versiversacciversetti 3

di

Oravla Narratore


Oravla Narratore - versiversacciversetti 3
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 52 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6587-1119

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In copertina «Trycos» di Claudia Ricci


Prefazione

Nella silloge di poesie “Versiversacciversetti3”, Alvaro Aquili propone il mare magnum delle sue emozioni che nascono dalle esperienze della vita e dalle sensazioni che hanno accompagnato nel cammino, sovente, faticoso ed impegnativo.
In una miscellanea poetica, tutto si ritrova e si ricompone, come a ricreare la sostanza stessa della vita che ha permesso di continuare ad andare avanti, offrendo sempre nuova linfa vitale per procedere nel percorso.
Alvaro Aquili desidera ardentemente seminare le sue esperienze nelle varie liriche che rappresentano lo specchio fedele del suo modo di percepire le manifestazioni della vita; della sua capacità di sentire nel profondo tutto ciò che ha lasciato un segno; del suo desiderio di esprimere, sempre e comunque, i suoi stati d’animo legati a determinate situazioni esistenziali.
In primo luogo, e non potrebbe essere altrimenti, la memoria riporta al ricordo della madre che, con la semplice presenza nel pensiero che vola a lei, è ancora capace di “lenire ogni dolore”; e poi, il ricordo della figura del padre “quando filava sulla Lambretta” insieme a lui: e un tuffo al cuore fa capire che ora v’è il silenzio ed è lontano quel “senso della vita” che così fortemente agitava l’animo d’un figlio; e ancora, poesia densa d’emozioni, dedicata al figlio o alle persone care, come la sorella Graziella, la zia Santina e zio Attilio.
Ecco allora dipanarsi, tra una poesia e l’altra, l’intreccio delle varie direzioni del suo viaggio con gli incontri importanti e le persone conosciute e, magari, dimenticate; le numerose suggestioni del luogo natio, con gli incanti e le meraviglie di visioni delle quali sembra impregnata la stessa terra che ha visto il fluire delle stagioni della vita, dalla tenera infanzia fino alle considerazioni odierne.
Non v’è dubbio che la poesia di Alvaro Aquili sia pervasa da un forte sentimento religioso che si ripercuote sulla visione globale d’un uomo che offre la sua vita nella totalità delle sue emozioni: in alcuni casi, tornano alla mente, come a riemergere in superficie, ricordi sommersi, dispersi nei meandri del vivere ed immagini che parevano dissolte nel tempo, quasi a voler far sprigionare la fantasia, senza porre limiti al recupero memoriale, sempre intenso, sempre intriso di forte umanità.
Alvaro Aquili, come a fissare un diario dei giorni vissuti, non si lascia incantare dalle vanità della vita ma cerca, con coraggio e fermezza, di condividere le proprie passioni e di offrire, a piene mani, il suo senso d’amore per la vita: è forte la consapevolezza che pone a fondamenta dell’esistenza la gioia di condividere e di saper amare, ed infatti, come a sigillo della sua poesia, come monito che viene offerto dalla saggezza e dall’esperienza d’un uomo, scrive: “non aspettare per gioire d’un sorriso… per seminare l’amore intorno… per un abbraccio… per dare perdono… per condividere… per aprire il cuore”.
Alvaro Aquili, con la sua poesia memoriale, pone sul piatto della vita, con parole autentiche, il tempo vissuto: tutto ciò che ha comportato “dare” e “ricevere”, in fin dei conti, non ha più importanza, perché lui sa molto bene che conterà solo il “semplice ricordo” o come una poesia possa ancora svelare l’enigma di ciò che è stato.
Non rimane che ricercar, nel susseguirsi delle liriche, la sostanza stessa della vita. Come a ritornar indietro nel tempo per penetrare “veramente” la percezione reale dell’esistenza.

Massimo Barile


Note biografiche

Le parole percorrono la vita senza rispetto, infine. L’utilizzo delle parole-simbolo che Alvaro usa con parsimonia in questa raccolta vanno al contrario, come quello pseudonimo che scolpisce nei suoi libri.
Il Narratore “ignoto” suggerisce sensazioni che puoi leggere come col telepass, in entrata e in uscita. E sgraffignano l’aria, scompensano le convinzioni, allungano i pensieri. In fondo la storia personale di Alvaro Aquili riprende questa andata e ritorno senza quiete. Ed è la storia degli imprenditori, di quelli che sono partiti a due passi dal cielo, a mezza strada tra gli umbri e i piceni. Gente ibrida, in fondo, a metà strada tra locale e globale, stanzialità e nomadismo, vecchio e nuovo, tradizione e innovazione.
E l’hybris è un peccato, perché questa gente di mezzo sembra essere figlia della medietà, del conformismo, delle passioni senza passione è un altro genere, una via autonoma che non è incasellabile nelle nature note. Ed invece sono come un virus. Si adattano, e conquistano da dentro. I marchigiani-umbri mutano dialetto, s’insinuano in cerca d’identità nuova, tanto che quella di partenza è così antica che pur confondendosi non scompare.
È come il ciauscolo, trovato ora anche nelle tombe romane di Colfiorito, è un salame unico, ma che si spalma su ogni pane. Tanto che non ricordi il gusto del pane, sopraffatto da quel “cibusculum” che i soldati romani si son portati dietro. Insomma, gli imprenditori di questa schiatta hanno mantenuto il rigore del silenzio aspro dei Sibilillini ed insieme la vivacità del sottoscala della piana maceratese, la solitudine del pecoraro glocale (dagli orridi fantastici alla maremma internazionale e, ancora, ritorno) e la commistione del centro storico e della sua civis. Pensa alla donna, metà faticosa metà comandante di queste contrade che ha sostenuto il perdersi dei mariti cantastorie, dentro e fuori casa.
Il succo resta la siepe di Giacomo Leopardi, che esclude l’orizzonte delle grandi prospettive, anche se poi il padre Monaldo diceva che da ogni piccola finestra è possibile guardare il mondo. Non puoi capire queste storie incise di Alvaro (o debbo chiamarti Oravla?) se non lo spoglio di quell’ultimo sbrego di ieratismo della barba candida, per ritrovarlo a caccia di innovazione. Un’innovazione che rimbalza essa stessa, che va e poi torna.
Quando agli inizi degli anni Sessanta sbarca a Roma, a Centocelle circondato dai profughi dell’ultima guerra, ha ricominciato una storia d’impresa. Che ha sempre valorizzato l’immagine e la tecnologia della società del tempo reale e della comunicazione. Con un successo crescente che nel momento migliore ha condiviso con la terra di partenza, con l’ardire dei cieli, il sacrificio di giovani.
Come per tutti i battistrada si paga pegno, come per tutti i pionieri ci si perde nella frontiera. Il tempo – che resta galantuomo – salvaguarda il buono, l’intuizione, l’inquietudine dell’homo faber. Alvaro ha impresso i segni nella sua vita e in quella di chi lo ha conosciuto.
Il “fare” metropolitano spesso non lascia tempo al tempo, spazio alla pausa. Occorre – anche quando stai in poppa – ritornare sotto le sottane della Sibilla per recuperare il tempo al tempo. Basta una passeggiata notturna tra li fossi e le fratte che ritrovi le stelle, unico calore del pesto scuro. Anche se a noi, tristagnoli di provincia, piace pur sempre quel tra lusco e brusco.
Alvaro ora lascia poesie. E a ben vedere tra opere e parole il confine è tenue, molto meno impervio del tra il dire e il fare. Alvaro-Oravla è un treno andata e ritorno, dentro la memoria, dentro la storia personale, dentro le identità commiste.
Si viaggia sempre con il pensiero del ritorno, e il ritorno arriva d’improvviso, come un acquazzone a Giulo. C’è una discrezione di fondo che ci connota. Un disincanto antico che non fa godere dei successi più belli e neanche di disperare per le sconfitte più feroci. E l’arrendersi a una provvidenza divina ma anche naturale, in quel lasciarsi sopraffare dalle stagioni della vita come quelle del tempo. Solo insieme a questo passo antico e sospeso, puoi succhiare le parole di questa raccolta.

Renato Mattioni


versiversacciversetti 3


La conta

Da vecchio ti ritrovi
a tener conto,
se dei tuoi giorni,
che vissuto hai,
son stati tuoi,
o agli altri,
tu l’hai dati.
E pur la gioia,
se ti viene,
è nel pensar
che hai dato,
più che nel ricevere.
Nel vano e caduco
dell’esistenza,
conterà il ricordo
ed il sorriso
di chi non può più
far presenza.

Roma li 06-06-2005


Nella Valle

Nella Valle sono passato,
nessuno se ne è accorto.
Con altri ho viaggiato,
ma tutti ho dimenticato.

Da Lassù, siamo partiti,
del resto come tutti sanno,
Nel pullman troviam vissuto
nell’inceder peregrinato.

Lassù rimasto il Cuore
non ti pone condizione,
ma osserva il polverone
sin fine dell’escursione.

Lassù ai monti ritorna,
la Valle di te non ricorda,
ma nella Grandezza di Dio
il tuo essere apporta.

Ogni dato ritorna Lassù,
lì origine ed opposto,
dentro il moto circolare
siamo stati, prima che fu.

Labico 25-04-2005


Il sonno

Credi soltanto in Dio,
con tanta forza, pensalo.
Sempre, nel dormiveglia,
da figliolo, parlaci.

Tu corri, salti e voli,
anche se tu, non lo dici,
ma in cuor tuo, sai
di essere immortale.

Se inizi un progetto
e non lo finisci,
tanto, non ti preoccupi,
sai che lo finirai.

Tu non puoi morire,
se non lo vuoi.
Ogni buon traguardo,
raggiungere puoi.

No. Oltre non illuderti.
Mi spiace, non è così.
Sì, tu niente puoi,
se in breve ci rifletti.

Sonno che il Buon Dio
ci ha dato, è grazia
sì, la più preziosa
per lo intero Creato.

Quando il sonno
arriva, la coscienza
perdi, aleggiando
senza corporea forza.

Perché sol pensiero
ridimensiona l’io,
tal ti senti figlio
in man del Padre Eterno.

Roma li 18-06-2003


Giardino che gioia

La gioia, mi dai Signore,
in tutto quel che fai vedere.

Tu potresti anche abbandonarmi,
perché, non ho saputo meritarti.

Eppure, seguiti a spalmare
intorno a me, tutto lo amore.

Scendo in giardino dopo mesi,
svegli tutti germogli, come speri.

Penso tanti nomi in sintonia,
iniziale, come Gardenia.

Poi Giacinto, Giaggiòlo,
Giorgina, Giglio, Gladiolo.

A proseguir con il Geranio,
Gerbèra, Garofano, Gloxìnia.

Intenso giallo del Girasole,
la Ginestra. Altro la Graziòla.

Sono valide per la medicina,
Ginepro, Glicine e Genziana.

Per questo fine, certo benigno,
apprezzo molto, anche la Gramigna.

Roma li 28-04-2004


Terra mare cielo

Puntavam dritti al mare,
conoscere non è dato.
Sulla terra ci son nato,
ciel pronto a mirare.

Lambretta, Babbo in sella,
filavam strada Regina,
rettifilo della zona.
Vinghiato alla pelle.

In cuor, avevo fretta,
colmo tutto il mistero.
Saper del mondo intero
da conoscenza diretta.

Sentivo forte mancanza
dalle fonti imprecise,
venivan conferme schive.
Sapere… spinto oltranza.

La strada è lì finita,
su quella costiera,
per me, nulla più c’era.
Babbo, lì ferma la moto.

Nel silenzio conduce,
vedi chi ti accompagna.
Perché vedere insegna.
Non vedo. Il dubbio duce.

Ecco il mare. Ma dove?
Lì, lì… a noi di fronte.
Oh! Ma non vedo niente.
Il dosso, vuoto s’ode.

Superata la ferrata,
vedo solo il cielo,
a piè, teso il telo.
Mistero. Vita calata.

Con Babbo trovo conferma,
se quel che provo, vale
per altri, esser normale
senso, di vita eterna.

Roma li 18-05-2004


Ed il cuor ti dole

Anche quando
sei inquieto con tua madre,
chiamala nel sonno,
che venga a lenire il tuo malore.

Quanti difetti troverai
e per essi fastidio proverai.

Ma quando non potrai
che ad un ricordino dare importanza,
quel cattivo odore verificar non puoi
ed il tuo cervello ricorderà solo fragranza.

Allora il sospetto,
se tutto fosse dovuto
sì, ad un difetto,
ma del tuo olfatto.

Dunque, non far ritegno
all’impulso dell’ardore
tanto, dappoi, col tempo,
brucerai d’amore per il genitore.

a Federico

Labico li 17-04-2003 h. 02,30 (i dolori della colica renale)


Il ceppo grande

Mi è ritornato in mente,
solo questa mattina. Chissà
perché si era, nei meandri,
perduta. La memoria sveglia,
l’immagine che ritorna.

Nel cammurittu, dietro la
cucina, appena subito
dopo il piccolo gradino,
sulla destra, più di un muro
fisso, il ceppo troneggiava.

Diametro, più del metro.
Quando son nato, lì l’aveo
trovato. Mi era amico
quanto il Colle Antico,
lì di fronte alla finestra.

Or quanto mi fantastica
l’idea che, da secoli,
stava lì a far le sue
funzioni, aspettar colpi
di mannaia spacca ossa.

Ma sì, certo, secoli, perché
lì, per le montagne intorno,
non ci sono alberi grandi
così. Nemmeno a dire che,
fosse il trasporto, facile.

Quelle dimensioni sì
straordinarie, mi fanno
un effetto sì intrigante.
E corro con la fantasia,
ieri, vicino casa mia.

Roma li 26-09-2003


Commento a: “Il ceppo grande”

L’a. si sorprende, a 65 anni, nel ricordare un oggetto di Famiglia, il ceppo gigantesco.
La definizione di grande, qui sott’intende la presenza di altri ceppi, di varie misure, per i vari scopi di mattazione animali, ad uso cucina di Locanda.
I locali della Vecchia Osteria, sono gli stessi che ospitarono l’Antica Locanda del 1200, con Stazione per Postiglioni e scambio di cavalli. Il grande portale per le carrozze con il portone a quattro ante in quercia. Pur essendo questa struttura antica, ben più lo è tutta l’ala che si estende alla sua sinistra, quindi a Sud, e che trovasi posizionata perfettamente frontale rispetto alla Antica Pieve. L’importanza del luogo, nel tempo passato, lo si deduce dal ripetersi, in modo speculare, del servizio alberghiero. Come se l’aumentato transito dovuto alla posizione di crocevia degli interessi del Ducato dei Varano, del Ducato di Spoleto e la via per Roma, avesse portato, ad un certo momento, al raddoppio di quelle strutture.
Perché la logica, lo porta a pensare, dopo tanti anni che lo ha perso di vista. Non chiedendosi dove è andato a finire, bensì, da dove è provenuto.
I luoghi natii, li ricorda molto civilizzati. Pieve Torina, un fiore all’occhiello della Provincia Maceratese. Con strade, orti, giardini, campi ben curati. E poi, boschi, sì, ma con fusti grandi e non giganteschi.
Il pensiero va nei secoli, indietro. Il trasporto a quei tempi, non era agevole. Da ciò deduce che quel ceppo è stato ricavato lì vicino.
Allora s’incanta, meravigliato, ad una suggestiva visione. E conclude che lì, ove tutto è giardino, dovevano esserci boschi secolari con querce gigantesche.
Tra una nebbia atavica, volteggiano tutte le figure che la letteratura d’avventura ha radicato nel pensiero.


In quelle Fosse Ardeatine

Del tuo sangue vivo, la terra
imbevuta. Arrossata, la vedo.
Del tuo urlo, le mura di tufo
hai pregnato. Di notte, lo sento.

Di imbavagliarti speravano,
per questo, ti hanno lì ucciso.
Invece tu, dal Cielo non taci,
mi parli ancor. Di notte mi gridi.

E che anche io grida, grida per te.
Volto non c’è, ma vedo lo sguardo.
Di notte, perché anch’io grida,
a qualcuno domani. Dopo me.

Roma li 24-05-2004

Dedicata a Giuseppe BOLGIA, Alfiere dell’A.N.F.I.M. (Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri) nel caro ricordo di suo padre MICHELE, trucidato fra i 335 Martiri, alle Fosse Ardeatine.
Per il 60° Anniversario della cruenta storia del 24 marzo 1944.
Un giorno destinato a rimanere nella memoria, incisa a lettere di sangue.


Giuramento

Caserta 22 Dicembre 1955

Quanta acqua
sul giuramento
quella mattina.

Sul gran piazzale
a lato Reggia,
un velo d’acqua.

Sotto i piedi
sembrava avere
poggio soffice.

I battaglioni
come grossa massa
si muovevano.

A quella massa,
giovani Avieri
si marmellavano.

L’acqua scorreva
sotto la divisa.
Li evaporava.

Segnando il passo,
ammassati tutti
sotto porticati.

Tutti si sentivan
belli asciutti,
anche immortali.

Portavan calore
d’asciugar nubi
il pensare casa.

Più del chinino
che lì passavano,
cautelativo.

Roma li 21-01-2004


Pensando a Giacomo Matteotti

Che stratosferica distanza,
tra chi usò quei banchi
per difender l’indipendenza,
e chi, agli affari, presta i fianchi.

Chi ebbe un cuor per denunciare,
i soprusi a chi è più debole,
sapendo del rischio di morire,
nella Società dal grilletto facile.

Ma da dove, si potrà riprendere,
il senso della misura,
per abbassar lo sport del pretendere?
Perché oggi, tutto, è contro natura.

Siam messi, tutti, uno contro l’altro,
ognuno di noi è un’arma, pronta ad esplodere.
La strada certa è sola dello scaltro,
e chi in Cristo crede, non può altro che cedere.

Roma li 02-06-2005


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