latineddu.

Santo Ferreri
(Scout)


Lettera del Prof. G. Vincenzo A. S. Caracciolo

Caro Nino, ho ricevuto la tua lettera con la quale spedivi una copia del tuo dattiloscritto. Non posso fare altro che congratularmi per il tuo “componimento” e per questo apprezzamento sarebbe bastato l’impostazione o programmazione perché hai costruito, hai modellato l’uso delle parole meno comuni.
Io non mi sono posto di fronte al lavoro per criticarlo, ma per giudicarlo, nel senso buono cioè, per verificarne l’impatto non solamente con la ragione, ma anche con il sentimento. È stato per me come il medioevo di una vita, conservato in lastre fotografiche “sensibilizzate” da immagini e figure, da uno spirito obbiettivo. Fotogrammi non selezionati, ma tutti eletti a preservare ogni cosa dalla cenere vulcanica della vita che non è sempre degna di essere cantata dal menestrello. Ho cercato di spolverare le mie diapositive per un confronto leale e tante cose sono venute alla luce anche per me; non tutto però è condiviso su vie parallele.
Dall’antichità dei ricordi viene fuori un modo di organizzare il discorso e il segno in maniera “moderna”. Non si può prescindere dall’evoluzione. È anche realtà virtuale che rende quasi concretamente percepibile la fantascienza della fantascienza.
Mentre ti abbraccio fraternamente ti invio gli auguri di un’altra produzione.

P.S. Sono attualmente privo di copia del mio “romanzo”; appena ne appronterò una, te la manderò.

Giovan Vincenzo Angelo Sebastiano Caracciolo
(Scrittore)


Parere di Antonio Quattrocchi

Nino carissimo, ho avuto l’appagante piacere di leggere il tuo racconto ed è con altrettanto piacere che ti esprimo i miei infiniti elogi e i più sinceri complimenti per la cura con cui hai saputo illustrare (e dottamente mascherare) determinate situazioni a noi care e foriere di antichi ricordi.
L’ambientazione spaziale e temporale è stata volutamente rappresentata in maniera indefinita e indefinibile, ancorché taluni acronimi adottati lasciano facilmente trasparire l’origine del paese di P; il borgo di MA; il paese d’Agosta, ecc… Ricco di originalità è anche il periodo scelto per ambientare il racconto (tra il 1400 e il 1600), periodo in cui il protagonista girovagava, alla ricerca del padre imprigionato, per i paesi siciliani, sfuggendo anche all’angelo della morte.
Ho potuto appurare che lo scritto è fondamentalmènte strutturato in due parti: la prima, descrittiva di luoghi e situazioni reali, raffigura personaggi reali della vita contadina; la seconda, viceversa, più fantastica, comprende inverosimili rapporti del protagonista con personaggi dell’aldilà.
Ho trovato, nel terzo capitolo del tuo pregevole racconto, la fedele riproduzione dello spaccato tipico della condizione del contadino siciliano (senza tempo) (potrebbe essere la stessa condizione vissuta nel ’400, così nel ’600 e fors’anche nel primo ’900). ...Un casamento vecchio e screpolato, più che vecchio antico… L’insieme di case accostate a “U”, tanto da formare all’interno il “curtigghiu”, all’interno del quale si muovono caratteristici personaggi, quali: Foculeggiu, Ncancà, Zaddia, a Gniura, Donnacuncittina, Causilenti, a Boscimana, Donnangilinameli, Donnavannacoppa, Latincorrao (padre del narratore), artigiano della pietra, specializzato nella creazione delle mole per le macine da mulino).
In maniera altrettanto caratteristica sono stati collocati i ricordi scolastici del narratore: il maestro Garrano, alto, magro, con il viso allampanato e i compagni di scuola che, al finire delle lezioni, riprendevano i loro lavori di apprendista, come u carcararu, u ciaramiraru, u cufinaru, u varberi e scipparenti.
Altamente realistica, hai riprodotto la figura del dottore di visita a Donnacuncittina: vestito di rosa chiaru con cappello bianco e bastone di canna di bambù, che al termine ritorceva gli occhi e diagnosticava: “l’ammalata non potendo scoreggiare soffre e deperisce” e prescriveva un purgante.
Sublime, da ultimo, è la rappresentazione dell’aldilà, confinata ed imprigionata dalla “burocrazia celestiale”. Dietro un rappresentativo cartellone riportante la scritta: MAJAZZé DELLE ANIMESANTONI E BOLLI CELESTIALI, si rivela la certezza che la giustizia non è di questo mondo e neanche di quell’altro. Dal conto fatto in carta bollata dal Divinangelo, emerge, infatti, che per solo due anni di differenza, il protagonista sconterà una pena esagerata per i suoi miseri peccati.
È proprio vero, caro amico scrittore, che a volte la fantasia prende più di uno spunto dalla realtà...
Con profonda stima e ammirazione

Antonio Quattrocchi


Osservazioni del Dr. Ercole Leonardi

La collina di Pachum è una raccolta di descrizioni e racconti riguardanti la vita antica degli abitanti del territorio del paese di P. Viene dettagliatamente riportata tutta la gerarchia sociale: il Principe di Villadorata, i Mustazzassalli, i Varbassori, i Massarsini “‘u Cleru” etc., sino ai Militi e “‘u populu utti e vinu”.

Si ha la sensazione di vedere gli antichi caseggiati di campagna con i cortili brulicanti di vita, di lavoro, di bambini e di animali, le strade sbiancate dal sole, la vendemmia e la vinificazione, il mare, la spiaggia e la tonnara!

I personaggi come Carlucciu “‘U. Varberi” e Foculeggiu il falegname tuttofare, ci ricordano gli artigiani e le botteghe di un tempo, che non vedremo mai più.

Il linguaggio ingenuo ed essenziale è traboccante della nitidezza e del candore propri del linguaggio poetico. Le scene descritte ci consegnano le parole, i balbettii, le voci, i suoni e i canti di quelle donne e di quegli uomini incatenati alla terra e al mare. Il viaggio del carretto trainato dall’asino bastonato rende tutta la spensieratezza e la durezza di quella vita. Le sensazioni suscitate dalle parole dello scrittore producono emozioni al limite della immaginazione.

Il libro rappresenta una risorsa per chi voglia conoscere più da vicino la storia dell’organizzazione sociale, del linguaggio e della cultura degli abitanti del territorio sud-orientale della Sicilia.

L’avventura fantastica nella grotta di “Calafarina” richiama il viaggio mitico dell’uomo nelle viscere della terra al fine di meritare la luce della conoscenza. Per superare le difficoltà e le paure egli è armato soltanto delle virtù della fede e della speranza, ma alla fine, novello Ulisse, si spinge al di là delle colonne d’Ercole e novello Dante riesce a riveder le stelle.

Ercole Leonardi


Apprezzamènto di Luciano Di Blasi

L’esordio interessante di questo testo, lo schema denso e inusitato, con una scrittura scorrevole in ciascuno dei suoi capitoli che, certamente, a voler fare uno accostamento, la vena poetica e descrittiva del nostro narratore, si può paragonare a quella di Miguel de Cervantes. Vuoi per l’impronta dei capitoli di realismo, vuoi per la narrazione di accadimenti e fatti, vedi: “‘a Gniura, portava una specie di veste a fiorellini, lunga fino ai piedi tutta merlata di sotto, non portava le mutande e pisciava in piedi.” Oppure, “‘a Zaddia, con gesto cauto e sicuro infilava la sua secca mano dentro la pancia della gallina, ne tirava fuori l’ovu sbutatu e preso l’ago, già preparato col filo nero, incominciava a cucire senza dolore alcuno”. E anche, “Il cane Frizzi un cirneco del Mongebel, ‘n cani cacciaturi di grande pregio che andava a cacciare da solo nelle pietraie dei Cugni, dove stanava dei grossi conigli che poi, con quella fame che correva, mangiavamo avidamente appena abbrustoliti nella brace improvvisata”. Immagini di notevole spessore che ci fanno recuperare valori della vita.
Questo saggio chiarisce certi “loghi”, dove non si potrebbe arrivare con la sola immaginazione. Sicchè diventa, all’improvviso, illuminante per la comprensione di quel tempo.
Pregevole la narrazione surreale degli ultimi capitoli, dove, il narratore ci fa registrare sensazioni del subcosciente, con immagini d’aria e di atmosfera.

Luciano Di Blasi
(Pittore)


Parere di Jone D’Angelo

Apprezzo la tua opera per il linguaggio dolce ma vigoroso, ricco di particolari nella scorrevole lettura.
Descritti con efficacia realistica: il ladro di pietre, il nonno etrusco, lo zio Carlucciu “u varberi”, la mattanza dei tonni, il cane Frizzi, il Divinangelo…
Un libro che, dopo averlo letto, viene la voglia di rileggerlo ancora per assaporarne gli avvenimenti, i colori, le immagini.
Saggio individuale, dove è evidente l’impegno profuso nella creazione e nella ricerca.

Inusitato è il sistema nell’organizzare e nel programmare i vocaboli, spesso non comuni e i periodi, tutti concatenati in schemi e tabelle, che mostrano, in maniera anche irreale, i ricordi dentro il medioevo e la gerarchia del Principe di Villadorata della Val di NO, che rendono la carta stampata di una pregevole lettura di carattere logistico e culturale.

Jone D’Angelo


Recensiòne di Salvatore Latino

Il ricordo ed insieme la voglia di rivivere momenti molto carichi di vita semplice e faticosa riempiono il libro di Nino Latino, mentre i sentimenti, anche contrapposti come l’odio e l’amore, sono vissuti con profonda intensità.
E chi non è stato mai un eroe lo diventa nel ricordo di chi oggi è vivo e lo consegna, per certi aspetti, alla storia.
Il mondo narrato dall’Autore è permeato dalla fatica e dalla miseria, due aspetti che marchiavano la vita di tanti allora, ma che nel contempo fornivano la forza per continuare la lotta della vita, forza che sembra oggi non esistere più. I ricchi erano ricchi, tronfi di sé e distaccati dall’uomo della strada, come anche oggi avviene; ma coloro che erano poveri economicamente non lo erano umanamente perché non erano mai soli.
La riflessione cui ci porta l’Autore nel suo libro ci impone una verifica nel nostro modo di vivere. La comunanza degli interessi e la dimensione del consortium facevano dei poveri coloro che potevano ben sperare in un domani migliore. La dimensione del concetto di bene comune permeava la vita e l’azione dei nostri padri che ben sapevano come insieme affrontare le difficoltà quotidiane.
Forse rivivere questi momenti di un tempo ormai passato ci potrà far riflettere sul futuro che stiamo creando per i nostri figli. Prima c’era la speranza di “forse” migliorare. Oggi spesso non ci rimane neanche il “forse”.

Salvatore Latino
(Ispettore C.C.)


Impressioni di Giovanni Bruno

Esprimo, se pur con semplici e poche parole, immensa ammirazione per l’impegno e la costanza che Nino Latino ha impiegato nel comporre il suo racconto “LA COLLINA DI PACHUM”.
È emozionante rivivere tanti ricordi attraverso la memoria di un adolescente e Nino Latino è riuscito in questa sua opera a far rivivere al lettore proprio queste emozioni, arricchendole con le fantasie tipiche del modo di vedere la vita che può avere solo un adolescente.
Accurato è anche nell’accenno storico di antichi mestieri e nella valutazione del dialetto siciliano che arricchisce la cultura storica della nostra regione.
Incredibilmente fantastico, reso reale, il suo viaggio attraverso gli spazii siderali che danno un senso della vita e dell’eterno.

Giovanni Bruno
(Pittore)


Impressiòni di Andrea Durante

Un’opera complessa, con intrecci di racconti, emozioni e fatti vissuti, dove storia e storie s’intrecciano.
Un’esperienza letteraria la cui comprensione può risultare difficile al primo impatto, ma che sicuramente riserva sorprese al lettore.

Andrea Durante
(Critico letterario)


Giudizio della professoressa Patricia Martignon

Leggere il libro del signor Latino è stato come fare un tuffo nel passato, in una Sicilia scomparsa.
All’inizio i capitoli si susseguono con molte descrizioni minuziose di personaggi, animali, luoghi, con una bravura quasi Balzacchiàna dove nulla è trascurato, il tutto puntualizzato dal siciliano che viene a colorare il racconto.
Siamo immersi assieme al protagonista nel ventre della terra, in uno spazio atemporale, in un racconto fantastico, surreale, nel quale, dopo aver errato per un tempo indefinito, un rospo gigante ci indica la via d’uscita.
Ci ritroviamo infine in alcuni gironi danteschi senza accorgersene.
Il finale è eclatante. Siamo acciuffati dal “Divinangelo” e voliamo nelle galassie interstellari assieme a “Latineddu”, proiettati in un’altra dimensione.
Vorrei approfittare di quest’occasione per ringraziare il signor Latino, nonché il nostro vicino di casa di campagna, per i suoi preziosi consigli che ci ha sempre prodigato. E soprattutto dirgli Grazie per questo splendido viaggio, a quando il prossimo?

Patricia Martignon
(Docente Università di Catania)


La collina di Pachum


CAPITOLO I

1°A FORTE ODORE DI MOSTO

e vinacce di uva maturata: marsigghiana nìura1, marvacìa dùci2 e gentile; palmènti ricolmi di uva bianca e nera; folate di vento d’autunno misto a vociare di ciurma e massari3. Vigneti tutto intorno e ancora forte odore di mosto che stordisce; mosto scuro di uva lasciata a macerare, separato da quello bianco di uva zuccaja; profumo dolciastro di uva pigiata, odorosa e pungènte; graspi pestati dei giorni precedenti e ancora mosto di uva nnaccaredda4 e passulara5 per vino pistammutta6. Vinacce lasciate a impregnare con mosto per vino ventiquattròre e graspi imbevuti con mosto per vino quarantottòre. Tinozze con mosto per vino scuro, per vino chiaro, rosato; mosto per vini da tagliare e ancora mosto chiaro senza vinacce per vino limpido, trasparente e mosto per vino cerasuolo misto a racinedda7 selvatica da vitigni senza innesto. Mosto dorato e profumato, ricavato da uva muscateddu8 di Barracchinu e uva zibibbo, dolciastra, gustosa e aromatizzata. Odore di mosto già riposato di uva ‘nzolia9, chiaro. Profumo di vino dell’anno precedente per la ciurma e ancora odore di vini misturati con decotti e aromi.
Odori sempre più forti, più inebrianti, più pungenti che stordiscono di uva trebbiana, grossa e con acini bislunghi: bianca zuccaja e nera canajuola. Odore di vinacce messe a mucchio, pronte per distillazione di grappe e alcool; mosto che fuoriesce dal torchio da uve pestate, pressate; mosto che scorre in barili e tinozze; mosto che, attraverso canali e canalette, si insinua dentro fossi sotterranei per fermentazione di vini sècchi e forti. Uva di color rosa chiaro di Turrinanuovi e ancora uva di tutti i tipi, dentro e fuori il palmènto e negli altri palmènti, sui carri, ne’ cruveddi10, sui bardotti, sugli asini e muli, sulla mia testa, su tutto il corpo e soprattutto dentro il mio naso.

CICLU RO’ VINU11

Per tutto il viaggio, il bardotto, aveva mangiato favette una sola volta e anche noi. Di uva però ce n’era tanta ed era di tutti, anche del bardotto, che spesso rallentava l’andatura uscendo di poco la strada, afferrava i pampini delle viti e stracciandoli li mangiava. A volte strappava dei grappoli di uva che ingoiava pian piano di nascosto.
Stratuzzi stritti e longhi21. Eravamo sprofondati in fossi di polvere che il bardotto quasi non si vedeva se non fosse stato per la testa con la folta crinièra e la lunga coda setolosa. Con la pioggia, la stradetta diventava un fiume e in alcuni punti si formavano delle cateratte. Incontravamo altri bardotti e il nostro nitriva e allungava il passo per farsi notare. Incrociavamo anche asini con carrètti carichi di uva da palmènto: cataratta e frappatu e alcuni caricati a varda22. Pochi muli e cavalièri con e senza staffa23 appartenenti al Principe e un magro cavalière che indossava una vecchia e arrugginita armatura con la celata alzata, l’aria stanca e il pavèse a tracolla.

– Devi sapere, (diceva Latincorrao) che il bardotto è un buon compagno: intelligènte, leggero e veloce, ha una estesa criniera che fa scappare le mosche ancora prima che si posino e con la lunga coda setolosa, oltre a scacciarsi le mosche cavalline, di tanto in tanto, accenna un saluto e mette tanta allegria. – (Quindi, si fermava un poco e magari dopo un pisolino aggiungeva) – E poi mangia poco, così ci fa risparmiare. –
Ai bordi della strada, vicino ai caseggiati, indugiavano opulènti asini che Latincorrao li riconosceva invece come maiali e, continuando a parlare, diceva: – Devi sapere che in questa terra di P, cresce tutto grosso e grande; pensa che ci sono grappoli di uva che una sola persona stenta a sollevarli; albicocche quanto una grossa melacotogna; pomodori marmanti quanto una zucca e ficu ri prima manu rossi quantu ‘a testa ri ‘n picciriddu24.
Sbalordito e con la testa ancora piena di vinacce, pensavo alla strada stritta e longa, a quegli strani paèsi con quei singolari nomi che ci eravamo lasciati dietro: il paèse di PRI, il paèse di A, il paèse di CA, il paèse di SÌ e di NO, alla straduzza che non finiva mai e che più avanti si andava più stretta diventava. Qualche caseggiato vecchio, un torrione grigio e dirupato, che davano un senso di solitudine e di malinconia, mentre il bardotto ci portava sempre più avanti, verso luoghi più antichi ed irreali, che lasciavano pensare a Dante, mentre travalicava i suoi tre regni.

In mezzo a tutto questo, sul promontorio di Pachum, esisteva un principato con dei caseggiati, chiamati “il paèse di P”, che non formavano un vero paèse, ma dei ruderi a distanza l’uno dall’altro, ognuno inserito in una vasta contrada.
Ogni rappresentante dei diversi caseggiati aveva il compito di apporre a vista dei segni distintivi, a mo’ di riconoscimento: una sorta di stèmma raffigurante “qualcosa”, ed era completato a volte con il nome, che quasi sempre era un soprannome.
Il Principe era nel suo grande ed ènorme castello, insediato nella sua grossa e corposa collina, dove in alto, in grande evidenza, si distingueva un enorme, smisurato, inusitato stèmma tutto dorato rappresentante il suo castello dorato che sovrastava il mondo tondeggiante, anch’esso dorato, con in basso un opulènto maialino a simboleggiare la fertilità di quella buona terra. Anche Lui, quando si mostrava ai suoi mustazzassalli, varbassori e massarsini, sembrava di color oro zecchino, può darsi per il riflèsso del castello o di quello spropositato stèmma, tanto, da prendere l’appellativo del “Principe di Villadorata”.
Dovete sapere che nel borgo di P, esisteva una gerarchia con in alto il Principe col suo stèmma dorato, seguito dai suoi mustazzassalli, cioè i vassalli con grandi e lunghi mustàzzi che spuntavano dagli angoli ancora prima del vassallo stesso che li portava; i varbassori, che erano i valvassori con una folta barba e i massarsini, che erano i valvassini del paèse di P, che custodivano e gestivano i podèri per conto del Principe, dei mustazzassalli e dei varbassori. Il clèro, che non poteva mancare e che comandava più di tutti. Poi c’erano i mìliti, molto fidati al Principe e all’ultimo gradino stava il popolo, che aveva il compito di lavorare la terra e non chiedere mai niente.
Tutti quanti: Principe con stèmma dorato; mustazzassalli con allungati mustàzzi; varbassori con folta barba; massarsini spesso con basettoni a cespuglio da coprirgli tutte le mascelle; clèro con tutte le sue parature liturgiche; ministeriali e sinnici con vecchie carpètte, bolle e cartacce in mano; siniscalchi con decori di prègio e merito al petto con comitive di cavalièri sui destrieri impennacchiati, con mazze a punta e alabarde, ben saldi alla staffa; tutto il popolo della glèba, con botti e vino; a volte, quando c’era, anche il terzo Federico, stavano in quella grande, smisurata piazza del paèse di P, grande una sarma, un tummunu, un coppu e un munniu, sopra una panciuta, grossa, opulènta collina rivestita tutta di verdeggianti vigneti, detta “la collina di PACHUM”.


Note

1 Marsigghiana niura: sorta di uva nera di buona qualità, margigrana.

2 Marvacìa duci: specie di uva e anche il vino di essa assai delicato e dolce, malvasia.

3 Massari: massai, dal latino “massa”. Nel medioevo, indicava il contadino che era a capo di uno o più fondi.

4 Nnaccaredda: sorta di uva bianca, di acini piccoli e di squisito sapore, di cui si fa un vino assai pregiato, che porta lo stesso nome.

5 Passulara: sorta d’uva di ottima qualità.

6 Pistammutta: dicesi del vino o mosto che ha bollito nella vinaccia, ma che appena pesto si imbotta, presone o vino vergine, pigia e imbotta.

7 Racinedda: uva turca, selvatica.

8 Muscateddu: spece di uva di pregiato sapore, moscadello.

9 ‘Nzolia: sorta di uva grossa, dolce con acini bislunghi, bianca e nera.

10 Ne’ cruveddi: nelle ceste,recipienti intessute di canne e altro.

11 Ciclu ro’ vinu: ciclo del vino.

21 Stratuzza stritta e longa: straduccia stretta e lunga.

22 A varda: a barda.

23 Cavaliere senza staffa: cavaliere di second’ordine. – Cavaliere con la staffa: cavaliere ben saldo al suo destriero, poiché la staffa gli consente appoggi rendendolo forte, capace e veloce.

24 Ficu ri prima manu rossi quantu ‘a testa ri ‘n picciriddu: fichi di primo frutto grossi quanto la testa di un bambino.

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