A est di New York è sempre ora di cena

di

Paola Muzzolini


Paola Muzzolini - A est di New York è sempre ora di cena
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 238 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6037-7685

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Cristina è una donna non più giovanissima che è stata indotta da una serie di circostanze (un’esperienza traumatica giovanile, un lavoro non amato, un matrimonio in bilico e nel complesso una vita grigia) a rifugiarsi nei libri e in utopistici sogni di gloria.
Le sue amicizie sono quasi esclusivamente virtuali e l’unico rapporto reale è quello con un uomo conosciuto casualmente e di cui si innamora complicando ulteriormente la sua vita. Cristina è in perenne lotta con il suo pessimo carattere e non si lascia mai andare, nemmeno quando sarebbe la cosa migliore da farsi, forse perché fondamentalmente si detesta non si perdona. È una donna di questi tempi che non vorrebbe competere ma è troppo orgogliosa per non farlo e così non vive ma annaspa e si arrampica sugli specchi, alla continua ricerca di un cambiamento che non avverrà.


“I have know Paola Muzzolini for several years and witnessed her struggle as a writer. Paola has what it takes; she is determined. She has a strong voice.”

Dan Fante


“Conosco Paola Muzzolini da diversi anni e sono stato testimone del suo accanimento nel voler essere una scrittrice. Paola ha ciò che le serve: è determinata. Ed ha una voce forte.”

Dan Fante


A est di New York è sempre ora di cena


prima parte

Novembre 2000

“Dolce e gentile professoressa Lidia, era così che voleva apparire, ricorda? Dolce e gentile. E voleva che tutti noi, suoi allievi del primo anno del liceo classico Parini la chiamassimo per nome, per stabilire una “vicinanza”, per colmare il “divario”, ricorda?
In fondo lei allora quanti anni poteva avere, 25, 28? Non di più, ne sono sicura, e noi eravamo dei ragazzini di appena 16 anni. Io ero una ragazzina di appena 16 anni. QUELLA ragazzina di 16 anni.
E proprio ieri, mentre passeggiavo lungo il corso principale della mia città, dopo aver accompagnato mio figlio Steve dal dentista, io l’ho rivista. Quanti anni saranno passati? Si fa presto a fare il conto: dal momento che io ora ne ho 39 ne sono passati esattamente 23. Non l’ho trovata molto cambiata, sa? Stessi capelli neri, forse tinti a questo punto, stessa scriminatura in mezzo, stessi occhi grandi e spalancati, medesimo look finto casual da donna intellettuale e colta, sempre impegnata sul fronte di qualche causa di sinistra, magari a portare alta la bandiera dei diritti delle donne… Era sempre dalla parte delle donne, lo è ancora? Tranne forse quando le toccava di avere a che fare di persona con certe situazioni poco edificanti. Ricorda? Io avevo subito uno stupro, da parte di un ragazzo più grande di me che frequentava un’altra scuola e che faceva parte della mia stessa cerchia di amici.
Non voglio mettermi adesso a rinvangare il trauma, a raccontarle le ripercussioni che questo fatto ebbe su di me, anche perché è passato così tanto tempo che i ricordi si sono tutti fusi in un’unica nebbiolina a tratti densa e rarefatta.
Adesso sono grande, ma allora? Allora io cercavo comprensione, amicizia e conforto, anche da parte di certi insegnanti che col loro aspetto amichevole reso ancora più tale dalla loro giovinezza, davano ad intendere che avrebbero compreso qualsiasi cosa e sarebbero stati sempre e comunque dalla nostra parte.
E così, le dicevo, ieri l’ho rivista, mentre camminava a braccetto con un tipo che le si intonava alla perfezione, con tanto di cartellina professionale di pelle e volume rilegato sotto il braccio.
Mi venivate incontro e così io, per alcuni secondi, ho avuto modo di osservarla, ma soprattutto di guardarla negli occhi, anche se i suoi erano rivolti altrove, oltre di me, come se non mi vedesse.
Ed è stato allora che mi sono ricordata di quella volta (ero appena tornata a scuola dopo il turpe episodio) in cui le avevo chiesto di parlare con lei perché avevo qualche problema riguardo ad una delle sue materie. Problema irrilevante, devo dire, se rapportato a tutto ciò che avevo subito: la violenza da parte di quel teppistello che ingenuamente avevo scambiato per un amico, le visite mediche, la denuncia, gli interrogatori della polizia, ecc… Però, appunto per queste ragioni ero rimasta un po’ indietro con gli studi e avevo bisogno di aiuto. Ma non solo per questo, è ovvio che avevo bisogno di un po’ d’aiuto in generale, o quantomeno di un briciolo di comprensione, chessò… solidarietà femminile, considerazione, qualche parola giusta… E invece lei pensò bene di ricevermi in piedi in mezzo a un corridoio. Io allora ero una ragazzina e non ci feci caso, come forse non feci caso nemmeno al suo sguardo sfuggente.
Forse allora nemmeno sapevo che esistessero gli sguardi sfuggenti. Certo, mi ero accorta che quando le parlavo i suoi occhi roteavano da tutte le parti, ma non pensavo che fosse per non incontrare i miei. Adesso invece penso che forse le facevo schifo e che lei forse pensava che se ero venuta a trovarmi in certe situazioni forse era anche un po’ colpa mia.
Altrimenti come spiegare il suo atteggiamento riluttante?
Vengo al sodo: lei mi promise, con tutta una serie di “non ti preoccupare” che avrebbe tenuto conto delle mie difficoltà e mi liquidò, nel giro di un minuto o poco più, con un ampio sorriso rivolto, mi parve, al muro che si trovava alle mie spalle. E ovviamente non tenne punto in considerazione la mia situazione, a cui peraltro non accennò mai, e a giugno mi bocciò in tutte e due le sue materie (a mio avviso immeritatamente e inaspettatamente), che andando ad aggiungersi alla mia insufficienza cronica in matematica (questa meritatissima, come sempre) mi procurarono la mia prima bocciatura. Concludo: da quel momento, non so se a causa della mortificazione, o del senso di ingiustizia, ebbi un crollo delle mie sicurezze e a scuola non brillai mai più in nulla, come di tanto in tanto mi capitava di fare, e a stento riuscii a diplomarmi tre anni dopo. Iniziai a sentirmi una nullità e un’incapace e se adesso faccio un lavoro che odio e non sono una donna realizzata, bé è anche colpa sua. Tutto qui, ma ci tenevo tanto a farglielo sapere perché il vederla, ieri, mi ha fatto tornare tutto in mente, compreso il risentimento che nutro per lei per non avermi aiutata, capita, compresa. Un saluto dalla sua ex allieva Cristina.”

Ho scritto questa lettera tutto d’un fiato, dovevo farlo, e adesso mi sento soddisfatta perché mi pare di aver chiuso un conto aperto che fino a ieri nemmeno sapevo di avere.
Sì, sono vendicativa, e allora? Gli scontenti lo sono e io sono una scontenta innanzitutto per una questione di carattere. Carattere che forse si è ammaccato anche a seguito di quell’esperienza spiacevole di tanti anni fa. Ma adesso che ci ripenso, a quell’esperienza… (non lo faccio quasi mai perché io in fondo so di averla superata) credo che non sia stato tanto il fatto in sé ad ammaccarmi il carattere (che forse era già ammaccato), quanto il comportamento di chi mi stava intorno, che incise a mio avviso molto di più di quello dello stupratore-ragazzino. Compagni di classe che mi guardavano come se fossi un’appestata, amiche che all’improvviso mi davano meno confidenza e mi escludevano, genitori che sospiravano invece di parlarmi, insegnanti, appunto, che mai e poi mai toccarono con me l’argomento.
Sembrava che non fosse successo niente e invece intorno a me tutti erano cambiati.
In fondo cos’è uno stupro? Soprattutto uno stupro che non ha grosse ripercussioni fisiche come gravidanze e traumi permanenti? Certo per un po’ rimasi scioccata ma devo dire che non capisco quelle donne che hanno subito una violenza come la mia (e ne sono uscite fisicamente indenni) e che poi per tutta la vita ne rimangono condizionate e vanno alla televisione a piangersi addosso con il volto oscurato e la voce camuffata.
Basta così, argomento chiuso, adesso veramente non ne voglio parlare mai più. Ormai sono quello che sono diventata e in fondo poteva andarmi peggio. Ripiego la lettera e la metto in una busta e domani la invierò a quella cara signora.
Si è fatto tardi ma ho ancora del tempo a disposizione per leggere un po’ il mio libro, intanto che il sugo cuoce piano dentro la pentola di rame. Dopodiché dovrò darmi una mossa, mettermi a preparare la tavola, cucinare la pasta per me, Nic e Steve, sparecchiare, pulire la cucina, guardare la tivù, lavarmi, e andare a dormire possibilmente presto perché domani dovrò alzarmi all’alba per andare al lavoro. Ma prima…c’è questo libro che da quando l’ho iniziato non vuole lasciarmi andare e continua a strapparmi dolcemente ma con determinazione alle cose che dovrei fare… come se solo lui fosse la cosa più importante del mondo.
E lo guardo quasi con amore mentre lo prendo fra le mani.

Leggere fa bene alla mente. Leggere nutre lo spirito. Quante volte me lo sono sentita ripetere nel corso della mia vita? Praticamente fin dal momento in cui le lettere dell’alfabeto hanno instaurato sotto i miei occhi quelle magiche connessioni che hanno dato vita a parole, frasi e via via a pensieri, idee. Credo che la prima persona ad incalzarmi in questo senso sia stata la mia maestra delle scuole elementari, una signora piccolina, con due penetranti occhi azzurri e una zazzera di capelli gialli e ispidi in testa, che giustamente considerava la lettura un’ottima ginnastica per mettere in moto i primi meccanismi di questa pratica indispensabile, onde acquisire scioltezza e procedere spediti nella comprensione di un testo scolastico, o di una di quelle favole che le piaceva farci conoscere. Poi me lo hanno ripetuto professori, genitori, parenti, qualche amico. L’ho sentito dire alla tivù durante i talk show o nel corso di programmi culturali da persone autorevoli o meno che volevano spendere consigli preziosi per farci condurre una vita migliore. Ma anche mia nonna, che all’età di dieci anni aveva già terminato i suoi studi, me lo diceva spesso, e lei stessa negli ultimi anni della sua vita, quando ormai non poteva più continuare a svolgere il suo lavoro nei campi, leggeva, leggeva e leggeva.
Mi pare di rivederla, a casa sua, seduta sulla poltrona di finta pelle marrone collocata strategicamente di fianco alla finestra della cucina, mentre alzava lo sguardo dal libro che teneva sulle ginocchia: – Leggi che ti fa bene! – sbottava, come fosse un ordine.
E se invece facesse male? È vero, ci sono letture che ‘fanno male ’ in quanto appartengono a certe categorie, ad un certo prodotto.
La letteratura pornografica, ad esempio, non farà male in senso proprio ma non credo che aiuti ad allargare gli orizzonti. Anche se forse a certe persone riuscirebbe anch’essa ad apportare qualche beneficio. Ma all’ora opterei più per una narrativa a sfondo erotico, senza cadere proprio nella pornografia, che per definizione è un qualcosa di sbagliato.
Anche certa narrativa cosiddetta ‘rosa’ non trovo che faccia un gran bene a chi la legge, poiché spesso non scava nel profondo delle cose e tende a ridurre i suoi personaggi a degli automi immersi nelle loro melense lacrime d’amore, o conferisce loro dei propositi di vita che non vanno al di là del raggiungimento di una condizione di amore appagato, del denaro, della notorietà.
No, io quando parlo di letture che ‘fanno male ‘ mi riferisco con affetto a quei libri che mi coinvolgono a tal punto che mi fanno vivere su un altro pianeta, o quantomeno un po’ sollevata da terra, in una realtà diversa, parallela a quella che sto vivendo.
E mi condizionano, mi creano confusione, mi fanno mettere in discussione ogni puntino della mia vita. Quei libri che non appena ho finito di leggere, o proprio nell’attimo in cui i miei occhi stanno scorrendo le ultime righe dell’ultima pagina, mi fanno sentire orfana, abbandonata, così che d’impeto li ricomincerei daccapo.
Ma so benissimo che la cosa non funzionerebbe perché in realtà quello che io vorrei veramente è che non finissero mai, fino a far sì che la mia vita si fonda con quella dei personaggi coi quali mi sono sentita così in sintonia.
C’è stato un tempo in cui ciò che captavo attraverso i libri che leggevo rimaneva totalmente staccato dalla mia vita.
C’era il libro, con la sua trama più o meno avvincente, c’erano i suoi personaggi, più o meno simili a me, ma anche totalmente diversi da me, e poi c’ero io. E quando abbandonavo la lettura per dedicarmi a qualcos’altro lo facevo senza trascinarmi dietro sensazioni profonde che andassero ad intaccare ciò che mi accingevo a fare. Adesso invece non è così. Ora le storie che leggo mi si appiccicano addosso e si insinuano nella mia vita disturbandola e così io vivo una vita disturbata dai libri che leggo, ma il punto è che io ormai non potrei vivere più senza di loro e continuo a cercarli, sempre.
Sarebbe logico pensare che si tratta di libri avvincenti, con trame intriganti, o piuttosto libri di fantascienza, che mi introducono in mondi lontani e immaginari… e invece niente di tutto ciò.
I miei libri raccontano di vite disperate, conflittuali, di aspirazioni ridotte in cenere, di aspettative frantumate, di irrequietezze e frustrazioni quotidiane.
E quindi i personaggi a cui mi affeziono sono in genere dei tipi con qualche problema con gli stupefacenti, oppure sono gay, o scrittori che non hanno pubblicato mai nemmeno una riga e via dicendo. Sono persone che non stanno bene al loro posto ma che in fondo non saprebbero dove andare, né cos’altro fare.
Sono persone che hanno problemi con il loro quotidiano.
Sono dei sognatori che la vita non sempre premia, anzi quasi mai.
E sono tutti americani, o alla peggio inglesi o anglofoni…
Ecco quest’ultimo punto mi riesce difficile da giustificare.
Perché il mio eroe è americano? Perché le storie in cui mi tuffo si svolgono tutte negli Stati Uniti? E possibilmente a New York? Ebbene sì adoro la letteratura metropolitana. Ma perché?
Forse perché la metropoli rappresenta lo sfondo ideale in cui far muovere i miei personaggi preferiti: gente sola, diversa, scontenta, a cui va di assaporare tutto, di calarsi nei contesti più disparati, di conoscere le persone più assurde ed eccentriche ma che in fondo poi se ne sta a guardare dal suo angolino. E dove si trovano le più grandi metropoli? In America naturalmente. E così è lì che io mi trasferisco con la mente ogni volta che posso.
In America, negli Stati Uniti, e possibilmente a New York.
Nei confronti di questa città, a voler essere onesta, nutro un rapporto morboso, un’infatuazione che è divampata alcuni anni fa senza un motivo apparente. Sogno continuamente di andarci, e prima o poi lo farò, anche perché voglio fare un pellegrinaggio sui luoghi in cui si svolgono le vicende di molti romanzi che ho letto e che leggerò. In verità il libro che adesso ho fra le mani è di uno scrittore Californiano ed è ambientato a Los Angeles e come ho già detto lo sto praticamente divorando e mi ci immergo non appena ho un minuto di tempo; insomma è il classico libro che ci si porta dietro ovunque, anche in bagno, come fosse un’appendice del nostro corpo.
Anche adesso che sono ai fornelli e sto cercando di adempiere allo sforzo quotidiano di mettere insieme una cena decente per la mia famiglia ce l’ho qui, sul ripiano vicino alla pentola in cui sobbolle la peperonata. È un momento delicato e per qualche minuto mi ci dovrò dedicare mescolandola lentamente onde evitare che si attacchi al fondo. Alla radio stanno trasmettendo musica classica, precisamente il pezzo di un quartetto d’archi del 1930, ed io sto muovendo piano il cucchiaio di legno nella pentola mentre il libro del californiano è lì sul ripiano, alla mia destra, che emana i suoi influssi su di me. Sono tranquilla, va tutto bene, mi sento avvolta dal tepore della casa e protetta dal suo arredamento caldo e informale. Ma ad un tratto, senza un preavviso, mi sento sradicata da quel contesto, come se una forza esterna mi estrapolasse dall’ambiente circostante. Il bisogno di un qualcosa che non so definire si insinua in quel mare di tranquillità, insieme alla consapevolezza che forse tutto quello che ho non mi basta.
C’è un qualcosa di inespresso dentro di me che preme per uscire e nel farlo mi fa spuntare due lacrime che vanno a mescolarsi con la nostra cena. E allora mi aggrappo al primo bisogno che riesco a sviscerare da quel groviglio di desideri repressi e senza interrompere quel movimento lento e circolare della mano lo sguardo mi cade sulla copertina rosso cupo del libro: “anch’io voglio scrivere”, dico piano fra me. Scrivere, produrre qualcosa in grado di uscire dalla mia testa, dare finalmente una collocazione alla mia gioia e alla mia rabbia e trasformarle in una cosa concreta, di modo che io guardandola possa dire: l’ho fatta io, con la mia fatica, il mio impegno, l’ho fatta io.
A dire il vero io scrivo da sempre, ma si tratta per lo più di diari o riflessioni su ciò che mi succede intorno.
I cassetti della mia scrivania sono pieni di quaderni colmi di vita pulsante, che nessuno leggerà mai.
Ciò che io vorrei fare adesso invece è uscire allo scoperto.
Spengo il fuoco, tanto ho deciso che la peperonata è cotta al punto giusto, e mi accingo ad obbedire ad un impulso irrefrenabile che si è aperto un varco in questi ultimi minuti fra tutte le altre scemenze che da un po’ di tempo affollano il mio cervello. Accendo il computer portatile che sta sul tavolino quadrato di marmo alle mie spalle e ci metto di fianco il libro del californiano; poi mi ci siedo davanti, ripongo i miei ultimi residui di concretezza e parto per la tangente accingendomi a scrivere la seconda lettera della giornata: “Caro John, tu non puoi saperlo, dal momento che sei morto già dal 1983, ma io ho appena finito di trascorrere uno splendido week-end con te, totalmente immersa nella lettura di quello che la critica definisce il tuo capolavoro, ovvero di ‘Chiedi alla polvere’.
Dovunque mi trovassi avevo il tuo libro con me e non appena potevo lo aprivo e mi immergevo fra le sue pagine come i merli del mio giardino quando tuffano la testa dentro la pacciamatura delle aiuole alla ricerca di vermi, di nutrimento. E l’emozione che mi assaliva ogni qualvolta scoprivo delle affinità era pura, genuina, intensa. Quel tuo sognare di diventare un giorno uno scrittore non è forse anche il mio sogno? Quel tuo immaginare di essere intervistato in qualità di scrittore ormai famoso non è proprio ciò che ho immaginato io solo poco tempo fa durante uno dei miei soliti noiosi tragitti in macchina per andare al lavoro?
Ricordi? “Signor Bandini, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro che le ha fruttato il Nobel?”.
Certo, è tutto in proporzione! Io non mi sogno nemmeno di paragonarmi a te. Tu puntavi in alto, perché dal fondo della tua insicurezza sentivi di poterlo fare e quindi, giustamente, nei tuoi sogni c’era il raggiungimento della fama, del Nobel addirittura!
Tu aspiravi quantomeno a vivere col frutto del tuo lavoro di scrittore e tenacemente perseguivi il tuo scopo, lottando giorno dopo giorno, concentrando lì tutte le tue forze… Io invece a cosa posso aspirare? La mia vita è ben diversa da quella del tuo alter ego Arturo Bandini…; la mia forza è indebolita perché punta verso troppi bersagli diversi, è troppo tesa a mantenere gli equilibri, a far sì che tutto continui a scorrere dolcemente, comunque.
E il tuo coraggio io non ce l’ho, non ne avrei mai al punto da intestardirmi a mangiare arance a colazione, pranzo e cena pur di andare avanti per la strada tortuosa che ti eri scelto.
No, no, sono diversa da te, sono molto peggio… ma mi sento simile, nei sentimenti e nelle emozioni.
Mi basta pensare che forse ti assomiglio in certi atteggiamenti… che ne so… come quando stacco la penna dal foglio in cui sto scrivendo e mi passo la mano ripetutamente sulla fronte, lo sguardo fisso in un punto vicino, o lontano, in cerca di un’idea o nel tentativo di ordinare i miei pensieri e trasformarli in parole, frasi, spezzoni di vita. E quando le idee non vengono? Quando rimani lì, con la penna a mezz’asta e lo sguardo sempre fisso in un punto vicino, o lontano? Tu eri capace di rimanere così per ore, io ovviamente ho dei tempi diversi in quanto sono continuamente disturbata dagli svariati impegni della mia vita di tutti i giorni, e infatti posso passare al massimo mezz’ora in questa specie di torpore-estasi-meditazione, dopodiché succede sempre qualcosa, che so, devo mescolare il sugo che sennò si attacca, devo accompagnare mio figlio Steve da qualche parte, o rispondere al telefono… E la frustrazione di Arturo quando l’idea gli si poneva finalmente davanti ma lui non riusciva a trasferirla sul foglio bianco che usciva dalla sua macchina da scrivere! “A volte un’idea fluttuava innocente per la stanza, come un uccellino bianco.
Non aveva cattive intenzioni, voleva solo aiutarmi, l’uccellino.
Ma io lo colpivo, lo abbattevo coi tasti finchè mi moriva fra le dita…”. Ed è la mia frustrazione di quando un’emozione mi assale, all’improvviso, ma io non so tradurla in parole che la rendano forte e intensa come io la sento, o di quando rileggo le pagine che ho scritto e vi ritrovo solo banalità, banalità rese ancora più tali dalla forma semplicistica in cui io le ho trasformate in parole e frasi. Banalità, banalità scritte in modo banale: solo di questo sono capace. E il tuo Arturo Bandini quante volte si era apostrofato una nullità, un essere che era meno di niente: “Né carne, né pesce!” eri solito dire di te stesso nei momenti di sconforto. Ma lui ce l’aveva il talento, tu l’avevi, io no, io solo vorrei tanto averlo, possederlo, rubarlo a qualcuno per poter scrivere di tutto quello che mi passa per la testa. A volte mi rammarico di non avere una penna incorporata con cui poter scrivere in tempo reale tutto quello che ho qui dentro, subito, immediatamente, prima che si frantumi in migliaia di molecole e si disperda nell’aria per sempre.
E ancora una volta ti ho sentito così vicino…ed è stato quando hai rischiato di annegare nella baia della tua Los Angeles: sarei venuta io a salvarti, a tirarti fuori di lì, perché tu anche in quei momenti avevi davanti agli occhi il tuo dattiloscritto ed era “…come se stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta…”.
E anch’io sai, anch’io quando mi succede qualcosa di importante, ma anche solo una cosa qualunque, penso a quella cosa come se la stessi già raccontando, e immagino di scrivere ciò che sto pensando in quel momento. Così spesso mi capita di pensare già al passato, come se il pensiero che mi attraversa la mente in un preciso momento io lo immaginassi già lontano nel tempo, mentre lo sto raccontando. E ancora ti ho sentito vicino quando ti rammaricavi di non essere in grado di scrivere una poesia alla tua Camilla: “Oh Dio del cielo! Che razza di scrittore! Non riesco nemmeno a mettere insieme una quartina!”. Non sapevi scrivere poesie! “Per me amore fa rima solo con dolore” ti dicevi disperato, e io mi sono ricordata di quella volta in cui, anch’io alle prese con una poesia, cercavo disperatamente una rima per pane e mi veniva in mente solo cane, cane e cane! E alla fine vi ho rinunciato, per fortuna!
O.K, non mi rimane altro che avviarmi verso la fine della lettura del tuo libro, sì perché non l’ho ancora finito, mi manca poco… e poi…? Ciao John, spero che le mie parole ti arrivino, dovunque tu sia.
Spengo il computer e mi alzo dalla sedia.
Mi sento meglio, più soddisfatta, non so come dire ma se non l’avessi fatto forse avrei dovuto prendermi un tranquillante o bere un bicchiere di più a cena. E invece così non ne ho affatto bisogno. Potere della musica? Potere dei libri? Le due cose insieme combinate con chi non aspetta altro che farsene sopraffare?
E c’è da dire anche che il quartetto d’archi del caso specifico non è nemmeno il mio genere di musica, perché io sono cresciuta con la musica rock o pop ed è quella che di solito ascolto e che mi dà emozioni: da Patty Smith a Crosby Still e Nash, dai Genesis ai Police e via via fino a Moby, i REM, i Coldplay ecc…Eppure in questo caso a colpirmi sono state le note di un quartetto d’archi. Si vede che esiste una musica universale che va al di là del suo genere di appartenenza ed è in grado di colpire chiunque. Mi sento bene perché adesso so che comincerò a scrivere qualcosa, e non saranno le solite pagine di diario. Naturalmente non so ancora se ne sarò capace e se ne avrò la costanza ma voglio cominciare e lo farò con dei racconti brevi perché con la vita che faccio, la famiglia, il mio lavoro ecc… non so proprio come farei a produrre un qualcosa che assomigli ad un romanzo. Non riuscirei mai a mantenere una continuità né la concentrazione. Il racconto forse è un genere più semplice per chi ha poco tempo. Oh so bene che R. Carver non sarebbe affatto d’accordo con questa affermazione e mi rincresce contraddire questo maestro della short story, ma forse mi perdonerà se gli dico che seguirò fedelmente i suoi consigli leggendo il suo libro sul mestiere di scrivere. Giuro, prometto! Sì, lo so che sei morto anche tu ma sei ben vivo dentro di me e più che presente nella mia libreria. Sì, scriverò, per poter essere me stessa.
“Essere se stessi”: ho sempre odiato la sonorità banale di questa frase ma adesso mi pare che ci stia bene. Giorni fa ho ascoltato alla radio l’intervista ad un attore di teatro. Il giornalista gli aveva chiesto” Ma lei chi è veramente, l’uomo che sta sul palcoscenico, l’attore, o l’altro, quello della sua vita privata, lontana dai riflettori?”. Sì, mi rendo conto della banalità della domanda ma a me quella che mi è piaciuta è stata la risposta: “L’artista è se stesso quando produce la propria arte, Totò era veramente Totò quando recitava le sue commedie sul palcoscenico, non quando se ne stava a casa sua, il vero Van Gogh è quello dei suoi quadri, non l’uomo trasandato, povero, con l’orecchio mozzo… Charles Boukovsky, aggiungo io, è quello dei suoi libri e non l’ubriacone che si trascinava per le vie di L.A. con una bottiglia di bourbon dentro un sacchetto di carta e che veniva licenziato da un lavoro dopo l’altro”. E così io per essere me stessa dovrò fare, con convinzione possibilmente, la cosa in cui mi sono sempre espressa meglio
Naturalmente c’è anche, come sempre, chi guasta la festa, tipo un famoso psichiatra attraverso una rubrica che tiene regolarmente su un settimanale che ho acquistato un paio di giorni fa dal giornalaio sotto casa. Secondo questo tipo una delle cause della depressione che affligge un numero sempre più alto di persone è da addebitare alla società che ci spinge verso mete sempre più alte, talvolta immaginarie, e allo stesso tempo non ci insegna ad affrontare le piccole difficoltà quotidiane, le frustrazioni, l’insuccesso e la solitudine, bé anche la iella; ci fornisce continuamente modelli irraggiungibile così finisce che persone comunissime sognano magari di diventare celebri, di apparire un giorno in televisione o di vincere un premio. Concludeva dicendo che l’essere è stato sostituito dall’apparire.
Appunto, non è che anch’io confonda il mio bisogno di ‘essere’ con quello di ‘apparire’? In questo caso facendo una cosa che un giorno potrò con orgoglio (e/o con superbia) mostrare agli altri? Sempre che ci riesca è ovvio, perché c’è sempre il rischio, diciamo pure la fondata possibilità, che io fallisca nel mio intento e diventi ciò che in fondo sono già e cioè una persona normale, frustrata e a giorni un po’ depressa. Sento il rumore di una chiave nella toppa e un secondo dopo la porta di casa si spalanca facendo entrare mio marito Nic e mio figlio Steve. Nic è Nicola e Steve è Stefano, sia per l’indubbia comodità insita nella consueta abbreviazione dei nomi che superano le due sillabe, sia perché suona affettuoso, ma innanzitutto per il mio vezzo di americanizzare i nomi.
E qui si torna alla mia infatuazione per gli States.
In pochi minuti ci ritroviamo tutti insieme per la cena seduti al tavolo della cucina dal quale ho fatto sparire il computer.
Sotto la luce della lampada che pende dal soffitto i piercing di Steve luccicano in modo sinistro, ma credo che tutto sommato mi piacerebbero qualora fossero conficcati in un volto amico, che mi sorride e magari anche mi parla qualche volta.
E invece appartengono al viso di Steve che non perde occasione per essermi contro. Così io i suoi piercing li odio, tanto più che vengo continuamente accusata da Nic di averglieli permessi, come se lui avesse fatto qualcosa per impedirglielo.
Il sunto della situazione matrimoniale mia e di Nic attualmente è questo: essendo Nic primario del reparto di Neuroradiologia dell’ospedale di S. Giorgio, ovvero la piccola città del Nord est in cui viviamo, non fa altro che ripetermi quanto lui sia impegnato e sotto stress mentre io invece sì che avrei tutto il tempo che voglio per rilassarmi e far girare dritte le cose a casa.
Io invece sono segretaria in uno studio legale associato che si trova ad una ventina di chilometri dalla nostra città; per fortuna, nel senso che preferisco mantenere le nostre vite lavorative possibilmente molto separate, ma tutto questo tempo che dice Nic non mi pare proprio di averlo ed ora che ho deciso che mi metterò a scrivere racconti mi sa che ne avrò sempre meno!
Temo che dovrò scrivere di nascosto.
Già me lo sento il suo sarcasmo: “Com’è Cristina che stasera sei in ritardo con la cena? Ah già…adesso ti sei messa a fare la scrittrice… scusami tanto, l’avevo dimenticato…”.
Una volta eravamo molto innamorati ma poi è successo che una mattina di alcuni anni fa eravamo a letto ed io stavo dormendo e ad un tratto mi sono svegliata ed ho aperto gli occhi e mi sono accorta che lui mi stava guardando ridacchiando sommessamente – Cosa c’è? – gli avevo chiesto – Ah, ah, dormivi con la bocca aperta… non eri proprio bellissima – mi aveva risposto lui. In quel momento ho capito che il nostro grande e immenso amore si era un po’ ripiegato su se stesso, diciamo che aveva perso un po’ della sua tonicità e vigore. Ma, si sa, sono cose che succedono e non per questo ho chiesto il divorzio, solo che da quel momento in poi mi sono intiepidita, e anche un po’ offesa a dire il vero. Di certo ho avuto la certezza che se una volta gli sarei sembrata bellissima anche mentre dormivo con la bocca aperta e magari con un rivolino di saliva che mi scendeva dall’angolo della bocca, ora non più.

[continua]

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